di Severino Saccardi
E’un’occasione da non perdere, quella del dibattito sul compimento dei 150 anni dell’Unità nazionale. Al di là delle intonazioni puramente celebrative e delle polemiche politiche di carattere contingente e strumentale, è possibile impostare una riflessione, critica e pluralistica, capace di valorizzare la storica conquista dell’unificazione italiana e di metterne in luce i processi conseguenti e contraddittori di inclusione/esclusione da essa innescati a livello sociale e culturale. Fare il punto sul “mosaico Italia” pone in evidenza, oltre all’apporto delle diverse identità culturali che hanno concorso a formare la comune identità, l’attualità di una sfida che, in termini mutati, deve misurarsi sul rapporto fra coesione nazionale e valorizzazione della differenze.
Ci sono occasioni da non perdere. Tra queste, la partecipazione ragionata e attenta al dibattito sui 150 anni dell’unità nazionale italiana. Un dibattito, e un grande tema, da sottrarre certamente alla infruttuosa, e singolare, combinazione delle intonazioni puramente celebrative e di un’“attualizzazione” in chiave di contingente e strumentale polemica politica.
Tra Scilla e Cariddi
Tra Scilla e Cariddi, lo spazio proficuamente utilizzabile per una riflessione culturale, feconda e pluralistica, non è poco. Sia sul piano della riflessione storiografica, sia sul versante dell’attualizzazione delle grandi questioni che hanno reso il “caso Italia”così peculiare.
Il “mosaico Italia” a 150 anni dall’Unità. Con l’intitolazione del nostro volume abbiamo cercato di indicare l’orizzonte e i possibili contorni di un dibattito, a nostro modo di vedere, produttivo sulle grandi questioni attorno alle quali iniziative, mostre e convegni fioriranno in quantità.
E’ ad una realtà indiscutibilmente unitaria che rimanda l’immagine del “mosaico”. Che tale non è se le sue diverse parti non sono ben combinate e non formano insieme un’unica e riconoscibile immagine. Ma sono diverse e distinte le tessere, pur unite saldamente fra loro, che ne compongono la sostanza e ne evidenziano l’intima coerenza. E’, evidentemente, “a mosaico” che sono venuti a comporsi l’identità e il cammino dell’Italia. Un percorso, ed una costruzione, nonostante tutto, unitari, animati tuttavia da sensibilità, esigenze, punti di vista diversificati, che ancora si interrogano sul loro stare insieme. Di questo parlano la storia, dal Risorgimento ad oggi, ed il presente dell’Italia.
Nel nostro volume, grazie all’apporto degli amici che hanno accettato di contribuirvi con i loro testi, abbiamo variamente ragionato attorno a tre suggestioni tematiche cercando di darne conto: a) le grandi questioni culturali e politiche che hanno contrassegnato il controverso viaggio verso l’unità e le prospettive e le contraddizioni che ne sono derivate; b) gli elementi simbolici e storici ed i cambiamenti di carattere urbanistico che hanno segnato il singolare destino di Firenze, capitale “provvisoria” del neonato stato unitario; c) i problemi del “mosaico Italia” oggi, a partire dalla controversa, e più che mai attuale, questione del rapporto fra coesione nazione ed articolazione delle differenze nel nostro Paese.
Parlavamo, sopra, di un’occasione di dibattito da non perdere. E’ una considerazione che non intende certo partire dal semplice bisogno di “esserci a tutti i costi”, in un contesto in cui molte saranno le voci che si udiranno e che tenderanno talora a sovrapporsi. La motivazione di partenza che spinge a cogliere l’opportunità di partecipare al confronto, che si andrà dispiegando, è di tutt’altro tipo. Nasce dalla primaria considerazione dell’importanza che ha, nel nostro tempo, tornare a parlare della storia e delle radici lontane di tante delle questioni con cui tuttora ci troviamo a fare i conti.
Un indistinto presente
C’è una sorta di perverso incantamento da spezzare: oggi infatti non mancano sottolineature ripetute, e talora enfatiche, sul valore della memoria, che però si accompagnano ad una sempre più diffusa non conoscenza della storia. La dimensione dell’indistinto presente, avvolta nel flusso nell’indistinguibile rumore di fondo della comunicazione “globale, stinge il significato degli avvenimenti del passato e preclude all’elaborazione di progetti motivati del domani.
