affinati (1)

Elogio dei giovani che non fanno notizia
di Eraldo Affinati

 

Un episodio emblematico (l’improvviso interesse per la storia in un gruppo di svogliati ragazzi della periferia romana quando essi apprendono chi è Priebke e soprattutto che è loro vicino di casa e scoprono, guidati dall’insegnante, l’orrore delle Fosse Ardeatine) che fornisce lo spunto per una riflessione sull’importanza dei gesti semplici che si esprimono nella quotidianità di una classe in un contesto in cui, al di là dei risultati scolastici spesso non esaltanti, fioriscono le vere eccellenze umane fondate sul valore della solidarietà.

Un vecchio nazista come vicino di casa

Molti dei miei studenti, ai quali insegno italiano e storia, abitano nei pressi dell’ultima casa di Erich Priebke, nella peri­feria romana, fra via della Pisana, Forte Boccea e via del Fontanile Arenato. Ep­pure lo scorso anno, quando in classe abbiamo affrontato il tema della Seconda guerra mondiale, nessuno di loro aveva mai sentito parlare di quell’ufficiale te­desco che, dalla città di Bariloche, in Ar­gentina, dove scappò dopo la fine del conflitto, era stato estradato nella capita­le italiana, processato e condannato per crimini di guerra.

Ricordo lo sguardo stupefatto di Romolet­to, chiamiamolo così, un quindicenne pie­no di un’energia non sempre adeguata­mente trattenuta sui banchi di scuola, nell’apprendere che gli eventi bellici di cui sta­vamo discutendo lo riguardavano da vici­no, non foss’altro perché, accompagnan­do sua madre al supermercato, in teoria avrebbe potuto incrociare il vecchio nazi­sta di fronte agli scaffali delle marmellate. D’improvviso gli appunti che m’ero af­fannato a scrivere col pennarello sulla la­vagna, in mezzo al frastuono della classe disattenta, da una parte l’otto settembre del 1943, dall’altra il sei giugno del 1944, gli apparvero sotto una luce nuova e quel­le stesse parole che, poc’anzi, lui e i suoi compagni non avevano ritenuto degne di nota (caduta del fascismo, sbarco di Nor­mandia) si trasformarono d’incanto in qualcosa che parve chiamarli in causa. Decisi quindi di portarli tutti alle Fosse Ar­deatine dove, devo ammetterlo, mi segui­rono compatti e convinti. In particolare, di fronte al feretro di Orlando Orlandi Posti, detto Lallo, trucidato a nemmeno di­ciott’anni con un colpo di pistola alla nu­ca, sostammo pensierosi con il rispetto do­vuto a un vero eroe del Novecento. Nei giorni successivi mi chiesero ancora di Priebke: sembrava incredibile che stesse per compiere cent’anni. Non era un fan­tasma. Continuava a vivere accanto a noi, sorvegliato dalla camionetta dei carabi­nieri, assistito dall’infermiera, tutelato e garantito dalla medesima legge che pure l’aveva identificato come uno dei respon­sabili del feroce eccidio e posto agli arre­sti domiciliari. Nella mente di quei ragazzi i tempi lon­tani che avevamo studiato si trasformaro­no presto in esperienza concreta. Ognu­no di loro interrogò se stesso sulle ragio­ni e sui torti capendo che la storia non è un compito scolastico da imparare a me­moria ma la radice del mondo. Ora che Erich Priebke è morto senza mostrare al­cun segno di pentimento, anzi rafforzan­do le sue deliranti tesi negazioniste, non soltanto sulla strage di cui fu protagonista, ma sull’intera tragedia della Shoah, non dovremmo mai dimenticare che ogni ge­nerazione ricomincia da capo. Quello che a molti adulti sembra scontato, per un ado­lescente potrebbe non esserlo. È necessa­rio non abbassare mai la guardia nell’o­pera di informazione. Ripristinare le ge­rarchie di valore e significato diventa im­prescindibile perché noi stiamo vivendo una crisi etica ben più grave di quella eco­nomica. Prima o poi lo spread si abbas­serà, ma questo non sarà sufficiente a ri­conquistare l’attenzione perduta di Ro­moletto.

