Immaginare che tutti i popoli vivano in pace
di Maurizio Bassetti

Sommarietto: L’appuntamento di Firenze del 6-10 novembre ha costituito un momento importante per il movimento no global che ha dato segno di maturità e ha posto all’attenzione moltissime questioni che hanno bisogno però di una messa a punto più chiara.

Un mare di giovani

Sono stato al Social Forum Europeo e mi sono immerso in un mare di giovani: giovani attenti, ordinati, colorati, avidi di conoscenza, entusiasti e gioiosi, una delle parti migliori della nostra società. Chi denuncia l’insipienza giovanile, il disinteresse e il disimpegno delle nuove generazioni avrebbe dovuto venire a Firenze dal 6 al 10 novembre: non tutti i giovani sono “cretini”…

60.000 persone, in gran parte appunto giovani, hanno affollato, riempito fisicamente, ogni spazio della Fortezza fiorentina per tre giorni dando filo da torcere alla macchina organizzativa che è riuscita però a reggere l’urto, dando prova che è possibile e necessaria la collaborazione tra movimenti, “spinte dal basso”, e istituzioni.

Anche la superba manifestazione di sabato 9 novembre per la pace e contro ogni guerra è stata un’occasione felice di incontro, di dimostrazione pacifica delle idee, ha mostrato la piena maturità di chi manifestava e di chi sorvegliava, spazzando via tutte le polemiche e i velenosi tentativi di discredito verso chi cerca di costruire un’alternativa di un mondo più giusto e vivibile.

Più che un successo personale del presidente della Regione Toscana Martini e del sindaco di Firenze Domenici, la riuscita di questo appuntamento può costituire un esempio di interazione tra associazioni, volontariato, spontaneismo e istituzioni, gruppi organizzati.

Ma oltre all’aspetto organizzativo il problema del rapporto tra il movimento no global e partiti e istituzioni è politico: quello dei no global deve rimanere un fenomeno alternativo e quindi separato da ogni forma tradizionale o piuttosto dialogare in modo organico con i partiti e ricercare il momento della mediazione politica istituzionale? Questa seconda strada mi sembra più opportuna ed è stata indicata anche da Pietro Ingrao nel suo intervento di sabato mattina come necessità storica perché il rinnovamento coinvolga anche i parlamenti e l’azione degli stati. E qui tocchiamo uno dei nodi ancora irrisolti del Social Forum: a quale modello di democrazia far riferimento.

Il sistema democratico

Gran parte delle associazioni, dei giovani intervenuti esprimono una profonda sfiducia nei governi, nei parlamenti e nelle istituzioni statali o internazionali quali si presentano nella maggioranza dei casi. E non solo dei regimi dittatoriali ma anche delle nostre democrazie occidentali sempre più condizionate dai poteri economici, dai condizionamenti mediatici, dai ricatti delle superpotenze. Questo porta in certi casi ad un’opposizione non solo verso i governi o una parte politica al potere ma anche verso il sistema istituzionale attuale. Il leader francese di Attac Christophe Aguiton, ad esempio, ha sostenuto nel suo intervento dell’8 (nel dibattito su Non violenza, disobbedienza e conflitti sociali) il dovere alla disobbedienza all’ONU, che dimostra “un piatto servaggio agli USA che gli toglie ogni credibilità e non serve più una riforma dell’ONU ma la sua abolizione”. Pedros Costantinou del gruppo greco di Genova 2001 ha invocato il primato della “lotta dal basso” e della rivoluzione e ha riproposto un modello di democrazia diretta dove “non ci si fa più rappresentare con un voto ma ci si rappresenta da noi stessi”.

Sono posizioni neoanarchiche o rivoluzionarie che convivono con prospettive invece inserite nelle dinamiche delle lotte politiche contro governi di destra o conservatori all’interno del gioco democratico parlamentare. Ma certo la ricostruzione di una cultura democratica che colleghi strettamente la rappresentanza parlamentare con le esigenze della società civile rimane il nodo centrale da sciogliere. E’ necessario che la spinta dal basso di movimenti come questo porti a quella riforma della politica di cui abbiamo bisogno nella coscienza che ogni cambiamento del sistema o nuovo sviluppo deve essere collegato alla democrazia.

Certo la democrazia è minacciata dai condizionamenti mediatici e bene hanno fatto molti dei relatori a puntualizzare l’importanza del controllo dell’informazione che diviene un problema di democrazia: come può esserci democrazia se esiste una sola fonte di informazione? Il rappresentante cubano Carlos Tablada (durante il seminario dell’8 Il movimento e la guerra) ci ha ricordato come nel mondo il dominio dei media è nelle mani di non più di 40 persone con la conseguente creazione di un pensiero unico. Giulietto Chiesa ha denunciato la situazione italiana dove esiste un monopolio di fatto dei mezzi di comunicazione e l’informazione è “cattiva”, “drogata”, “falsificata” ma non solo, anche l’intero palinsesto delle televisioni è “drogato”, funzionale a quei non-valori proposti dal potere. Heidi Giuliani, madre di Carlo, in modo provocatorio e quasi disperato invitava a parlare, a fare comizi dovunque, a costringere la gente ad ascoltare un’informazione alternativa.

