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Il senso di un cammino
di Mauro Banchini

 

Una lunga e appassionante battaglia ideale per il riconoscimento di un ruolo professionale e terzo degli uffici stampa delle istituzioni, per la trasparenza e la partecipazione consapevole dei cittadini alla vita del «palazzo», sfociata nell’imperfetta, e in parte inattuata ma importante, Legge150/2000. I giornalisti della Pubblica Amministrazione possono e devono essere operatori liberi dell’informazione, pur nella loro dipendenza dall’Ente nel quale lavorano (la memoria dell’impegno condiviso con Giacomo Di Iasio per questo obiettivo, che distinguesse informazione da comunicazione). Ma gli sviluppi di una tecnologia e di un’informazione sempre più pervasive e veloci, l’avvento dei social network, l’affermarsi di una politica attratta dalle sirene populistiche sembrano oggi mettere in discussione questi risultati raggiunti e impongono di tornare a riflettere sul senso e sul modo di essere giornalisti-dipendenti del «palazzo».

 

Un lungo percorso condiviso

Rimpianto non solo per un collega, ma direi soprattutto un amico, salito al Cielo troppo presto (e salito, nessuno mi toglierà mai questo dubbio, anche per colpa di un uso smodato dei cellulari. Onde comprese).

Rimpianto che si estende anche al senso di un cammino che avevamo iniziato, con Giacomo, a percorrere insieme fin dalla fine degli anni Ottanta. Un cammino sul quale abitava la volontà di impegnarci in una di quelle «battaglie» (termine oggi desueto) «ideali» (aggettivazione quasi desueta come il sostantivo che la precede) che non avevamo certo inventato noi, che ci precedeva, ma alla quale riuscimmo a dare una connotazione di concretezza.

Mi riferisco al ruolo dei giornalisti nella Pubblica Amministrazione, al senso degli uffici stampa, alla voglia di rinnovare – puntando su trasparenza e partecipazione, come si diceva allora – il rapporto fra politica e cittadinanza, eletti ed elettori.

Tutto stava accadendo a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso, in un periodo dunque di trasformazione globale. Con Giacomo Di Iasio (era il 1986) e un terzo collega, risultammo vincitori di una selezione pubblica presso il Consiglio Regionale della Toscana: qui l’Ufficio Stampa aveva necessità di rinnovarsi, almeno in senso anagrafico, e la procedura a pubblica evidenza servì a questo, in preparazione di un primo concorso, che sarebbe arrivato due anni dopo, attraverso cui fu regolarizzato il periodo di precariato. Da questo concorso, e da quelli successivi, è passata una leva di colleghe e colleghi che nel trentennio hanno trovato occupazione stabile negli uffici stampa dell’ente Regione e di organismi derivati.

Eravamo tutti, alla fine degli anni Ottanta, giornalisti «pubblicisti». La legge ordinistica, rimasta sempre quella ma oggi assai modificata nelle prassi di sostanza, non prevedeva il praticantato in un ufficio stampa come occasione valida per essere ammessi all’esame di Stato e per diventare giornalisti «professionisti». Ma tali eravamo, almeno nel senso di ricavare il nostro reddito esclusivamente grazie all’attività giornalistica. Tali, comunque, ci sentivamo: professionisti.

Presidente dell’Ordine toscano era un bravo giornalista e un’ottima persona. Legato però – come tanti altri colleghi di una categoria che ancora poteva, per molti aspetti, somigliare a una piccola ed «esclusiva» casta – a qualche pregiudizio; uno, in particolare, pareva insormontabile: negli uffici stampa – ci sentivamo dire – non possono esistere giornalisti veri; un ufficio stampa non può essere utilizzato come strumento per ammettere all’esame di Stato. La legge, in effetti, prevedeva altro.

Erano in tanti, va detto, a pensarla così. Non solo il presidente dell’Ordine. E in tanti hanno continuato a pensarla così pure dopo. A volte con qualche motivazione oggettiva (il terreno era, e sempre resterà, a dir poco… arduo), ma più spesso assai sulla base di una visione arcaica di una professione che intanto stava, neppure in modo troppo lento, trasformandosi e mutando pelle.

