Il consenso politico nel Terzo Reich
di Giuliano Della Pergola

Il caso di Hitler, esposto nel libro di J. Kershaw, è quello di un esempio che ci dimostra quanto il potere carismatico sia in politica il più labile: si presenta come smagliante, ma in poco tempo mostra la sua precarietà. Nessuno può governare da solo una società di massa, senza le mediazioni democratiche non si riesce a venire a capo della complessità sociale connessa con l’esercizio del potere. Hitler trasformò il carisma della sua personalità magnetica in una macchina politica di morte e brutalità. La distruzione della Germania nazista, alla fine della Seconda Guerra mondiale, ci dice quanto nefasta possa essere considerata la strada che conduce verso una dittatura politica.

Una personalità magnetica e la “Comunità carismatica”

Giocatore d’azzardo, rischiatutto in politica come nella vita privata, Hitler riuscì a far passare il piccolo Partito Nazionalità Tedesco (Nsdap) dal 2,6% nel 1928, al 18,3% nel 1930, al 30,1% nel 1932, il 43,9% nel 1933, fino al plebiscitario 99% nel 1938. Dunque, che la questione del consenso politico rappresenti un problema centrale nel considerare l’ascesa in Germania del Fùhrer, è tema che si deve analizzare facendo parlare i fatti e mettendo da parte ogni ideologia. E ciò è proprio quanto Jan Kershaw mirabilmente fa nel libro Hitler e l’enigma del consenso. Kershaw di Weber recupera le forme generali del potere per discutere della relazione tra potere carismatico e potere tradizionale, e per quindi spiegare come il caso di Hitler s’inscriva in forma perfetta nel ricorso al potere carismatico ( messa al bando di ogni mediazione democratica tra il Popolo, la Nazione e il Capo (Ein Volk ein Reich ein Fùbrer). Hitler, nella ricostruzione dello storico inglese, fu un uomo dedito in maniera devota, “ostinato come uno zelota”  proprio come se si trattasse di una missione, all’idea che avrebbe dovuto rappresentare il cuore dell’ideologia nazista. Tale idea così può brevemente essere riassunta: la storia è storia di razze. Le più deboli sono quelle che si mescolano e che perderanno il confronto con quelle pure. Tra quelle pure la tedesca, che però per affermarsi pienamente ha bisogno di un maggiore “spazio vitale” (Lebensraum), cioè un allargamento dei confini a scapito della Russia, un territorio più esteso di quello che la costringe nei confini politici decisi con il Trattato di Versailles del 1919. La razza tedesca sfida le altre per la supremazia occidentale in due modi: a) irrobustendosi al suo interno (attraverso un programma di eugenetica che prevedeva l’assassinio dei malati di mente, degli storpi e di altri tipi di minorati), b) dichiarando guerra a quella razza che s’annida come una sanguisuga nelle altrui nazioni, gli ebrei (la cui sparizione rientra fin dall’inizio in ogni programma hitleriano), e accettando la sfida con le democrazie, considerate tutte (sul solco della debole democrazia tedesca di Weimar), farraginose, inconcludenti e incapaci di risolvere i problemi sociali.
Tutto di Hitler si può dire tranne che egli non sia stato coerentissimo con le proprie idee di partenza.
Come riuscì a raggiungere il consenso dei tedeschi? Ecco, questo è l’enigma che Kershaw vuole sciogliere.
La sua fu una strategia molto mirata, ricostruibile attraverso paradigmi logici.
Da principio erano soltanto pochi gli accoliti, appartenenti al Partito Nazionalista (Nsdap), e per giunta senza un preciso programma politico, e quel che era peggio, senza un’ideologia forte.
I primi suoi amici e camerati erano persone che non conoscevano ancora l’idea nazista. Essi (R. Hess, J. Streicher; H. Còring, E. Rohm, G. Strassen, I. Goebbels, H. Himmier, H. Frank) non formavano ancora quella “Comunità carismatica” 2 che si basava sulla malia ipnotica3 di Hitler, sulla sua magnetica personalità, ossessivamente capace di ricordare mille particolari, sulla sua preparazione politica che dell’idea taceva il inevitabilmente remote nel loro irraggiungibile torpore. Occorreva un’energia ben più potente di quella fin lì immaginata dal sistema politico tradizionale per svegliare la coscienza nazionale tedesca, sopita e frustrata dalla sconfitta della Prima guerra mondiale.
