concilio_vaticano_ii_2

Il Concilio: una memoria “sulla via del tramonto”?
di Alfredo Jacopozzi

Il Concilio Vaticano II ha lasciato aperte alcune ambivalenze che permettono oggi alla Chiesa di rimanere in bilico tra tentativi di restaurazione e applicazione coerente della linea di rinnovamento allora avviata. Ma si può dire che, nonostante tutto, alcune acquisizioni di fondo sembrano essere, ormai, stabilmente inserite all’interno di una prassi consolidata: così la visione della liturgia come “celebrazione dell’intero popolo ecclesiale”, l’accesso alla Scrittura per tutti i credenti e la concezione di Chiesa come comunità di fede.

Sulla via del tramonto?
Chi è esperto di storia della Chiesa afferma che per la ricezione di un evento epocale, come un concilio, ci vogliono almeno cinquanta anni. Dunque, siamo quasi allo scadere del tempo, per quanto riguarda il Vaticano II (1962-1965). Ma, effettivamente, più che di una consapevole e continua traduzione in realtà viva per la Chiesa, il Vaticano II sembra essere sulla via del tramonto, un “concilio dimenticato” (Küng), che non plasma più il sentimento vitale della Chiesa. Oggi nella Chiesa, a tutti i livelli, sembra di assistere ad un gap generazionale che vive alcune fondamentali ambivalenze rimaste aperte dal concilio. Il Vaticano II è stato un concilio anomalo e perciò è stato anche un nuovo tipo di concilio. Infatti, un concilio che non avesse lo scopo di comporre dispute dottrinali o giuridiche non si era mai visto. Un concilio “pastorale”, con il compito di riunire la Chiesa cattolica per valutare in una prospettiva universale cosa fare per migliorare l’annuncio della fede cristiana nel mondo rappresentava una assoluta novità. Ed è stata proprio tale novità a far emergere all’interno del concilio una fondamentale ambivalenza che si manifesta in alcuni testi, che consentono ai rappresentanti di interessi diversi e talvolta contrastanti, di richiamarsi, di volta in volta al “loro” concilio. Quali sono queste ambivalenze?
Sul piano ecclesiologico: nella questione della Chiesa come sacramento universale di salvezza, popolo di Dio e comunione, da una parte, e come istituzione gerarchica dall’altra; così come nella questione della collegialità dei vescovi con il papa, che sta in tensione e contrasta con la potestà suprema del papa.
Sul piano dottrinale: nella tensione tra l’unità della dottrina che va presentata interamente e la “gerarchia delle verità” che va presentata soprattutto nel dialogo ecumenico; oppure, nella dottrina sul senso della fede della base ecclesiale, in rapporto al magistero del papa e dei vescovi; e ancora, sul rapporto tra Scrittura, Tradizione e Magistero: se la Tradizione della Chiesa sia al di sopra della Scrittura nel processo di spiegazione, oppure se la Tradizione abbia semplicemente il carattere di trasmissione e stia perciò al di sotto della Scrittura, che rimane la norma suprema della vita ecclesiale.
Sul piano pastorale: come un concilio possa entrare in dialogo con il mondo, che fino a quel momento, per motivi teologici e giuridici, non aveva avuto alcuna voce.
Queste sono solo alcune delle ambivalenze rimaste aperte. I fautori del concilio speravano con una certa ingenuità che il futuro avrebbe dato ragione ai loro intenti e che avrebbe eliminato i rimasugli del vecchio modo di pensare. Ma non è stato così. L’effetto choc di certi sviluppi che si sono avuti dopo il concilio per via delle speranze di riforma che da lungo tempo stavano in sospeso, ha messo in moto un processo che nel vocabolario della critica postconciliare ha preso il nome di “restaurazione”.

