Il cerchio che si chiude
di Lucio Niccolai

Sommarietto: La riedizione de Il cerchio che si chiude, l’intervista autobiografica a Padre Balducci, fornisce a tutti un’occasione per ripensare la figura del fondatore di “Testimonianze” a oltre otto anni dalla sua scomparsa.

La Fondazione Balducci ha promosso recentemente, per i tipi della casa editrice Piemme di Casale Monferrato (Al), la ristampa di alcune importanti opere del padre scolopio che le dà il nome: Papa Giovanni, Educazione e libertà (un’antologia di testi curata da Andrea Cecconi) e Il cerchio che si chiude, titoli che si aggiungono a quelli già pubblicati negli anni passati (Tempo di Dio. Ultime omelie. Avvento 1991 – Pasqua 1992,  L’altro. Un orizzonte profetico e «E voi chi dite che io sia?» editi dalle Edizioni Cultura della Pace nel 1996) e ad alcune antologie di Andrea Cecconi (anche autore dell’unica biografia balducciana esistente ) edite dall’editore Chiari.
L’intervista autobiografica (di cui è curatore Luciano Martini) Il cerchio che si chiude è un testo fondamentale per un approccio conoscitivo con la biografia di quello che è stato, senza dubbio, uno dei protagonisti italiani del Novecento. La prima edizione (da tempo esaurita e introvabile) fu edita dall’editore Marietti di Genova nel 1986. Il volume viene ora presentato con nuova veste grafica e integrato da un’appendice costituita da un’intervista di Sergio Zavoli a Balducci (già pubblicata da “Testimonianze”, nel fascicolo speciale nn.347-349 dedicato al fondatore della rivista) realizzata in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Balducci La terra del tramonto. L’appendice intende colmare il vuoto temporale che separa la prima edizione (1986) dalla scomparsa del protagonista (aprile 1992) che segue, per l’appunto, di poco alla pubblicazione del suo ultimo libro.
L’importanza del Cerchio che si chiude è data, innanzitutto, dalla consapevolezza che Balducci ha di “essere stato testimone e partecipe di trapassi epocali di portata radicale non solo nella storia religiosa e civile, ma più in profondità, per la caratterizzazione di quella che egli amava chiamare «la pianta uomo»” .
Balducci, come è noto, riteneva le biografie utili quali strumento formativo e conoscitivo. Lo dimostra il suo impegno di scrittore ed editore: si pensi ai volumi Papa Giovanni (pubblicato da Vallecchi nel 1964 e oggi riedito da Piemme), Gandhi, Francesco e La Pira e, soprattutto, la collana “I Maestri” delle ECP . Le biografie balducciane, come mi sembra sia stato notato, non si preoccupavano tanto di ricostruire con rigore filologico o scientificamente impeccabile, dal punto di vista storico-documentario, la vita dei protagonisti, quanto, soprattutto, di recuperare il senso culturale, storico ed umano delle vicende dei personaggi nei diversi contesti storici e culturali di appartenenza, per attualizzarne il messaggio. È possibile anche che Balducci sperasse di poter scrivere, prima o poi, una propria biografia, per ricostruire un senso unitario del proprio percorso: “… Balducci amava il genere autobiografico. Più volte l’ho sentito esprimere la convinzione circa l’opportunità che alcune personalità rappresentative della vita civile ed ecclesiale del secondo dopoguerra scrivessero la propria autobiografia, non tanto per esprimersi in una confessione rivolta a indicare il disegno provvidenziale inerente al proprio itinerario o il significato emblematico o esemplare della propria esperienza, ma in ragione di una sorta di dovere pubblico, quello di fare chiarezza su importanti tratti di storia civile e religiosa nel quale erano stati coinvolti come attori significativi. Del resto egli stesso soleva in confidenza ripetere che avrebbe desiderato scrivere direttamente la propria autobiografia …” .
…e ti scrivo di qui, da questo tavolo remoto, dalla cellula di miele di una sfera lanciata nello spazio…

Vorrei premettere che l’unica ragione che giustifichi questa mia nota bibliografica su Il cerchio che si chiude è il fatto che vivo nel paese delle origini di Balducci e che, inoltre, con l’Associazione “Consultacultura”, abbiamo cercato, a partire dalla lezione e dalla riflessione di Balducci, di costruire un progetto locale basato sul recupero della memoria e sull’impegno culturale, civile e sociale quotidiano che si esprime attraverso pubblicazioni, iniziative, seminari. Una premessa doverosa, anche per giustificare le parzialità di giudizio e la sicura inadeguatezza di questa recensione.