E’ importante, dunque, inserirsi criticamente negli spazi di una ricorrenza significativa, orpelli celebrativi a parte, come quella del compimento dei 150 anni della nostra unità nazionale. E’ un passaggio che aiuta a far giustizia di un certo pressappochismo, e di mode culturali, autonominatesi come “progressive” che hanno non poco condizionato l’impostazione di pedagogia e didattica dell’insegnamento della storia. Si pensi alle perorazioni tese a sottolineare l’esigenza, in sé sacrosanta e incontrovertibile, ma esposta all’approssimazione e all’unilateralità, come quella di sviluppare, comunque e a prescindere, “la conoscenza del Novecento” e della “storia recente” a scapito della conoscenza dell’Ottocento. Di per sé è difficile non essere d’accordo con tale posizione di principio. Ma come non considerare che il Novecento non è davvero isolabile dalla storia immediatamente precedente? L’elogio della “contemporaneità” a svantaggio della (trascurabile?) conoscenza delle vicende del secolo diciannovesimo è originato da un fraintendimento culturale e, ad essere sinceri, non ha prodotto buoni frutti.
Incomprensibile è infatti lo snodarsi del “secolo breve” senza chiarire i controversi, e precedenti, passaggi che si addensano attorno ai temi della dialettica economico-sociale della seconda “rivoluzione industriale” nei “punti alti” dello sviluppo in Europa, del conflitto di classe e delle connesse proiezioni ideologiche e, per quanto riguarda quello di cui ci andiamo qui occupando, della forza trainante dell’idea dello Stato-Nazione.
Temi che si incrociano, e che vengono al pettine, in quel cruciale passaggio che fu la “Primavera dei popoli” europei nell’anno-simbolo1848. Un anno in cui sulle barricate, e nei convulsi avvenimenti, delle città italiane ed europee, si affacciarono da protagoniste le rappresentazioni delle diverse anime ideali delle generazioni di allora. Che erano fatte di liberali e di nazionalisti, di moderati e di democratici, di borghesi e (novità del ’48) di nascenti movimenti proletari attratti dal nuovo verbo socialista.
Il 1848 (ma sarebbe meglio dire il ’48-’49: come sempre, anche allora, quello snodo storico fu, da noi, più lungo che altrove) rappresenta un fondamentale passaggio anche per l’Italia. Anche se gli ideali nazionali e liberali (alla fine di un biennio di lotte e di lutti) non registrarono che sconfitte.
Importante fu, quell’anno, per le vicende della nostra penisola, non solo per la prima guerra di indipendenza o per i moti che animarono Milano e Brescia, che toccarono Venezia e che avrebbero portato alla Repubblica Romana. Lo fu anche perché, in precedenza, si era avuta la novità dello Statuto albertino. Statuto liberale e monarchico-rappresentativo. Una delle cui novità fu la proclamazione della “tolleranza” per le minoranze religiose: valdesi ed ebrei.
