Il dialogo interculturale attraverso l’arte
Intervista a Luca Faccenda a cura di Severino Saccardi

Una serie di mostre d’arte di opere provenienti da varie culture «altre» per costruire l’integrazione tra popoli, etnie e religioni in un modo nuovo ed efficace.

Luca Faccenda è uno studioso e critico d’arte che si occupa, per il comune di Rosignano Marittimo (Li) sotto  il patrocinio della Regione Toscana, dell’allestimento di mostre d’arte di contenuto interculturale.

D. Partiamo dall’esperienza di queste esposizioni di opere d’arte da lei curate a Castiglioncello, al castello Pasquini, nella nostra costa tirrenica, che al di là delle singole manifestazioni mi pare abbiano dietro una loro idea generale, un’impostazione che le accomuna. Direi quasi una filosofia che mi pare, poi, faccia parte del suo modo di lavorare, mi vorrebbe allora parlare di questo filo che lega un po’ tutto.
R. Lo spunto iniziale, a cui mi riferisco è «Africa nera cuore rosso», che è stata poi la prima esperienza di arte contemporanea africana, tenuta appunto al castello Pasquini di Castiglioncello, è stata concertata per far parte di un progetto più ampio che era poi il meeting europeo anti-razzi sta che si svolge nel periodo estivo nei comuni della costa tirrenica, da Cecina fino a Livorno. Fra dunque un tema che si rivolgeva al colore della pelle, ed io allora pensai, insieme al sindaco Cianfranco Simoncini, di costruire un immagine un po’ diversa di integrazione. Conoscere gli altri significa accettarli più facilmente, e dunque vedere cosa fanno oggi gli africani nell’arte contemporanea, gli africani non intesi come quelli che vendono chincaglieria, fazzolettini o che ci lavano i vetri. Cli africani sono un’etnia importante con una straordinaria storia che noi probabilmente, come avviene di consueto con altre etnie, abbiamo dimenticato, racchiusi, come siamo, in una struttura mentale che è quella del turista e del luogo comune. lo invece ho scoperto una grande verve creativa, di autori molto importanti, tanto che dopo questa esperienza, molte delle opere che avevo presentato al castello Pasquini, mi sono state richieste, forse più importante museo d’arte cotemporanea, che è quello della città di Tokio. Così l’anno successivo è stata fatta a Tokio una mostra chiamata «Africa», ( conteneva molte delle opere che noi avevamo precedentemente esposto, dimostrando un interesse straordinario per quella che è l’arte etnica non consueta, non stereotipata, ma contenente tutte quelle che sono le nuove sensazioni.
D. Si potrebbe allora dire che questo lavoro, questo modo di esprimere prodotti artistici è un modo di andare contro gli stereotipi correnti.
R. Senz’altro, non è assolutamente vero che per produrre opere d’arte sia necessario possedere degli sviluppatissimi sistemi economici, sociali e commerciali. L’arte vola per conto suo, ed è probabilmente l’immagine più pura che un popolo possa dare di sè.
Dunque io vado in giro per il mondo e cerco di conoscere situazioni artistiche che noi non conosciamo e che, soprattutto, noi abbiamo probabilmente dimenticao o inglobato in un processo mentale che ci fa vedere cose che non ci sono.
Infatti l’anno successivo, mi sono occupato di arte islamica, perchè sempre al meeting antirazzista il tema erano le religioni, e la seconda  religione in Italia è quella islamica. Gli autori islamici hanno vincoli straordinari a causa della rappresentatività di ciò che disegnano, che è molto delicata, perchè la loro religione, appunto, vieta molte rappresentazioni. C’è un’iconografia molto raffinata, ma prigioniera. Invece anche qui abbiamo mostrato cose straordinarie, speciali, a volte anche impensabili rispetto ad un panorama così severo. Shirin Neshat ha presentato un magnifico lavoro che proveniva da New York city, un autoritratto che è stato condannato dall’ayatollah di allora, alla morte, per questo infatti l’autrice viveva in esilio. Adesso questo celebre dipinto ha fatto il giro, del mondo ed io sono molto contento per averlo presentato in Italia per la prima volta. È lei raffigurata con un fucile in mano, senza il chador, e per questo condannata, e con un telo verde, che è poi il colore vietato da riprodurre, e da questo fucile usciva un tulipano.
