Editoriale Ernesto Balducci Editoriale[1] di Ernesto Balducci
Omnis gloria eius ab intus
(Ps. XLIV, 14)
Capire i tempi è segno di saggezza. Capirli: non solo dunque misurarne l’immutabile spessore di malizia ma soprattutto intenderne il messaggio, scritto nei modi stessi del mutamento.
(…)
Appena appena che si scruti il nostro tempo con libertà interiore e con duttilità generosa esso appare un tempo di contemplazione: tempus contemplandi. Così almeno ritengono i giovani che si presentano in queste pagine. Essi hanno avuto il coraggio di ripiegare nel fondo dell’anima i sogni di un audace attivismo a cui la storia più recente e i miraggi dell’ora sembrerebbero assicurare prosperosa navigazione.
Erano quasi tutti adolescenti quando, sulle rive dell’Arno, sembrò che lo Spirito Santo soffiasse in modo impetuoso, dilatando l’ardimento cristiano fino alle soglie della rivoluzione sociale. A molti estranei era del tutto ignota la consuetudine di ritegno spirituale e di predilezione contemplativa da cui avevan tratto ispirazione certe vicende prestigiose e clamorose. In realtà, sia detto senza orgoglio, sotto le acque mosse della cattolicità fiorentina c’era una pacata serenità d’acqua sorgiva, quella serenità contemplativa ha disteso ormai per sempre un cielo fermo e senza tempeste. L’uomo stesso che fece tremare per qualche mese i difensori nazionali del disordine costituito è un mite uomo di preghiera che, quando può, erra di convento in convento a trar gli auspici non dalle urne dei forti ma dalla conchiusa armonia dei chiostri, dove il tempo tace e la politica non entra se non per genuflettersi nella meditazione dei quattro novissimi.
In lui – e nei giovani che gli furono vicini nella azione o nello spirito – prorompeva in modo inusitato e perciò scandaloso una cattolicità non adatta a ritagliare le proprie esigenze sulle misure frastagliate ed anguste della prudenza politica. Era tale che una testimonianza come quella, di carattere sostanzialmente profetico, venisse respinta e riassorbita dal flusso implacabile di una storia dominata, come la nostra, dal senso della paura e del compromesso. Ma qualcosa è rimasto nell’animo dei giovani. Soprattutto di quelli che meno amano il frastuono della politica: un senso augusto della Chiesa che mal si adatta alle intimidazioni della prudenza politica, un gusto pentecostale per le molte lingue e le culture remote, insomma una cattolicità psicologica che si trova a perfetto agio quando, messi da parte i giornali, riprende tra mano le pagine della Scrittura e quelle più autentiche della Tradizione della Chiesa.
(…)
Il calore della vita ecclesiale si fa per loro tanto più sensibile in quanto la città in cui vivono li costringe, per così dire, allo spettacolo di un umanesimo laicista esangue e come smarrito, di fronte ai tempi nuovi. Se qualcosa dà motivo di vita a quella cultura negativa è la sopravvivenza di una certa mondanità dei figli della Chiesa. I cattolici italiani, impegnati nella cultura e nella politica, manifestano in modo chiaro un illanguidirsi dell’ispirazione teologica e, di conseguenza, un’eccessiva arrendevolezza alle ragioni contingenti e mondane della loro azione. E’ naturale che i laici arrivino così a perdere la coscienza della propria posizione nella Chiesa fino a rivendicare, in malo modo, una loro autonomia.
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Un cristiano è veramente tale solo quando arriva a comprendere con tutto il cuore che la Chiesa non minaccia ma piuttosto genera libertà.
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La comunità della Chiesa ci precede e ci costituisce come cristiani, essa giudica tutto. Il cristiano che volesse giudicarla già per questo ne sarebbe fuori e di conseguenza gli verrebbe meno la stessa possibilità di giudicarla, divenuto ormai una intelligenza separata e spenta.
Ma ogni volta che un gruppo di cristiani si incontra nel nome di Cristo e nel concorde amore della Chiesa, allora la comunità invisibile si fa visibile e, manifestandosi, dà agli uomini testimonianza di sé.
Ecco dette, sommariamente, le ragioni storiche e teologiche di questa rivista. Un gruppo di giovani, dopo alcuni anni di vita in comune, scotendosi di dosso la polvere degli interessi mondani, intende dare testimonianza del Mistero della Ecclesia Mater in una meditazione corale dove circoli il calore di un solo entusiasmo, e la luce di una sola verità. Ogni polemica muore così, eccetto quella che è implicita nel riaffermare il primato della contemplazione su ogni altra attività del cristiano. Essi non si riconoscono il diritto di insegnare teologia, rivendicano quello di meditarla, così come la Chiesa l’ha determinata nei secoli col sigillo della sua autorità. Pertanto la loro voce non avrà il tono alto e sicuro dei maestri, ma quello sommesso e disponibile dei fratelli che narrano ai dispersi e agli affaticati la bellezza reale – e non ideale – di una Città Santa, costruita di pietre viventi, termine fisso di ogni esistenza. Essi saranno lieti se qualche cristiano, distratto dall’azione, potrà dare un senso, leggendo queste pagine, a certe sue inquiete nostalgie, e se qualche incredulo potrà scoprire nelle loro perentorie certezze una qualche affinità con le sue più segrete speranze.
[1] “Testimonianze” 1/1958, p.3