Identità del “mosaico Italia”
Secondo questa impostazione, la religione cattolica rimaneva, dunque, religione di stato, ma gli altri credi religiosi potevano finalmente uscire dall’ombra e considerarsi emancipati. Tuttora protestanti ed ebrei italiani ne hanno memoria. E’ un capitolo evidentemente specifico, ma non certo “minore”, della storia e del costituirsi del pluralistico, ma unitario, “mosaico Italia”. Ne danno conto gli interventi (Bouchard, Caffaz) che ricordano il polivalente apporto di diverse identità culturali e religiose al complesso di eventi che porterà al compimento dell’evento unitario e che successivamente si inseriranno, comunque, nell’incerto, ma ormai definito, tessuto dello stato nazionale. Uno stato, lacerato da mille travagli e contrasti, che non sarà semplice far sentire a tutti come casa comune. E’ quanto ricorda Andreini riandando ai controversi passaggi storici che hanno caratterizzato il rapporto della nuova Italia “liberale” con la “questione cattolica”. Un’Italia, la cui classe dirigente, di ispirazione liberale (ma anche cattolico-liberale: v. in proposito, il ruolo del toscano Bettino Ricasoli o, sul piano culturale, del grande Alessandro Manzoni) e/o massonica (come ricorda puntualmente Scarlino), pur assestata sul richiamo al principio del “libera Chiesa in libero Stato”, sconterà non pochi momenti di contrapposizione con una Chiesa in palese ritardo nel metabolizzare la perdita del potere temporale. Una perdita di cui, pure, il Concilio Vaticano II non mancherà di accogliere il carattere sostanzialmente “provvidenziale” e purificatorio. E’una posizione, quest’ultima, che nei primi decenni dello stato unitario sarebbe stato difficile anche solo immaginare. Come sarebbe stato difficile immaginare il peso che, nel secolo successivo, il partito “cattolico” della DC avrebbe avuto nei fondamentali, e difficili, decenni del secondo dopoguerra. O come sarebbe stato inverosimile prevedere che, ai giorni nostri, al vertice stesso della Chiesa (come è stato testimoniato dall’inedita presenza del card. Bertone alla cerimonia del 20 Settembre) non si abbiano esitazioni nel definire, e nel rivendicare, la qualifica di “soci fondatori dell’Italia” per i cattolici.
In sede di bilancio storico delle vicende che, in maniera sostanzialmente imprevedibile, hanno finito per condurre all’Unità, va rilevato che non poche erano le storie, e le identità, che avevano da confrontarsi e da comporsi in una trama ed in un tessuto condivisi e comunemente riconoscibili. Avevano un ceppo comune, contrariamente a quel che sostengono i cultori di estemporanei e variegati filoni del revisionismo storiografico, gli italiani. Comune era l’eredità latina pur se variamente ibridata da mille influssi e variegati innesti (di Germani, Normanni, Arabi, Bizantini, Spagnoli…). Ma con un percorso successivamente diversificato e ramificato in storie multiformi per, più o meno, millequattrocento anni. Dalla fine dell’impero romano in poi. Siamo, non è male ricordarlo una volta di più, uno Stato unitario assai giovane a confronto delle storie secolari di realtà come quelle della Francia, della Spagna o del Regno Unito. Realtà, pur attraversate esse stesse, da non sopite contraddizioni interne (si pensi al peso delle tendenze autonomistiche o nazionalistiche delle rispettive minoranze: Baschi, Corsi, Gallesi, Scozzesi, per non parlare dell’irrisolto caso dell’Irlanda del Nord).
Nel momento in cui celebra il ricordo del compimento della sua unità, il nostro Paese è ancora a chiedersi: quante ne esistono di Italie? E’ nota la più diffusa delle risposte.
Omaggio alla grandezza di un tempo che fu
Di “Italie”, grosso modo, ce ne sono tre: dislocate al Nord, al Centro e al Sud della penisola. Con caratteristiche, mentalità, tendenze di fondo (e destini?) evidentemente diversificati pur all’interno della comune appartenenza ad un unico “sistema Paese”. E’ una rappresentazione che coglie degli elementi di verità. Di una tale differenziazione, d’altra parte, non è nuova la tendenza a ricostruire precise e ben individuabili radici storiche all’interno dei lunghi secoli in cui l’Italia è stata politicamente, ma spesso anche culturalmente, divisa e legata consuetudini ed appartenenze diverse.
Utile è, ricordare, a mo’ di spunto, quanto in merito è andato sostenendo uno studioso come Robert Putnam. Per il quale centrale è il riferimento alla formazione dell’idea di “senso civico” o, detto in altri termini, di cittadinanza. Un concetto e, verrebbe quasi da dire, un sentimento, che, nel cuore del Medioevo, sarebbero venuti maturando, a partire dalle esperienze comunali, nell’Italia centrale e settentrionale. E che sarebbero storicamente, e sostanzialmente assenti, nel cammino del Meridione d’Italia. Un cammino che, pure, si è dipanato talora all’insegna di una grande storia: basti pensare al profilo europeo raggiunto, in passato, da città come Napoli e Palermo. Una grande storia segnata politicamente, però, spesso dalla soggezione a dominazioni straniere, condizionata socialmente dal peso del latifondo in agricoltura e culturalmente destinata ad una sostanziale impermeabilità all’azione delle minoranze illuminate che, pure, hanno tentato di introdurvi il seme del cambiamento. Obbligato, in questo senso, il riferimento al drammatico fallimento di tentativi, generosi e minoritari, come quelli incarnatisi nella Repubblica partenopea e negli esperimenti “giacobini” di fine settecento, travolti in maniera cruenta dalle armate popolari della “Santa Fede” e dalla predicazione del cardinale Ruffo.