Sono vecchie questioni che acquistano oggi un rilievo particolare nell’era della globalizzazione per l’utilizzazione di quella che appare l’unica risorsa possibile per il cambiamento ovvero il sistema democratico.

Gli strumenti di lotta

Un altro dei nodi irrisolti del movimento appare la scelta dei metodi di lotta. La parola d’ordine più comune è stata il “pacifismo”, ma spesso questa è stata presentata più come una risposta alla guerra che come una proposta di metodo, più un fine che un mezzo, lasciando nell’ambiguità come si ottiene la pace. Di fronte al problema palestinese tutti hanno acclamato, e giustamente, l’accorato appello di aiuto del rappresentante palestinese Mustafa Barghouti contro la terribile occupazione militare israeliana con il coprifuoco, la distruzione delle case, l’innalzamento di muri, la realizzazione di un vero e proprio apartheid. Ma niente è stato detto delle azioni terroristiche palestinesi, che certo non sono “pacifiste”. Ammirevoli invece le proposte di Vittorio Agnoletto che si è detto disponibile, come già nel passato, a rischiare la vita per interporsi senza armi alle violenze militari contro i civili in Palestina e anche in Iraq. Ma il nodo non è risolto e a puntualizzare l’importanza del tema è intervenuto un grande personaggio della storia, Ahmed Ben Bella, il primo presidente dell’Algeria libera, che ha sottolineato la differenza tra guerra di stato, da ripudiare, e guerra di un popolo per la sua libertà, come è stata la lotta di liberazione algerina contro il colonialismo francese, che, come tutti sanno (e come documentò bene Gillo Pontecorvo nel suo famoso film La battaglia di Algeri), ha utilizzato anche l’arma del terrorismo. Il giudizio sul terrorismo, qualunque sia l’obiettivo, dovrebbe, a mio avviso, essere netto di condanna, pena una contraddizione inconciliabile con qualunque ripudio della violenza; non può bastare dire che il vero terrorismo è quello dello stato che usa la repressione o l’intervento militari, ogni azione terroristica che uccide innocenti indifesi, anche se comprensibile se nata da condizioni di disperazione, va comunque condannata e rifiutata come metodo di lotta.

Ma, anche senza l’uso del terrorismo, la lotta armata rivoluzionaria di un popolo per la sua libertà è un tema con cui fare i conti per un movimento che voglia essere del tutto pacifista. Bisogna fare chiarezza: l’uso della violenza è legittimo o no? Il mito di Che Guevara, che animava i giovani degli anni sessanta e settanta, ritorna anche nelle bandiere di molti giovani di oggi. Quale significato ha assunto oggi? Come si concilia con l’esigenza del pacifismo, del ripudio di ogni guerra?

Queste domande si collegano allora alla rivendicazione del pacifismo assoluto che esclude ogni guerra e non crede alla possibilità di un intervento militare umanitario, di una guerra di aiuto alle popolazioni oppresse o di appoggio ad una lotta di liberazione o di difesa di una minoranza oppressa. Certo difficilmente gli interventi degli Stati Uniti, come sono stati attuati, riescono a convincere che siano stati animati e realizzati solo con questi intenti umanitari, ma la questione rimane aperta e almeno sul piano teorico se si accetta la possibilità della lotta armata si deve esser pronti ad accettare anche l’intervento militare umanitario, se mai si riesca a realizzarlo davvero. Ma potrebbe diventare un argomento di studio, per ricercarne le modalità, i limiti ecc., senza più chiudere gli occhi e rimanere impotenti di fronte ai soprusi dei prepotenti.

Di questa tematica non si è parlato al Social Forum, preferendo escludere la possibilità dell’esistenza di tale strumento per la realizzazione della pace e non prendendo posizione chiara sul terrorismo e sulla lotta armata di liberazione.