Hitler non tollerava la burocrazia e le sue procedure. Il suo agire era sempre un agire diretto, privo di mediazioni e di controlli; le sue intuizioni, giuste o sbagliate che fossero, agivano in senso opposto al potere burocratico. La sua magnetica personalità colpiva gl’interlocutori per la forza dell’idea nazista, non per il come si sarebbe poi attuata. Se via via un numero crescente di tedeschi aderirono al credo nazista fu anche contro lo Stato burocratico che avevano ereditato da Bismarck. Il sapere procedurale e quello degli intellettuali-mandarini non faceva parte dell’orizzonte nazista, che semmai era orientato ad un sapere pratico, ad un agire diretto, dettato dal carisma del capo che dava degli ordini che dovevano essere eseguiti. Era la forza del centralismo demiurgico-carismatico del Fuhrer la molla che avrebbe trasformato un popolo altresì educato al proceduralismo razionale e burocratico, in un popolo energicamente spinto in avanti dall’autorità del Capo.
C’è nel nazismo un ritorno arcaico e mitico al dan che si stringe attorno al suo patriarca fondatore, e questa figura Hitler seppe interpretarla alla luce delle esigenze di una Nazione moderna.
La Nazione, si sa, smuove nel Soggetto più energie profonde, di quelle che non riescano a fare la Fratellanza e la Solidarietà. Molti furono gli avvenimenti storici che s’avvicendarono a favore dell’ascesa di Hitler al potere, che se letti dal punto di vista del giocatore d’azzardo (cosa che Kershaw c’invita a fare di continuo), c’inducono a credere che per il periodo compreso tra il 1928 e il 1938 a Hitler andarono bene delle giocate incredibili, come se un giocatore alla roulette vincesse di seguito molti en piani.
E come per “11 giocatore” di Dostoevskij, l’inizio del perdere si sarebbe concluso con la sconfitta totale, rapida e senza possibilità di ritorni.
Ma come furono convinti i tedeschi a aderire al movimento nazista? Su quali basi collettive l’Idea nazista trionfò, fino ad apparire alla stragrande maggioranza dei tedeschi l’unica, invincibile, prospettiva storica possibile?
Certo, ci fu il terrore totalitario5 e tutti sappiamo quanto nelle persone comuni, bisognose di protezione, possa contare l’accettazione di miti correnti, di conformismi cui aderire perché “così, la pensano già in tanti”. Anche su questo il nazismo giocò; ma a ciò mai si ridusse. Ci fu dell’altro. La convinzione, ad esempio, che ebrei, omosessuali, operai rivoltosi, accattoni, e mendicanti ed altri “elementi antisociali” (come i lavoratori stranieri, i sobillatori e gli anarchici), oltre agli zingari, potessero essere soggetti impunemente e legittimamente da oltraggiare e vilipendere (anzi, da eliminare!), permetteva ai tedeschi dall’ascendenza pura e ariana di sentirsi un popolo privilegiato e superiore, e come tale anche più compatto, e più definito in un’identità collettiva. lì capro espiatorio si carica dei mali collettivi e libera la società dai suoi peccati (“Agnus dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis”) 6 Ma non si deve credere che il terrore fosse indifferentemente generalizzato; ad esempio, nulla fu fatto contro i vescovi cattolici, evitando così conflitti con il Papato. Mai furono perseguitati i banchieri, gl’industriali, i proprietari terrieri: il regime si assicurava gli alleati e con loro si comportò sempre in modo corretto. Poi, una volta conquistato il potere nel 1933, a Hitler bastarono sei mesi per fare piazza pulita degli oppositori politici; altri sei mesi e ogni dissidio interno alle fila nazionaliste fu annientato. Governò in modo dispotico, assoluto.
Goring fu dapprima il prediletto del Fuhrer. Lavorarono insieme per discreditare il più possibile le forme democratiche, per lanciare contro i marxisti una vera e propria crociata nazista (“lo sterminio dei marxisti” 7 fu apertamente incoraggiato), e molto in fretta, già il 20.3.1933, s’arrivò alla creazione di Dachau, il primo campo di concentramento nazista, che avrebbe dovuto servire da modello ai successivi. Hitler seppe trovare il modo di governare sottraendosi al controllo del Parlamento. Il suo modo di fare politica non ammetteva democraticismi: la sua volontà era legge. E se Hitler pensava che il Partito Socialdemocratico dovesse sparire, la Spd spariva; e se credeva che il Zentrum cattolico (in Bavaria la Bvp) dovessero languire in uno spazio politico angusto, questo avveniva. Fin tanto che la sola Nsdap fu dichiarata ufficialmente l’unico partito legale del Reich tedesco1 il 14.7.19338. Nel 1934, la morte del Presidente Hindenburg, l’unico che aveva capito il pericolo che s’annidava dietro l’ascesa al potere di Hitler, permise al dittatore di avere il consenso incondizionato dell’esercito, fino ad un “inesorabile processo di erosione della legalità” 9
In questo modo, la Germania oramai scivolava lungo il versante del potere carismatico, e non soltanto al suo vertice, ma lungo tutta l’articolazione sociale e istituzionale, in un moto generalizzato, garantito dal Nuovo Codice Nazista, ed entrava nella spirale dell’arbitrio, del dispotico, dell’illegale e dell’illiberale.