Si decise dunque, con Giacomo, di presentare domanda all’Ordine della Toscana. Ben sapendo quale sarebbe stata la inevitabile risposta negativa da parte di un organismo che, in effetti, non poteva non darci che una risposta negativa. Ma era quello che ci serviva per poter ricorrere al «nazionale»: livello ordinistico dentro cui, nel frattempo, chi scrive era stato eletto dai colleghi (ricordo con tenerezza la circostanza che allora, nei primissimi anni Novanta, non aver compiuto 40 anni significava essere il più giovane, come età anagrafica, in un organismo dove non mancavano personaggi singolari, il cui unico senso pareva esser quello di poter venire, una decina di volte l’anno, gratis a Roma, nelle stanze dell’allora sede a fianco della sinagoga, esibendo il biglietto da visita «consigliere nazionale Ordine Giornalisti»).

In una azione di trasparente lobbismo, che Giacomo portava avanti anche grazie alla sua indubbia capacità di tessere relazioni, fummo aiutati molto dall’allora presidente della Commissione Giuridica: Gianfranco Garancini, docente universitario a Milano e avvocato a Varese, fu la persona giusta nel preparare un impianto giuridico che risultò determinante affinché il Consiglio nazionale dell’Ordine si esprimesse in senso favorevole al nostro ricorso.

E quella delibera, riguardante il nostro piccolo caso di giornalisti toscani presso l’Ufficio stampa dell’ente Regione, fu la chiave per aprire l’accesso al praticantato, e dunque al professionismo, non solo per noi ma anche per tutti i colleghi di tutti gli uffici stampa pubblici in tutta Italia. Allora e anche oggi.

 

Ingenui idealisti

Raccontata così, la storia può sembrare di scarso interesse per chi legge. A chi, in effetti, tranne ai più diretti interessati, può importare una rivendicazione come questa? A chi importa il fatto che i giornalisti di un ufficio stampa pubblico vengano riconosciuti non come «pubblicisti» ma come «professionisti»? Cosa interessa il passaggio successivo della rivendicazione di questi «operatori dell’informazione», cioè il riconoscimento della contrattualizzazione giornalistica?

Già, perché poi il cammino di Giacomo e di molti fra noi prosegue. Prosegue per un altro decennio: fino all’approvazione di una legge nazionale (la 150 del 2000) che, imperfetta, detta comunque alcune regole fondamentali per il nostro lavoro, mette al posto giusto alcuni paletti teorico-pratici, definisce ruoli e competenze nel rapporto fra il diritto del cittadino a essere informato su come viene esercitata la sua delega elettorale e il dovere delle pubbliche amministrazioni di farsi trasparenti (appunto, restando sul terreno della retorica, «palazzi di vetro»). Una fra le regole fondamentali? La distinzione fra attività di informazione e attività di comunicazione: solo alle prime possono applicarsi le regole del giornalismo; le altre sono, appunto, altro. Un’altra regola? In un ufficio stampa della Pubblica Amministrazione possono lavorare solo giornalisti.

Tessitore di relazioni, non solo tra Arezzo e Firenze ma anche in quella capitale politica dove nel frattempo andavano cambiando vecchi equilibri e vecchi volti, Giacomo fece un grande lavoro, trasversale, verso quella che sarebbe diventata «la 150». Rimane, però, la domanda: a chi queste antiche vicende possono interessare? Tornando alla passioni – ma pure alle illusioni – di allora, avanzo un tentativo di risposta: avevamo la presunzione, post giovanile, di stare scalando non versanti privatistici ma di lavorare per un progetto altro. Quanti confronti, con Giacomo, e quanti scambi di opinioni proprio attorno a questo aspetto… ideale! Nell’essere riconosciuti a tutti gli effetti come giornalisti e nel puntare sul contratto giornalistico, superando quello allora riconosciuto di «impiegati», avevamo la (ingenua?) voglia di essere una pedina piccola ma fondamentale di un gioco più grande di noi: volevamo essere determinanti nel porre pietre d’angolo per il rinnovamento della politica e delle istituzioni, avevamo l’ambizione di essere strumento non secondario, con tutti i nostri limiti, per quel diritto di cittadinanza che, stando dentro i «palazzi», troppo spesso vedevano offuscato se non tradito anche in istituzioni politiche all’apparenza ispirate a una visione progressista.

Si pensava di poter essere meno dipendenti, più liberi di fare al meglio il nostro lavoro (raccontare i «palazzi») potendo contare sul sostegno derivante dalla deontologia professionale (quella che obbliga ogni giornalista a raccontare «la verità sostanziale dei fatti» nonostante gli inevitabili «ostacoli» frapposti).