Ho, nella mia libreria, due copie dell’edizione Marietti. La prima apparteneva a Amerigo, un militante comunista di Santa Fiora, edicolante: in una delle foto di corredo di quel volume (che non appaiono nella nuova edizione) c’era anche lui tra i santafioresi del “Coro dei minatori” che Ernesto Balducci ospitò, il 22 gennaio 1977, alla trasmissione radiofonica Voi ed io, punto e a capo. Musiche e parole provocate dai fatti. Nel frontespizio del libro Balducci appose questa dedica:
“ad Amerigo questa mia storia che si intreccia anche con la sua. Ernesto, 4. XII. ’86”.
L’altra copia è la mia. La presi, appunto, nell’edicola di Amerigo e fu il mio primo vero e proprio approccio conoscitivo con Balducci. È stato poi un libro che, dopo la prematura scomparsa dell’autore, ho letto e riletto per attingervi informazioni preziose, non solo per la realizzazione dell’antologia degli scritti amiatini Il sogno di una cosa , ma, più in generale, per una riflessione sul percorso umano, culturale e religioso di padre Ernesto Balducci (era questo il titolo di un’iniziativa che abbiamo recentemente realizzato a Santa Fiora, presenti Andrea Bigalli e Severino Saccardi, che devo ringraziare per la squisita e puntuale disponibilità e apertura di collaborazione).
Ma vorrei tornare a quella dedica, che sicuramente non è casuale. L’intervista autobiografica di Balducci, anche per quel senso di circolarità evocato dal titolo, si apre e si chiude con la riflessione sul luogo delle origini. “Io mi sono sentito libero quando ho cominciato a ricordare con gioia la mia infanzia, non per vizio romantico, ma per il bisogno di recuperare la meravigliosa storia inedita della mia gente” . È solo in questo senso (ricordo dell’infanzia, prime esperienze giovanili, «utero sociale» dell’esperienza mineraria, antifascismo, eccidio di Niccioleta) che la sua storia poteva intrecciarsi con quella di un semplice edicolante comunista:
“Quando la nostalgia lo prendeva, o una situazione penosa o lieta lo richiedeva, salivamo sulla montagna maremmana; tornava a Santa Fiora, suo paese nativo, rimasto ancora borgo medievale, che i ricordi velati dell’infanzia trascolorivano lietamente negli spazi variegati che colorano l’orizzonte. Ed era esultante, ogni volta, come un bambino che, afferrato il seno, succhia il latte materno avidamente. A Santa Fiora continuava ad essere – ma lo è sempre stato – un paesano: negli incontri con le persone si fermava o lo fermavano; sentiva le vicende di ognuno con angoscia antica; riviveva le tradizioni ormai scontate ma sofferte, le risentiva nei gesti, nelle parole, nei sospiri di tutti, parenti ed amici di un tempo, donne e uomini; gli sembrava che prolungassero gli inquietanti gemiti del profeta montano, David Lazzaretti, inobliabilmente” .
Il primo capitolo dell’intervista autobiografica, infatti, è intitolato “Le origini” e, sul filo della memoria, offrendo una chiave di lettura fortemente metaforica , Balducci traccia il proprio percorso umano, riscrive la storia della sua terra, racconta il suo rapporto con essa e con la sua famiglia: tutte cose, queste, che si riveleranno preziose per giustificare gli atteggiamenti e le scelte che poi saranno propri dell’uomo di cultura, del religioso, del maestro di pace, offrendone opportune chiavi interpretative.
Secondo la testimonianza di Luciano Martini in occasione della manifestazione di Santa Fiora per il trigesimo della scomparsa di Balducci , il pezzo di chiusura del libro fu consegnato (e quello solamente) già scritto da Balducci al curatore del volume. Questo brano, attraverso la metafora di una finestra aperta sul passato e il paese delle origini, dà un senso alla chiusura del cerchio, offrendo una chiave di lettura su una scelta di vita misurata sui diversi ritmi del tempo e sulla dialettica tra il tempo dell’Essere e quello dell’esistere: il tempo della vita, quello nostro, occupato dai bisogni e le urgenze del presente, dal dolore, dalla memoria e l’altro, quello infinito, che “gira su se stesso, col passo di danza, e non si cura del nostro”:
“La stanza in cui dormivo da piccolo aveva una finestra che dava su un dirupo (la casa è ancora lì, appollaiata sulle mura medievali) oltre il quale si alzava una breve cornice di poggi. Ai lati del dirupo, la lunga sagoma di un antico convento di Clarisse. Di notte, a più riprese, la campanella chiamava le monache a «mattinar lo sposo». Di tanto in tanto, mi capitava di scendere dal letto, al suono della campanella, per osservare nel buio accendersi una dopo l’altra le minuscole finestre delle celle e poi spegnersi. Ora mi spiego il fascino di quello spettacolo notturno, che mi godevo da solo, quasi furtivamente. Era come se mi affacciassi all’altro versante della vita, dove il tempo ha ritmi diversi dal nostro, è come un tempo inutile, è il tempo dell’Essere, il tempo che gira su se stesso, col passo di danza, e non si cura del nostro, che è il tempo dell’esistere. Potrei dire che io, da quella finestra, non mi sono mai mosso” .