E’, questa, ovviamente una ricostruzione che può essere discussa e che si presta a più di una controdeduzione. Ma, probabilmente, tutt’altro che priva di elementi di validità. A partire dal sentimento di impotente e nostalgico rimpianto per un grande passato, che sembra assumere i contorni del mito che, in settori della società meridionale, tuttora alberga. Non è forse un caso se, qualche volta, come è capitato di constatare personalmente a chi scrive durante un soggiorno a Palermo, sul sepolcro di Federico II, nella cattedrale della città, vengano posti mazzi di fiori freschi.
Omaggio grandezza, perduta e irrecuperabile, di un tempo che fu.
Come che sia, il carattere non indolore dell’assorbimento delle regioni meridionali nello stato unitario post-risorgimentale e le contraddizioni da cui esse hanno continuato ad essere contraddistinte rappresentano un elemento di peso (come ricorda Mario De Grazia) all’interno di un bilancio serio e non elusivo dei 150 anni dell’Unità.
Il “profeta dei poveri” ed il regio carabiniere
Come, in forma didascalica ed efficace, è stato narrativamente trasposto nella ricostruzione cinematografica del senso della vicenda risorgimentale nel film di Saverio Martone, Noi credevamo, la realizzazione dell’unità d’Italia ebbe dei costi, umani e sociali, non piccoli.
Un’unità che si realizzò, intanto, per vie diverse da quella che non pochi avevano immaginato o sperato. E’ da manuale (di storia), la constatazione che, valutazioni di merito a parte, senza la sapienza diplomatica di Cavour senza il consapevole assenso di Vittorio Emanuele II e senza la realistica convergenza del repubblicano e democratico Garibaldi con l’opzione monarchico-sabauda, l’Unità non si sarebbe fatta. O, comunque, non si sarebbe fatta in quei tempi e con quella rapidità.
Ma la base socialmente ristretta sia del processo risorgimentale in generale, animato soprattutto da componenti elitarie (pur non essendo mancata la partecipazione momentanea di settori delle classi popolari ad esperienze come quelle del 1848, milanese, veneziano o toscano), sia dell’adesione consapevole allo stato unitario, avrebbero pesato a lungo sulla nostra storia. E, forse, se ne recano inconsapevoli tracce in elementi costitutivi e contraddizioni della nostra società che, tuttora, sopravvivono.
Il risultato storico importantissimo dell’unificazione fu conseguito, e comportò uno sviluppo politico successivo, sulla base di meccanismi, talora violenti, di inclusione/esclusione. Meccanismi che agirono ed ebbero ripercussioni e conseguenze gravi non solo nel Sud (la vexata qaestio della vera e propria guerra civile che si combatté a fronte del problema del brigantaggio), ma anche in altre zone, deboli e socialmente fragili, all’interno della “casa comune” che si andava comunque costruendo. Di che cosa se non dell’esclusione e della marginalità di ampi strati delle masse popolari nel nuovo stato unitario ci parla la vicenda drammatica della fine del toscano David Lazzaretti (ricostruita da Lucio Niccolai) , “profeta dei poveri” ucciso dal colpo di fucile di un regio carabiniere? Del significato della vicenda di Lazzaretti avrebbero parlato, in termini opposti, Gramsci e Lombroso. E ne avrebbe riproposto il carattere esemplare, come di una sorta di locale Gandhi ante-litteram, prodotto della cultura popolare degli “esclusi” del Monte Amiata, lo stesso Ernesto Balducci.