Si riteneva che poterci sganciare dal contratto dei «regionali» per ottenere quello dei «giornalisti» potesse costituire uno scudo di protezione davanti a pretese di un ceto politico che, nel frattempo, andava scoprendo l’importanza della comunicazione, si faceva sempre più attrezzato e scaltro, in un contesto di sempre maggiore deriva populistica, davanti alle piccole/grandi furbizie di una democrazia sempre più mediatizzata.

Alla prova dei fatti, caro amico Giacomo che sei scappato troppo presto, dobbiamo riconoscere che eravamo davvero ingenui.

 

La «150»

La «150» sta per compiere i primi 15 anni e giace, in molte parti irrealizzata. L’hanno però realizzata, e da subito, soprattutto in quella parte (ad esempio l’uso del «portavoce») strumentale per la voglia del ceto politico di veder valorizzata la propria «immagine». La contrattualizzazione giornalistica di noi che lavoriamo negli uffici stampa degli enti pubblici non si è mai concretizzata secondo quanto previsto dalla 150 e anche laddove è stata raggiunta si scontra di continuo con ostacoli e tendenze contrarie (la burocrazia, in particolare l’alta burocrazia, non ci ha mai troppo amati in questa nostra rivendicazione ideale. Facile capirne i motivi: più i palazzi sono davvero trasparenti e più le informazioni si conoscono, meno forti sono certi poteri, meno efficaci sono certe posizioni più o meno di rendita).

Nel frattempo è anche cambiato, più volte, e sta cambiando di continuo, lo scenario anche tecnologico oltre che quello istituzionale che ha, da tempo, già svuotato di senso ogni tipo di assemblea elettiva, per vedere l’esercizio del potere reale correre rischi di una lontananza sempre maggiore da cittadini sempre più sommersi sotto una mole di informazioni troppo spesso ipocritamente funzionale a non far capire, a nascondere, a occultare.

I quotidiani in carta stampata vendono sempre meno. Inchieste e approfondimenti costano troppo. L’imperativo sta tutto nella velocità. In molti ci informiamo soprattutto sul Web. Ma fette sempre più vaste di popolazione non si informano neppure più o si informano, distrattamente, in un ambiente dove è facile capire che finirà pure Berlusconi ma che con il berlusconismo faremo i conti chissà ancora per quanto. L’irrompere dei social è stato bene colto da un ceto politico che trova sempre più comodo fare a meno delle antiche mediazioni – compresa la mediazione di un ceto giornalistico, a sua volta, sempre meno interessato alla coerenza con le sue carte deontologiche e all’esercizio di un mestiere «cane da guardia» – giustificandosi che così può parlare direttamente, e meglio, con il popolo.

Un popolo, come sappiamo bene caro amico Giacomo viste le tante volte che ne abbiamo discusso insieme, ingannabile e manipolabile con facilità estrema. Un popolo che frequenta le cabine elettorali in percentuali sempre più basse, dando vita a istituzioni sempre meno rappresentative della volontà popolare e sempre più inutili in quanto le vere decisioni vengono prese altrove. E nessuno sa chi le prende, in base a quali criteri, perché, con quali conseguenze. D’altronde porsi certe domande, avere certi dubbi, tentare certi ragionamenti viene visto come una pericolosa minaccia all’imperativo della velocità e della governabilità.

Ritornare alla ingenuità di quello che pensavamo una trentina d’anni fa, sul senso del giornalismo, un po’ di tristezza, caro Di Iasio, la mette.

 

La domanda più difficile

Alla prova dei fatti, abbiamo dunque sbagliato tutto? C’è davvero spazio, nei palazzi delle istituzioni pubbliche, per giornalisti che siano dipendenti di quelle istituzioni ma che, al tempo stesso, vogliano e possano lavorare non per l’«immagine» (della istituzione, ma soprattutto del «capo») ma per la sostanza e per mettere il cittadino in grado di conoscere?

Infine la domanda delle cento pistole, la domanda forse più difficile perché in tanti temiamo la risposta: al cosiddetto popolo sovrano («cittadino arbitro della democrazia», scrisse un quarto di secolo fa il costituzionalista Roberto Ruffilli assassinato dalle Brigate Rosse) interessa davvero essere informato? Ai «signori» del popolo, sempre più blanditi con le tecniche del marketing sperimentate ed efficaci per blandire i consumatori, interessa davvero avere la possibilità di «arbitrare»?

Oppure, a quel popolo, basta e avanza fare da spettatore o, peggio, accucciarsi come un mendicante?