Leggendo Il coraggio del pettirosso di Maggiani ho trovato espresso, in forma diversa, lo stesso concetto: “Ogni volta mi sono stupito di questo, di come là sotto non c’è il tempo nostro, ma qualcosa che non ho mai capito: il tempo di Dio, la mia parte del tempo di Dio, e del suo essere ovunque e in ogni cosa” . Devo peraltro precisare che, non essendo uomo di fede, provo lo stesso senso di incomprensione espresso dallo scrittore, pur nella consapevolezza che (prendo a prestito parole di Bobbio) “la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo” .
«Il cerchio che si chiude»: il percorso autobiografico

Il libro è suddiviso in cinque capitoli che percorrono altrettante fasi della vita, del pensiero e dell’azione di Ernesto Balducci, dalle origini, di cui in parte si è detto, all’età planetaria passando attraverso titoli evocativi della sua vicenda umana e religiosa (la lunga vigilia, il crinale, la rottura). Asse centrale di riferimento del protagonista rimane quello evangelico, da cui, con orgoglio, afferma e rivendica di non essersi mai spostato di un capello.
Conclusi gli studi in seminario, Balducci arrivò in una Firenze distrutta e martoriata dalla guerra dove cominciò a frequentare ambienti intellettuali di area cattolica (il cardinale Dalla Costa, Don Facibeni, Arturo Paoli, Giovanni Papini, Giorgio La Pira, Nicola Pistelli) che, dal punto di vista politico, avevano come riferimento la Democrazia cristiana: “Allora era quasi immediato il passaggio da una posizione di fede, come la mia, ad una scelta politica o di campo politico come quello della Democrazia Cristiana…”. Dopo la laurea in letteratura su Fogazzaro con il prof. Momigliano (poi pubblicata da Morcelliana) partecipò alle attività del gruppo dei preti scrittori (dove conobbe David Maria Turoldo) e iniziò a collaborare a giornali e riviste. Intellettualmente attratto dalle teorie dei nuovi teologi francesi guidati da Maritain, si trovò immerso in un ambiente religioso, culturale e politico che rappresentò, a tutti gli effetti, un vero e proprio laboratorio caratterizzato da “una serie di figure di preti e di laici, che pur da versanti diversi, hanno alimentato forti spinte e fermenti di novità a tutti i livelli, entrando spesso in conflitto con il loro stesso mondo di provenienza ma non lacerando mai sostanzialmente né i loro legami con esso, né il tessuto profondo della comunità ecclesiale: figure profetiche, insomma, che hanno svolto una funzione di punta, ma sempre dall’interno e all’interno della Chiesa” , tanto che l’inizio del pontificato giovanneo, nella realtà fiorentina, sembrò giungere quasi a “sancire e confermare i fermenti di novità, in molti casi fortemente anticipatori, che avevano percorso il mondo cattolico durante tutti gli anni Cinquanta” .