Né vi fu, certamente, solo il tema dell’esclusione sociale a rendere difficile il cammino dell’Italia (politicamente) ritrovata. Come oggi viene insistentemente, e talora pretestuosamente, ricordato dalle ricostruzioni storiche di un certo revisionismo “meridionalista”, il nuovo Stato nacque “piemontese”. Era inevitabile: era il Piemonte (grazie a Cavour e a Vittorio Emanuele II) che sull’unità aveva scommesso, che all’unità aveva pagato un prezzo alto in termini di vite umane e che in nome di tale, alto, obiettivo politico si era sobbarcato non pochi oneri. Inclusa, a compimento del processo risorgimentale, la rinuncia obbligata della subalpina Torino al ruolo di capitale. Ma tale caratterizzazione sarebbe apparsa non di rado poco digeribile ai nuovi concittadini del resto d’Italia. Non solo a molti meridionali, nostalgici delle “due Sicilie” o vessati dalle nuove tasse o insofferenti all’obbligo della leva militare, ma anche, in taluni momenti, agli abitanti di altre regioni della penisola. Lo stesso trasferimento a Firenze della capitale (con le opportunità e le trasformazioni, ma anche con le contraddizioni che comportò, come ricordano i contributi di Ceccuti, Huober, Trentanovi) suscitò non pochi moti di insofferenza tra gli scettici toscani. Accoglienze festose al re e insopprimibile, e costituzionale, curiosità per le novità a parte. Era, d’altra parte, del burbero e fierissimo toscano Indro Montanelli la convinzione (espressa in polemica con lo storico inglese Mack Smith) che il conferimento del ruolo di capitale nazionale al capoluogo toscano non solo non avesse comportato vantaggi, ma avesse aggiunto “oltre al danno, la beffa” .
La città come principio
Poteva essere seguita un’altra via per portare ad unità politica la dispersa comunità nazionale italiana? Non c’è storia che possa essere fatta, come è sempre giusto insegnare o ricordare, con i “se” e con i “ma”. Certo, diversa era l’opzione, assolutamente minoritaria, ma suggestiva ed originale, proposta dal federalista Cattaneo. Un’ipotesi (al cui valore rimanda Federici) che surclassava idealmente il dibattito allora imperante fra le più diffuse correnti dell’unitarismo mazziniano e dell’orientamento confederale di moderati “laici” o “neoguelfi”.
Proponeva, per il “mosaico Italia” (che tale, più o meno in questi termini, era, da lui, appunto considerato) una sorta di unità nella diversità. Ci sarebbe molto da dubitare che un redivivo Cattaneo potesse oggi entusiasmarsi per il riferimento che alle sue idee sembrano spesso riproporre gli esponenti del “nordismo” leghista.
Era democratico e radicale, oltreché federalista, Cattaneo. E, poi, aveva in mente non tanto le regioni (o macro-regioni come la “Padania”, improbabile ed immaginifico riferimento-simbolo della predicazione politica leghista) ma la “città come principio ideale delle istorie italiane”10. Ossia, il riferimento alla tradizione municipalista e democratica cui, prima, abbiamo fatto riferimento.
Certo è che la riproposizione di tematiche e di suggestioni “alla Cattaneo” (oltreché delle preveggenti intuizioni mazziniane sul rapporto fra emancipazione delle nazionalità e principio federativo europeo) può essere utilissima, oltreché per ricollocare storicamente alcuni aspetti del dibattito storico qui accennato, anche per attualizzarne e recuperarne fecondamente il senso.
Siamo, nel “mondo globale”, in un contesto in cui vengono a riconfigurarsi, e a ridimensionarsi, il ruolo ed il peso degli stati-nazione. Che devono, appunto, ricollocarsi e ripensarsi per permettere così di ritrovare un ambito nuovo alla funzione stessa della politica, nella più grande dimensione dell’interdipendenza planetaria. Senza smarrire, però, il senso della propria identità e della propria storia.
Con tutte i rilievi critici a cui la nostra storia ed il nostro percorso unitario possono essere sottoposti, sarebbe tuttavia un rischio mortale quello che correremmo se cessassimo “di essere una nazione” 11.