Forse più spazio avrebbe potuto essere dedicato allo studio di forme di lotta non violenta, che pure sono state accennate. La “non violenza attiva” è infatti una metodologia di lotta complessa e di difficile attuazione, non un semplice slogan. Alex Zanotelli ha fatto bene a dichiararsi per la non violenza attiva da contrapporre ad un mondo violento e a richiamarsi alla lezione di Gandhi, di don Milani fino ricondursi a Gesù considerato da lui il fondatore della non violenza attiva. Ma è necessario anche riempire di contenuti lo slogan; forse non tutti ricordano il duro esempio gandhiano della satyagraha (il metodo della “forza della verità”) per la realizzazione della ahimsa (la non violenza), attraverso l’hartal (lo sciopero), il dharna (il digiuno), il boicottaggio, l’obiezione fiscale, la disobbedienza civile e neppure si ricordano le difficoltà incontrate, la necessità di una mobilitazione collettiva, le dure repressioni, le forme sempre nuove inventate dal Mahatma. E’ un terreno tutto da scoprire e inventare e forse potrebbe diventare il punto di forza e di unificazione di un movimento che già, ma in modi troppo episodici o isolati, ha utilizzato forme tipiche della non violenza attiva, come le campagne di boicottaggio di multinazionali, la disobbedienza fiscale, gli scioperi, le occupazioni simboliche, la disobbedienza civile.

Un altro mondo è possibile

Anche la definizione degli obiettivi, che apparentemente sono quelli più chiari e omogenei, presenta una serie di problemi e di perplessità. Unificanti sono gli obiettivi della pace e della lotta al neoliberismo, o meglio alla gestione attuale della globalizzazione, da cui il nome stesso del movimento no global, che qualcuno propone di cambiare in un più corretto new global. Ma il rischio è di appiattirsi in un generico antiamericanismo di vecchia memoria o a prospettive veterocomuniste: bruciare la bandiera americana o innalzare stendardi rossi, indossare magliette del CCP o cantare l’Internazionale o Bandiera rossa, al di là del colore non porta molto lontano, non ci prospetta orizzonti nuovi e anzi dà credito a chi accusa il movimento di “comunismo”, “stalinismo”, “maoismo” che a me pare non hanno niente a che vedere con i no global.

Importante invece la presenza di economisti e studiosi della globalizzazione che possono mostrare analisi approfondite della complessità del mondo contemporaneo e indicare strade alternative, come l’esperto egiziano Samir Amin, lo studioso filippino Walter Bello, la scrittrice canadese Naomi Klein, l’economista indiano Amya Kumar Bagchi, il cubano Carlos Tablada e tanti altri meno noti che hanno animato i numerosi e affollatissimi seminari che in contemporanea si svolgevano nelle varie aree del Social Forum di Firenze. Solo attraverso l’analisi si può giungere a individuare il cammino e l’alternativa. E l’analisi deve essere in grado, come già è stato mostrato dai grandi studiosi come Edgar Morin (ancora di lezione il suo Terra-Patria), di collegare i vari fenomeni tra loro, di assumere quell’ottica planetaria (come anche Balducci aveva intuito) che permette di inquadrare l’inquinamento, la guerra o la fame nel mondo in una interdipendenza con il nostro benessere, lo sviluppo industriale o il progresso sociale ed umano permesso solo ad una minoranza di stati e persone.

Le risposte dunque vanno ricercate proprio invertendo le dinamiche attuali, i rapporti di forza che costringono l’80% della popolazione del mondo a non disporre che del 20% delle risorse, le politiche di militarizzazione della globalizzazione, la gestione dell’economia da parte delle multinazionali ecc. e proponendo invece la democratizzazione della gestione delle risorse, il governo mondiale dell’economia, il primato del progresso umano di tutti sulla logica del profitto ecc., riuscendo a collegare lo sviluppo con la libertà e la democrazia, anzi come ci insegna Amartya Sen lo sviluppo è libertà. Solo in un quadro così complessivo avrebbe senso l’obiettivo della pace, una pace nella giustizia, una pace non imposta dalla forza per mantenere i privilegi di pochi, ma ottenuta con la distribuzione dei beni della terra in modo equo e solidale.

E in questa ottica, tutta balducciana, si è levato il grido di Alex Zanotelli contro la “follia collettiva” che spende 800 miliardi di dollari per le armi mentre si potrebbe risolvere la fame del mondo con solo 13 miliardi di dollari o progetta lo scudo spaziale per 70 miliardi di dollari e il potenziale atomico per 60 miliardi senza far niente per fermare la distruzione ecologica che tra 50 anni non potrà più essere fermata; è questa la vera violenza, anzi una violenza che è sfuggita ad ogni controllo, “una violenza apocalittica” contro la quale bisogna compiere una scelta radicale non violenta, riscoprire “la società della tenerezza”, della solidarietà, dell’uomo solidale accanto all’altro uomo.

Durante il corteo di più di 500.000 manifestanti festosi si è levata ad un certo punto la musica di Immagine, il capolavoro di John Lennon, che forse più di ogni altra può rimanere il simbolo di quella giornata: “Immagine all the people living life in peace (…) Immagine all the people sharing all the world. You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one, I hope some day you’ll join and the world will live as one”.