Su di sé, Hitler accentra un’immensa capacità di decisione, che col tempo s’accresce sempre più.
Nulla senza di lui si fa, nel grande come nel piccolo; entrare nelle sue simpatie è indispensabile per gestire una qualche parte del potere tedesco; essergli antipatico può diventare pericolosissimo.
I filtri per giungere alla sua persona s’accrescono: è sempre attraverso la figura di un segretario particolare che si può conferire con lui, ma questi filtri cambiano; chi sale e chi scende, a seconda delle circostanze politiche, degli umori del Fuhrer, delle attitudini alla sottomissione del segretario.
Una sorda competizione sorge tra i diversi contendenti per diventare segretari di Hitler. I processi decisionali sono rapidi, senza più le pastoie burocratiche. Un sì o un no del Capo, sono sufficienti. Scacco alle lungaggini democratiche, il nazismo opera con un decisionismo, un presenzialismo e una rapidità sconcertanti.
Ma ogni cosa decisa non ha una documentazione obiettiva: il nazismo “fa la volontà del capo”, attua un principio superiore. La legittimazione dell’agire nazista sta nel rendere operante la volontà di Hitler. Un modo di prendere le decisioni sempre più arbitrario va in questo modo sostituendosi alle leggi.
Non sempre è chiaro quale davvero sia la volontà del capo, e spesso sono le interpretazioni su tale volontà a sostituirsi ai contenuti effettivi
Diverse tra loro furono le “minacce” paventate che il Nazismo agitò a proprio favore, favorendo così l’unità interna del popolo e agitando l’idea che qualcuno potesse schiacciare la Germania: la presenza della Russia, l’anticapitalismo populista, l’alleanza tra gli ebrei e le rivoluzioni, tra il giudaismo internazionale e le democrazie. lì Nazismo tese a congiungere la volontà centrale del Capo con le argomentazioni dell’uomo della strada, mentre in realtà andava facendosi strada una meritocrazia elitaria, antiegualitaria e nemica dei marginali. Il Nazismo venne sorretto socialmente da alcuni gruppi che identificarono con l’ideologia di Hitleir con l’idea. In particolare, i burocrati gli apparati statali, gli agricoltori, gli industriali e le forze armate.
Con le Chiese Protestante e Cattolica, che insieme raccoglievano oltre il 90% dei fedeli tedeschi, il Nazismo tese sempre a ridurre i motivi di frizione che eventualmente potevano nascere. Più che altro, tese a produrre un tipo di tedesco medio che fosse contemporaneamente cristiano e nazista, secondo il detto “La svastica sui nostri petti, la croce nei nostri cuori”
La verità è che qualcosa di profondo univa Hitler al Papato e alla chiesa Protestante e cioè il comune odio per il marxismo. Fu un profondo, studiato utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa (cinema, radio, stampa, letteratura e musica) a inglobare l’opinione pubblica tedesca nella prospettiva nazista e contemporaneamente a rendere sempre più divina l’immagine del Furher. Fu questo il capolavoro politico di Coebbels, fin dal  1929.
Tuttavia, è con il 1938 che il potere politico di Hitler diventa incontrastato, assoluto. Oramai abolito il lavoro collegiale dei ministri, e accentrate tutte le decisioni nella sola persona di Hitler, il Nazismo trovava nel Furher la sua quotidiana molla e risoluzione per tutti i problemi. Ma, se esercitato a lungo, questo tipo di potere non può essere in grado di risolvere la complessità dei problemi di una Nazione. È inevitabile che una sola persona collassi di fronte all’immane lavoro che gli piove addosso; non c’è tempo per decisioni meditate e il pressapochismo, necessariamente, prende il sopravvento. Questo modello di gestione del potere si risolve in un collo di bottiglia che impedisce un flusso decisionale adeguato. Nel momento storico in cui il Nazismo vince sul fronte interno da tutte le angolature, si palesa anche la sua fragilità, intrecciata dalle risse tra capi di settori diversi e tutti “portatori della volontà del Capo”.
Dodici anni il Nazismo durò: durante i primi otto anni il giocatore d’azzardo infilò una vittoria dietro l’altra; ma poi ogni cosa mutò, drasticamente, rapidamente, senza possibilità di ritorno.

Tracollo politico, sconfitta e suicidio di Hitler

Tre erano le aree ideologiche che si fronteggiavano sullo scacchiere internazionale: quella delle democrazie (Inghilterra, Francia e Stati Uniti), quella dei nazionalismi (Germania e ltalia) e quella sovietica che faceva capo alla Russia. Ciascuna di queste tre forze aveva un potenziale bellico paragonabile a quello delle altre due. C’era dunque un reciproco equilibrio, e solo se due di questi campi si fossero un giorno alleati contro il terzo, uno sarebbe stato eliminato. Era un gioco al massacro. Stalin, Hitler e Churchill avevano, tutti e tre, firmato due trattati di non aggressione o di non belligeranza con gli altri campi ideologici, ma qualcuno doveva alla fine non stare al gioco. Hitler era sicuro di vincere, perché mai, egli pensava, capitalismo e comunismo si sarebbero tra loro alleati.