Negli anni Cinquanta Balducci fu impegnato in una notevole attività pubblicistica e collaborò con la Rai, il “Giornale del mattino” (dove curava una lettura settimanale del Vangelo), “l’Osservatorio romano”, “il Popolo”. Nel 1957 fondò, con Mario Gozzini, Vittorio Citterich, Mario Camagni, Lodovico Grassi, Federico Setti e Danilo Zolo, la rivista “Testimonianze” (che anche nel titolo richiamava l’esperienza francese), di cui uno dei primi abbonati fu Montini, arcivescovo di Milano e futuro papa Paolo VI. La rivista si proponeva come obiettivo l’apertura di un fronte di dibattito (come testimonia anche la composizione e i futuri percorsi del gruppo redazionale) che Balducci così sintetizza: “non più il proselitismo aggressivo, non più il dominio delle coscienze, ma la testimonianza.”. Sono quindi anni di forte impegno religioso e culturale, che si chiusero con l’allontanamento di Balducci da Firenze, un vero e proprio esilio voluto dal cardinale Florit: “Proprio in quegli anni era in corso su «La Civiltà cattolica», la polemica di Messineo contro Maritain. L’avversione di Roma per Maritain ebbe la sua espressione più incredibile nel veto posto a Montini, arcivescovo di Milano, che voleva concedere la laurea ad honorem dell’Università cattolica. Nei miei confronti il Sant’Uffizio decise di passare alle maniere forti nel 1959. Impose ai miei superiori di portarmi via da Firenze, possibilmente via dall’Italia. Riuscii invece a commutare la terra d’esilio: fui relegato sui colli romani, a Frascati. Il primo obbiettivo di Ottaviani, d’accordo con mons. Florit, era di togliere a La Pira un cattivo consigliere, il secondo di far morire la rivista.”
Gli anni del Concilio e delle rotture

L’«esilio» finì per coincidere con il pontificato di Giovanni XXIII e con gli anni del Concilio. Balducci ricorda che, trovandosi a Monte Mario, ebbe così modo di intrattenere rapporti in «presa diretta» con il dibattito conciliare, di cui teneva una rubrica su “Il Regno”. Nello stesso periodo la Tv lo chiamò a commentare il Vangelo in televisione. Gli anni Sessanta furono vissuti su un “crinale” che avvicina e anticipa la rottura. Nel 1963 Balducci prese pubblicamente le difese del diritto all’obiezione di coscienza: subì, per questo processo, condanna e ingiurie. Due anni dopo sarebbe stata la volta di Don Milani.
Le “rotture” sono ormai mature e, a questo tema, è dedicato il IV capitolo. Incalzato dalle domande dell’intervistatore-curatore, Balducci rievoca alcuni momenti centrali di una fondamentale fase di passaggio: dall’incontro con Don Milani, alla vicenda dell’Isolotto, al diffondersi dei nuovi principi della teologia della liberazione, passando attraverso la fase critica del Sessantotto (di cui, in verità, Balducci percepì la spinta innovativa in ritardo). Sono anni in cui si approfondisce il solco di divisione rispetto ad alcuni dei vecchi amici e referenti (si pensi a La Pira) e nei confronti dell’ambiente religioso e culturale ancorato alla Democrazia cristiana e al suo mondo, che divenne palese in occasione del Referendum sul divorzio. Si sviluppa, di contro, un’attenzione nuova verso la società e il mondo laico (ad esempio, attraverso la frequentazione di Lelio Basso e Lucio Lombardo Radice e la partecipazione al «Tribunale Vietnam»). In questo frangente Balducci matura una forte riflessione sul ruolo del prete nell’ambito della chiesa e della società, giungendo a questa conclusione:
“Penso che nel futuro […] la chiesa dovrà eliminare dalle sue strutture la figura del prete così come si è prodotta in mille anni di storia, del prete della riforma gregoriana, che unifica in sé la figura dell’uomo di Dio – cioè dell’uomo del sacro, dell’uomo della contemplazione – e il ruolo di ministro della comunità che deve rispondere di quello che fa e di quello che è la comunità come tale.”
D’altra parte quale fosse il punto di approdo del pensiero di Balducci su questo argomento era stato anticipato nelle prime pagine:
“Io do per scontato il dissolvimento progressivo dell’identità tradizionale del prete a vantaggio di una nuova identità soggiacente a quella storica e che è iscritta nello statuto evangelico. Essa consiste nell’essere a disposizione del popolo di Dio, nell’essere al servizio di un cammino comune, improntato essenzialmente alla profezia evangelica. Io ho sposato la posizione teologica di chi ha visto nel Concilio un trapasso da una concezione del prete come uomo del sacro, che ha il momento specifico nel culto, a una concezione del prete che ha il suo momento specifico nell’annuncio della Parola. E quindi ho trovato legittimata nel Concilio una intuizione da cui anche prima mi lasciavo confusamente governare, quella cioè che il senso della mia esistenza risiedeva nel mio rapporto di servizio con gli altri, nel servire l’uomo nelle forme concrete in cui egli mi si avvicina, nella sua esigenza di crescita.”
L’ultimo capitolo è dedicato a “L’età planetaria” (immediatamente evoca il titolo del fortunato e fondamentale testo balducciano, L’uomo planetario, uscito in prima edizione nel 1985 per l’editore Camunia di Brescia, poi più volte ristampato dalle ECP), nel quale Balducci ripercorre, ricostruisce e motiva le fondamentali scelte degli ultimi anni della sua vita, ed in particolare la “svolta antropologica” e della cultura della pace.