I “nuovi italiani”
In questo senso, il dibattito sui 150 anni dell’Unità può presentarsi come feconda, e non episodica, opportunità per una riflessione di fondo. Per fare il punto sulle questioni storicamente irrisolte che il tema della nostra irrinunciabile unità ci ripropone. A partire dalla coesistenza di tre “Italie” con elementi, abbastanza, evidenti di diversità fra di loro. E dalla giustapposizione, e contrapposizione, della storica (e irrisolta) “questione meridionale” alla (relativamente) nuova “questione settentrionale”.
Avere coscienza del passato e saperlo criticamente ripensare, valutandone le conquiste e misurandosi con l’eredità delle contraddizioni insolute, predispone ad affrontare con più maturità le questioni dell’oggi ed i disegni per il domani.
Coesione nazionale e valorizzazione delle differenze comportano oggi la capacità di misurarsi, con consapevolezza storica e senso di responsabilità politica, con i temi cruciali di una strada che sia capace di portare l’Italia, tutta intera, fuori dalle secche della crisi economica, ancorandola saldamente all’Europa e ripensando la nostra unità statuale in rapporto alla sfida federalista 12.
D’altra parte (ha ragione Massimo Livi Bacci) non è solo in relazione alla storica discussione dei rapporti fra meridionali e settentrionali che si definiscono fisionomia, tenuta e scommesse di fondo sull’“identità”del nostro Paese.
Sono non pochi i “nuovi italiani” (o quelli che, con una legislazione all’altezza dei tempi e con una nuova cultura della cittadinanza e dell’inclusione, tali potrebbero diventare) che, insieme a tutti gli altri, hanno da misurarsi con l’eredità di una storia, di cui dovranno comunque prender coscienza e conoscenza, oltreché con le sfide attuali cui il nostro Paese va incontro. Identità e senso della convivenza si saldano e si salvano nel momento in cui sono in grado di ripensarsi a fondo. Nuove prove, e sfide inedite, attendono il “mosaico Italia”, intento a riflettere sul senso di un cammino e delle prospettive che lo attendono, a 150 anni dalla sua unità.
1 Vengono in mente le preveggenti considerazioni di un intellettuale eterodosso come Franco Fortini che, riguardo alla crescente indifferenza per lo studio, e la conoscenza critica, della storia, prefigurava la condizione del “ giovane che ruberà le ore al sonno per sapere cosa è accaduto nel suo immediato ieri” (Ricostruire il passato prossimo, intervista a Franco Fortini, a cura di S. Saccardi, in “Testimonianze” n.372).
2 V. in prop., di M. Viroli, Per amore della patria-Patriottismo e nazionalismo nella storia, ed. Laterza, Roma-Bari 2001. Quella del “doppio volto”, delle diverse fasi e delle differenti anime del nazionalismo, è una questione che, a più riprese, è stata oggetto di studi e di riflessioni. C’è, evidentemente, un nazionalismo, spesso di carattere liberale e democratico, che pone il problema dell’autodeterminazione di popoli e comunità etniche e culturali (un tema tuttora di attualità in non poche aree del “mondo globale” degli anni duemila) e c’è un nazionalismo espansivo, bellicista ed aggressivo. Nota è, in questo senso, la parabola di un certo nazionalismo italiano (scottante, e tutt’altro che edificante, capitolo della storia di cui siamo qui a parlare) che è repubblicano e democratico con Mazzini e Garibaldi e che si fa colonialista e guerrafondaio con Crispi (ex garibaldino e repubblicano, divenuto poi uno dei più antipopolari statisti dei primi decenni dello Stato unitario). Interessante sarebbe, al riguardo, rileggere le appassionate pagine della “controstoria” d’Italia de L’obbedienza non è più una virtù di Don Lorenzo Milani (Ed. Lef, Firenze) in cui vengono stigmatizzati gli esiti di un secolo di ideologia nazionalista, culminati nel coinvolgimento nella seconda guerra mondiale ad opera del fascismo. Una storia tormentata al cui interno, come si ricorderà, il pacifismo di Don Lorenzo assolve una sola “guerra giusta”: quella della Resistenza contro il nazifascismo.