Anche Churchill aveva buoni motivi per credere di poter vincere, sapendo delle mire tedesche contro la Russia e della grande, reciproca diffidenza tra i due paesi. Stalin pure pensava di uscire vincitore, leggendo tra i suoi due avversari un impossibilità strutturale a poter convivere: la democrazia inglese e il potere carismatico nazista non avevano niente in comune. L’Italia contava ben poco, e anche la Francia, politicamente tanto instabile, non poteva che avere un ruolo di riserva.
Ma Hitler aveva già annesso l’Austria (An-schluss) con un’azione militare guidata da Gòring, aveva invaso la Cecoslovacchia e poi la Polonia, ed era arrivato a conquistare delle regioni dell’Unione Sovietica, senza che nessuno tosse intervenuto contro le sue guerre lampo. “I nostri nemici una colossale, inedita disfatta politica, militare, sociale e anche di consenso interno. Un vero e proprio delirio di potere aveva prevalso in Hitler dopo che il consenso politico si era trasformato in un plebiscito a suo favore. Paradossalmente, proprio nel momento storico in cui egli era nel cuore e nella mente di tutti i tedeschi, la sua vita si era ridotta a quella di un essere senza più contatti con nessuno: il suo segretario filtrava sempre meno persone, e con tutte, dall’interno della sua malattia nervosa, Hitler non aveva che severe rampogne, risentimenti e minacciose ingiurie. Neppure Albert Speer, il suo architetto preferito, il suo vero confidente per tanti anni, riuscì a restargli fedele fino in fondo, di fronte a ordini che suonavano contraddittori e suicidi.
I rapporti interpersonali che Hitler instaurò con i suoi generali si fecero irosi e pieni di rancore.
Infine, restò solo, con il suo cane e la sua amante che l’avrebbe seguito nel suicidio del 30 aprile 1945, poco prima della conquista di Berlino da parte dell’Armata Rossa. Il caso di Hitler è quello di un esempio che ci dimostra quanto il potere carismatico sia in politica il più labile: si presenta come smagliante, ma ecco che di lì a poco mette in evidenza la sua precarietà. Nessuno può governare da solo una società di massa, e per quanto farraginose possano sembrare le mediazioni democratiche, senza di queste non si riesce a venire a capo della complessità sociale connessa con l’esercizio del potere. Inoltre, il caso di Hitler è quello di un uomo guidato da pulsioni distruttive e da una sfrenata sete di vendetta. Tutto di lui possiamo dire, eccetto che sia stato incoerente. La coerenza di Hitler all’idea fu assoluta: ma naturalmente non è sufficiente avere delle idee, bisogna anche che queste siano buone. Quella di Hitler fu scellerata, antiscientifica, puramente ideologica. Fu anche un’idea della politica che portava in un luogo senza dialogo possibile con altri. E fu, non potremo mai dimenticano, un’idea piena di distruzione, di sopruso, di ostentata triviale brutalità. Un’idea di morte, se perseguita coerentemente, conduce fino allo sterminio e al suicidio del suo ideatore. Hitler trasformò il carisma della sua personalità magnetica in una macchina politica di morte e brutalità. La parte discendente del suo potere fu breve e radicale. Se, tra tutti, furono gli ebrei a subire le perdite più gravi, la distruzione della Germania nazista, alla fine della Seconda Guerra mondiale, ci dice quanto nefasta possa essere considerata la strada che conduce verso una dittatura politica. Il libro di J. Kershaw, in forma piana, ci accompagna attraverso questo panorama di distruzione e di morte, senza una sbavatura ideologica, senza una sola parola di troppo. Un libro che tutti i professori di scuola, e di università, dovrebbero conoscere, anche se non insegnano la Storia.
Kershaw i., Hitler e l’enigma del consenso, Laterza Economica, Roma-Bari 2000. Un vol. di pp. 253, lire 15.000, pag. 45,
2 Jbidem, pag. 62.
3 Jbidem, pag. 54.
4 !bidem, pag. 49.
5 !bidem, pag. 81.
6 chevaliery., L’antisemitismo. L’ebreo come capro espiarono, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991;
e anche Barromi 3., L’antisemitismo moderno, Marietti, Genova 1988. Vedi soprattutto alle pp. 94-110.
7 lbidem, pag. 89.
8 lbidem, pag. 92.
8 lbidem, pag. 99.
10  fbidem, pag. 120.
11 Ibidem pag. 184
12 lbidem, pp. 1 74-178.