Soprattutto a livello dei vertici
Nessuno può contestare il fatto che, soprattutto a livello dei vertici, vi siano alcuni aspetti cui appellarsi per affermare un indirizzo di restaurazione.
Dall’enciclica di Paolo VI sul celibato ecclesiastico (1967), all’enciclica Humanae vitae (1968) sui metodi per la regolamentazione delle nascite si ebbero subito due inequivocabili prese di posizione che misero fine a tulle le speranze che la Chiesa sarebbe potuta giungere ad una posizione più differenziata rispetto alla tradizionale prassi ecclesiale in tema di matrimonio e sacerdozio.
Sul piano liturgico, dopo un periodo di dubbie sperimentazioni, la riforma liturgica fu ritenuta conclusa con l’uscita del nuovo messale di Paolo VI nel 1974. A partire da tale data, la Chiesa ha sempre vigilato che la liturgia restasse unitaria, a prescindere dalla madrelingua, e non perdesse mai il riferimento al prototipo romano. Anche la recentissima reintroduzione della messa tridentina (2007) ha come scopo di evitare spaccature all’interno della Chiesa.
A livello di ricerca teologica, viene assestato un duro colpo al metodo storico-critico nell’esegesi biblica, all’interno della condanna più generale della teologia della liberazione (1984). Mentre l’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo (1990) riconosce che un eventuale conflitto tra teologia e magistero, va sopportato nell’intimo della coscienza personale del teologo, senza alcuna forma di discussione pubblica.
Sul piano ecclesiologico, la collegialità dei vescovi con il papa e la richiesta da parte del Concilio di una maggiore decentralizzazione nella Chiesa, ovvero di un ruolo più attivo e specifico delle Chiese particolari, non hanno ancora trovato una applicazione concreta. I sinodi dei vescovi che finora si sono radunati a Roma mettono in moto un sincero processo di informazione e di opinione, ma non dimostrano la effettiva responsabilità dell’episcopato mondiale per la Chiesa. Inoltre, il nuovo Codex Iuris Canonici (1984) ha svalutato in maniera sottile il concilio ecumenico nei confronti del papa, suggerendogli di provare altre forme di prassi collegiale, più snelle e meno impegnative di un concilio, che nella visione del diritto canonico, non detiene più alcun vantaggio rispetto ad altre forme.
Sul piano ecumenico e interreligioso, il dialogo si è progressivamente arenato, a prescindere da cortesie di protocollo e da circostanze particolari e uniche. Fino all’anno giubilare della Confessione augustana (1980) l’interesse ecumenico dell’opinione pubblica ecclesiale era piuttosto intatto, sebbene tutti i documenti ecumenici prodotti fossero rimasti senza conseguenze sul piano delle istituzioni. In seguito, la curva dell’interesse decrebbe rapidamente e nonostante alcune dichiarazioni importanti come il Documento di Lima (1982) e la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (1998), la situazione appare alquanto inaridita. Il colpo di grazia è venuto poi dalla dichiarazione Dominus Jesus (2000), la quale sostiene che le comunità che non hanno mantenuto l’episcopato valido e la genuina sostanza del mistero eucaristico non sono vere e proprie Chiese. Questa comprensione delle altre Chiese apre gravissimi problemi nel dialogo ecumenico. Così come rimane in una situazione di stallo il dialogo interreligioso, che secondo tale dichiarazione non va oltre il cristocentrismo inclusivo e la Chiesa come unico strumento di salvezza per raggiungere gli uomini.