Lo specialista dell’avventura interiore

In classe si realizzano incontri umani po­tenzialmente incancellabili nella vita del­le persone perché avvengono nella sfera radicale dell’a-tu-per-tu. Teniamoceli stret­ti, questi momenti, come gioielli prezio­si: raramente torneranno dopo, quando sulla maggioranza di noi calerà la ma­schera del cinismo che per pudore qual­cuno definisce saggezza. L’insegnante è lo specialista dell’avventu­ra interiore. L’artigiano del tempo. Il maz­ziere della giovinezza. Se ha fatto bene il proprio mestiere, i suoi allievi gli resteranno dentro. Li ricorderà sempre, uno per uno, simili a tamburini che, in certe stagioni, hanno dettato il rit­mo nella grancassa della sua esistenza. E loro non potranno dimenticarsi di lui. Lo conserveranno nella memoria come una controfigura del padre: l’atleta inca­ricato di compiere un’azione rischiosa al posto del protagonista. Dire di no infatti non suscita consenso, ma è talvolta più necessario che elargire il sì. Oggi i ragaz­zi sono lasciati nel vuoto dialettico, privi di ostacoli da superare. I loro insegnanti restano gli unici ormai a doverli richia­mare ai valori della serietà, del rigore e del­la concentrazione in una società che pun­ta sulla bellezza, sulla sanità e sulla ric­chezza. Due solitudini lancinanti. Io credo che nessuna generazione sia mi­gliore o peggiore delle altre. Resto altresì convinto della presenza, in ogni momen­to storico, di ragazzi speciali. Ma chi so­no questi miei preferiti? I più intelligenti? I più virtuosi? I più capaci? I più abili? I più ingegnosi? I più sapienti? Me lo sono chiesto spesso e nessuna di tali definizioni, per quanto affascinanti fossero, mi persuadeva sul serio, anche perché, in tanti anni di insegnamento, di alunni capaci di posizionarsi ai vertici delle suddette categorie, ne ho incontra­ti pochi. Non penso che la loro scarsità sia dipesa dal tipo di scuola da me co­nosciuta, rivolta al recupero delle peco­relle smarrite. Ivan, appena arrivato nel nostro Paese, im­parò la lingua in cinque mesi, partecipò a un concorso letterario e lo vinse con pie­no merito superando coetanei italiani. Francesco a quindici anni sapeva smon­tare il motore dell’automobile di suo pa­dre, oggi si è laureato in ingegneria e la­vora al centro progettazione della Toyota.

Le vere eccellenze umane

Il mio sguardo puntava altrove. Uno, lo ammetto, vede subito ciò che cerca, as­sai meglio della realtà sotto i suoi occhi. La categoria dei giovani cui avrei volu­to tributare ossequio s’identificava con quelli pronti a pagare per chi sbaglia. Coloro che, in ogni tempo, si caricano sulle spalle tutti gli altri. Non sono eroi, né avventurieri. Si tratta di persone or­dinarie. Uomini e donne che tengono accesa la macchina. Adolescenti che non fanno notizia. Non vanno sulle pagine dei giornali e nemmeno in televisione. Di questi, per mia fortuna, ne ho trovati parecchi. Secondo me, sono loro le vere eccellenze. Umane, prima ancora che sco­lastiche, quindi difficili da valutare. Non è detto che ricevano sempre otto. Spesso e volentieri restano sotto la sufficienza e non è poi troppo raro scoprirli a far com­pagnia ai ripetenti. Quali sarebbero infatti i contenuti in cui i beniamini di Eraldo Affinati primeggia­no? Sono le lacrime trattenute, le frustra­zioni nascoste, le amicizie imprevedibili. Come si chiama il mio campione? È Alessio che, invece di terminare il com­pito in classe, va a recuperare Pinuccio, il quale sta ancora davanti alla macchinetta del caffè e rischia di finire non classificato. È Luca che restituisce gli occhiali da sole sottratti da Angelo a Claudio quando s’ac­corge che il gioco si sta trasformando in un affare troppo serio. È Roberto che, sapendo di non riuscire a stare attento, viene vicino alla cattedra per non deludere l’insegnante che gli ha da­to fiducia. È Sauro quando per la stessa ragione in­terviene a difesa della professoressa di chi­mica portandola in salvo da quei masna­dieri dei suoi compagni troppo carichi. È Carlo che sta sempre zitto e non si fa mai vedere, eppure esegue tutto alla perfezio­ne, senza attirare invidie, supremo nel riu­scire a stare nel gruppo e conservare al­tresì la propria solitudine. Sono tutti quegli studenti che, osservando le fragilità dei meno dotati, imparano a ri­conoscere ed apprezzare il proprio privi­legio. Sul momento non se ne rendono conto, però prima o poi capiscono che non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti, ma anche i sani imparano dai mala­ti, i robusti dai gracili, gli intelligenti da­gli stupidi. Quello che apprendono è co­sì prezioso che non può essere nemmeno comunicato. E loro se lo tengono stretto.