D. Una sfida direi!
R. Si una sfida, precisamente.
D. Però, direi che questi appuntamenti sono in qualche modo un contributo molto originale al dialogo fra le civiltà, a quell’interculturalità, di cui tanto si parla, ma che talvolta è celebrata in modo un po’ astratto e retorico.
R. Sì è vero, io invece mi sono accorto che la produzione artistica è un vero e proprio linguaggio che passa al disopra dei problemi politici, sociali e naturalmente etnici; e per questo mi interessa, per questo la ricerco, la promuovo quando posso.
D. Ecco, ci parli un attimo dell’esperienza e dell’esposizione dell’estate appena trascorsa.
R. Esuburba è una mostra molto importante di arte aborigena, gli aborigeni d’Australia, che il grande pubblico italiano ha conosciuto grazie alla magnifica cerimonia di inaugurazione delle olimpiadi, è un’arte con una storia vecchia cinquemila anni, è un’arte che viene dalla notte dei tempi, prodotta in assenza di tele, di prodotti e di strumenti, è l’arte contemporanea più antica che si possa immaginare. Gli aborigeni non hanno la scrittura, e per questo, ed è la cosa più straordinaria, si esprimono grazie alla pittura. Le nonne insegnano alle nipoti i riti propiziatori per la fecondazione, per la raccolta dei frutti e i nonni insegnano ai nipoti le regole di vita, le regole sociali, la caccia, grazie a dei dipinti. Questi dipinti sono fatti su delle cortecce di eucalipto, sulle pietre, sulle uova di emù e su qualsiasi cosa si lasci dipingere, compresa la terra. Dipingere nel senso proprio più arcaico, perché per fare questo gli indigeni adoperano le ocre e le terre naturali, il carbon fossile, i succhi della frutta, delle bacche dei deserto.
D. Quindi sono dei pittogrammi!
R. Sono vere e proprie pitture i cui soggetti però sono rappresentazioni dei territorio, e poiché non osano raffigurare la figura umana, data la grande valenza spirituale che è in ognuno degli umani, ne descrivono le orme, e dunque la lettura è simbolica e molto spesso criptata. Quindi di occorre essere veramente dentro il loro mondo ideale.
D. Quindi andare veramente dietro le orme di una civiltà!
R. Direi proprio di sì, io ho dovuto seguire una specie di rito iniziatico, dopo il quale sono stato ammesso a ricevere le opere e ad averne una parziale spiegazione.
D. Ci spieghi verso quali sentieri si dirige la sua ricerca all’interno della sua esperienza, legata a Castiglioncello o anche più in generale, se crede di fare qualche altro riferimento.
R. Ma io ad esempio sono in partenza per il nord dell’india, per una nuova avventura, una nuova ricerca di materiale artistico che risenta della spiritualità ai piedi dell’Himalaya e nel deserto dei Rajasthan, e di tutte le altre che sono il crocevia di filosofie e di religioni che si incontrano nel continente indiano. Questa ricerca è volta naturalmente a far dimenticare al pubblico italiano ed europeo gli stereotipi che abbiamo in mente della cultura indiana, e poi vorrei veramente vedere cosa si fa adesso e quanto la religione, così importante nella conduzione della vita quotidiana degli indiani, influenza la loro produzione artistica e perché, in quale misura e con quali risultati.
D. In questo suo lavoro sembra emergere un assunto comune su cui non ci fermiamo a riflettere abbastanza, ovvero che l’uomo è eminentemente un animale simbolico. In questa sua ricerca, al di là della varietà delle sue manifestazioni, quali sono gli elementi comuni che le sembra di trovare di scorgere all’interno di realtà molto diverse?
R. La ricerca di Dio: io credo, anzi sono sicuro, che l’espressione artistica è volta a mediare il mondo umano con il mondo divino.