Una lettura unilaterale
Sarebbe una lettura unilaterale quella che vuole vedere soltanto una progressiva restaurazione all’interno della Chiesa nel dopo concilio. Ci sono anche dei punti di non ritorno ormai consolidati all’interno delle comunità ecclesiali.
La liturgia è diventata celebrazione dell’intero popolo sacerdotale, in una partecipazione attiva di tutti, attraverso una forma comprensibile di preghiera e una concentrazione dei riti sull’essenziale. Sul piano dottrinale lo studio della Scrittura non prescinde dal metodo storico-critico, affiancato anche da altri metodi di ricerca. Così come ogni aspetto ecclesiale, predicazione, catechesi, studio della teologia, sono alimentati e guidati sempre dalla Scrittura. Anche la cosiddetta “inerranza” della Scrittura viene rivendicata al massimo per le verità in ordine alla salvezza e non per le affermazioni di ordine scientifico e storico. Come pure l’accesso alla Scrittura per tutti i credenti viene facilitato da corsi biblici e abbondanti strumenti culturali.
A livello ecclesiologico si assiste ad una immagine di Chiesa non più clericale, giuridicizzata e trionfalistica. La Chiesa è colta principalmente non come una piramide gerarchica, bensì come una comunità di fede, continuamente bisognosa di conversione e di comunione autentica. Gli uffici ecclesiali sono al servizio di questa comunione che si esprime in un carattere collegiale con specifiche vie di comunicazione e di partecipazione.
A livello ecumenico, si sono imposti ormai conoscenza reciproca, dialogo e collaborazione, ma anche preghiere comuni e una crescita delle comunità liturgiche. Avvicinamenti ecumenici si registrano nella teologia e nell’esegesi biblica.
Anche nel dialogo interreligioso la conoscenza e la stima delle altre religioni, in particolare dell’ebraismo, sono enormemente cresciute, sia nella predicazione che nella catechesi, come negli studi teologici. Ogni discriminazione a motivo della religione viene condannata. Ci si riconosce nella fraternità di tutti gli esseri umani sotto l’unico Dio, chiamato con nomi diversi. Anche la possibilità della salvezza dei non cristiani, persino degli atei in buona fede, che vivono secondo la loro coscienza, viene esplicitamente riconosciuta.
E, infine, il rapporto con il mondo secolare viene vissuto per molti aspetti come una svolta positiva. La Chiesa oggi vuole essere solidale con l’intera umanità, vuole collaborare e dare risposte adeguate ai problemi che si presentano, non con l’atteggiamento di conquista, ma con la testimonianza convincente. Soprattutto oggi la Chiesa prende posizioni in modo deciso per la dignità, la libertà, i diritti dell’uomo, a favore dello sviluppo e del miglioramento della comunità umana  e delle sue istituzioni, attraverso il rifiuto totale della guerra, il riconoscimento della democrazia e della separazione tra stato e Chiesa, la collaborazione ad una comunità internazionale dei popoli; la difesa dei deboli nella vita economica, sociale, politica; la riconosciuta importanza della responsabilità personale nella vita matrimoniale e una morale sessuale più consona alle moderne scienze dell’uomo.

Compito permanente
Lo sguardo che abbiamo delineato dell’epoca postconciliare non ci permette di darci ad un euforico ottimismo. Così come stanno le cose, può essere che la Chiesa all’inizio del suo terzo millennio sia una Chiesa polarizzata e carica di forti tensioni tra un vertice che tende alla restaurazione e una base molto più sensibile e aperta al rinnovamento conciliare. Ma una prospettiva del genere sarebbe a dir poco inconcludente e devastante sul piano teologico ed ecclesiale.
Il compito permanente che spetta alla Chiesa è riscoprire il nesso profondo tra la storia e lo Spirito di Cristo risorto, in maniera tale che le nuove domande della storia permettano di comprendere il vangelo nel tempo. Si rende necessaria perciò una seria teologia dei segni dei tempi, così come viene esplicitata nella Gaudium et spes, quando afferma che la Chiesa “ non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano” (n. 44). Si parla di uno scambio permanente fra storia e Chiesa. I segni dei tempi non sono esterni alla economia di salvezza, ma la costituiscono assieme all’azione dello spirito di Cristo, crocifisso e risorto. Nei segni dei tempi c’è la convinzione credente che in Cristo tutta la storia, anche quella negativa della morte e del peccato, quella dell’eccesso del male, dei forni crematori, come delle torri abbattute, è stata raggiunta e redenta da Cristo. Persino l’assenza di Dio, che costituisce l’esperienza della morte in croce di Gesù, viene riconosciuta come segno dei tempi messianici. La sua morte viene connotata come una morte per la nostra riconciliazione. Questa comprensione dei segni dei tempi immerge il credente in modo profondo nella storia, perché in essa possa orientare in direzione messianica l’equilibrio dei rapporti umani in una determinata epoca. Si tratta di una prerogativa che il Vaticano II ha delineato per tutta la Chiesa, se questa vuole essere ancora lievito per il mondo e ridefinire se stessa nel contesto umano del proprio tempo come Chiesa che esiste per il vangelo e per la fede degli uomini.