3 V. in prop. l’intervento del card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI, al Forum ecclesiale dedicato ai 150 dell’Unità d’Italia ( I cattolici soci fondatori dell’Italia, “L’Osservatore romano”, 4 Dicembre 2010).
4 L’aspetto interessante del dibattito e delle ricerca culturale sul tortuoso, quanto interessante, cammino unitario del popolo e della nazione italiana è che esso è, ovviamente, tutt’altro che circoscrivibile alle questioni di carattere politico, religioso o filosofico/ideale. A comporre il “mosaico Italia” concorrono tanti elementi, della “cultura alta” e della “cultura bassa” e popolare” (se queste distinzioni hanno mai avuto un senso), della “grande storia” e della “vita quotidiana”, della “storia delle mentalità” e del costume e della “ storia materiale”. In un percorso che può essere affascinante ed aperto a mille sbocchi, ci limitiamo a citare alcuni spunti, fra loro diversi, ed ugualmente suggestivi: la ricostruzione di una storia delle “diversità italiane” dal punto di vista gastronomico, cui dette un originalissimo contributo Pellegrino Artusi (P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, ed. Einaudi, Torino 1974, a cura di P. Camporesi) con il suo campionario di ricette regionali e di piatti e specialità locali della nostra “cucina mediterranea”; l’importanza delle tradizioni popolari espressi dalla musica e dal canto di intonazione sociale (di cui scrive, in questo nostro volume, Emilio Iona); la storia della scolarizzazione di un paese, in gran parte, privo di alfabetizzazione e del ruolo pionieristico che, sul campo, hanno avuto gli insegnanti elementari (soprattutto donne: alle “maestre” molto devono la società e la cultura italiana, come è ricordato nel bel libro di E. Gianini Belotti, Prima della quiete, edito da Rizzoli, Milano 2003, e dedicato all’ “eroica” ed infelice storia della maestra – dal nome emblematico – Italia Donati). Infiniti sono, d’altra parte, gli spunti ricavabili dalla storia italiana considerata dal punto di vista artistico-letterario (oggetto del recente libro di E. Affinati, Peregrin d’amore, ed. Mondadori, Milano 2010). La storia, le passioni, e l’eredità dell’epopea risorgimentale consentono di riproporre non pochi spunti e suggestioni di carattere narrativo. Così è nel caso di Maurizio Maggiani e del suo ultimo libro, Meccanica celeste (ed. Feltrinelli, Milano 2010), uno dei cui principali personaggi femminili è chiamato con l’evocativo nome “garibaldino” di Anita.
5 R. Putnam, La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori editore, Milano 1997.
6 L’impressionante ed esteso sostegno alla causa “sanfedista” è testimoniata da espressive manifestazioni di sentimento popolare come quella del (peraltro suggestivo) “Canto dei sanfedisti” ricostruito e riproposto, oggi, da cultori di musiche della tradizione folkloristica come la “Nuova Compagnia di canto popolare”, Peppe Barra e Ginevra Di Marco.
7 I riferimenti alla letteratura e alla saggistica sulla “questione Cavour” potrebbero essere numerosissimi. Qui ci limitiamo a citare un testo interessante, e abbastanza particolare, come quello, di qualche anno fa (Bologna 1999) di Luciano Cafagna, nella collana dedicata a L’identità italiana della casa editrice Il Mulino, intitolato, semplicemente, Cavour.
8 E’ quanto ricorda Aldo Cazzullo nel suo recente libro Viva l’Italia! (ed. Mondadori, Milano 2010).
9 Della polemica di Indro Montanelli con D. Mack Smith c’è traccia, tra l’altro, in un dettagliato articolo di Giorgio Calcagno (Firenze capitale? Il danno oltre la beffa, “L’Unità” del 30 Novembre 1997) in cui viene fatto riferimento alla “oltraggiosa” scritta tuttora incisa nel marmo in Piazza della Repubblica, in cui si parla del centro storico fiorentino “ a nuova vita, da secolare, squallore” restituito.
10 C. Cattaneo, La città come principio (a cura di M. Brusatin), ed. Marsilio, Padova 1974.
11 V. in prop., di E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993.
12 V. Quale federalismo per il “caso Italia”?, di V. Chiti, in “Testimonianze” nn. 471-472.