La “svolta antropologica”, secondo Balducci, deriva dalla necessità di recuperare il rapporto e l’attenzione verso la «pianta uomo», perché “la novità del Cristo è che la salvezza comincia dal presente” e “il nocciolo profetico della vita religiosa è il suo statuto evangelico, non quello medievale o delle categorie religiose”.
Commenta nell’appendice al volume, Sergio Zavoli:
“Ecco, dunque,  […] la grande scelta antropologica di padre Balducci per la lettura della condizione umana, soprattutto di quell’uomo che egli chiama inedito, un uomo che si fa carico del peso della sua storia e della sua morte, assumendo entrambe nel segno della liberazione e della risurrezione. Solo così, pare dirci padre Balducci, quell’uomo è eucarestia, rappresenta la vittoria di Dio sulla morte, è sacramento di unità, è vangelo della storia. Tutto quindi è rimandato alle nostre responsabilità, com’è giusto che sia. Perciò, sembra dirci padre Balducci, non chiediamoci, così virtuosamente, celestialmente e pigramente quale sarà il destino dell’uomo, perché l’uomo stesso è il destino.”
La cultura della pace è il risultato, il punto d’approdo della svolta antropolgica. Essa rimanda, in primo luogo, ad una concezione religiosa evangelica, perché “lo svolgimento del discorso sulla pace viene a coincidere, materialmente anche se non sempre formalmente, con l’attualizzazione della profezia evangelica”. Nel contempo è la forma più compiuta di espressione della grande speranza coltivata da Balducci nei suoi ultimi anni di vita: “L’uomo moderno ha partorito in sé la capacità di superarsi, per dar vita a un nuovo tempo storico, in cui l’altro non è più oggetto di dominio o di rimozione, ma è un partner di un dialogo con il quale creare  un tempo nuovo dell’uomo” .
L’età planetaria impone un allargamento di orizzonti, il superamento di logiche tradizionalmente etno ed eurocentriche, l’incontro con le «tribù della terra». La cultura della pace è l’orizzonte profetico che attende l’uomo che vuol sfuggire il rischio dell’olocausto nucleare e il pericolo della distruzione della vita. Sostiene recentemente, a questo proposito Bobbio, un altro grande teorico della cultura della pace: “Come si può dare una direzione alla storia del prossimo millennio senza prendere una netta posizione, ad esempio, sull’avvento di armi sempre più micidiali e sempre più facili da usare, sull’aumento della popolazione, sulla distruzione dell’ambiente, sulla globalizzazione selvaggia che rischia di produrre sempre maggiori diseguaglianze e di rendere sempre più marginale, e destinata alla sparizione, gran parte del continente più povero, l’Africa, come accadde qualche secolo fa nel «nuovo mondo», sull’estendersi di traffici illeciti (mafiosi), dove contano soltanto i rapporti di forza (altro che i benefici effetti del mercato!)?” .
Conclusione

Sono quasi dieci anni che Balducci è scomparso. Anche per questo la ripubblicazione di un’opera come Il cerchio che si chiude risulta opportuna. E nel contempo, rileggendo questo testo si avverte con forza il senso del passaggio del tempo e il cambiamento repentino di alcuni scenari. Spesso, in questi anni, nelle iniziative di riflessione o di commemorazione ho sentito parole di ricordo e, soprattutto, un grande rammarico per un’assenza che si fa sentire. Manca, a molti, la sua voce, la sua possente denuncia, la sua ferma volontà di ricercare comunque una ragione di speranza. E spesso ci siamo chiesti «cosa avrebbe detto Balducci?» davanti a avvenimenti inquietanti che, in qualche modo segnano il passaggio di questi anni. Per esempio davanti al fatto che l’Italia, per la prima volta della sua storia repubblicana, sotto un governo di “sinistra”, abbia  partecipato ad una guerra. O sulle dichiarazioni di Biffi, o sulla beatificazione di Pio IX, o sul grande Giubileo, e così via.
Rileggere Il cerchio che si chiude ci aiuta a comprendere il percorso di Balducci, le sue scelte (spesso molto coraggiose e controcorrente), ma soprattutto ci fa riflettere sui profondi cambiamenti intervenuti nella società italiana ed internazionale in questi cinquanta anni lasciandoci intendere come tutto sia ancora in movimento e il punto di arrivo non sia ancora dato vedere