Di Ottantanove ce ne sono due
di Severino Saccardi
Sommario: In un tempo povero di memoria è importante ricordare il significato dell’Ottantanove. Anzi, dei due Ottantanove: quello dell’esplosione democratica dell’Europa centro-orientale e quello della repressione cruenta in Piazza Tien-An-Men. Sarebbe ingiusto, pur con le contraddizioni che ne sono talora seguite, svalutare il peso, simbolico e storico, del crollo del Muro. Un evento che postulava implicitamente un rinnovamento profondo, a livello culturale e politico, a cui va ora messo mano nell’inedita realtà del “mondo globale”.
E’ nozione comune: è stato, quello del Novecento un tempo di rivoluzioni. Di grandi rivoluzioni. Come quella sovietica, prima, quella cinese, poi. Rivoluzioni comuniste. Che hanno impresso il loro segno sull’intero ciclo del secolo. Un “secolo breve”, però, secondo un’interpretazione largamente accreditata (anche se, talora, contestata e discussa). Il “vero” inizio del Novecento, infatti, dal punto di vista storico, viene collocato o nel 1917, “anno fatale” dell’ Ottobre russo, o nel tragico 1914, all’inizio della “grande guerra” che è, comunque, la vera fonte degli sconvolgimenti da cui scaturirà la rottura prodotta dalla rivoluzione sovietica. Ma la fine del secolo, almeno di quel secolo, arriverà molto prima dell’ordinaria scadenza cronologica.
Una data-cardine
L’Ottantanove, da questo punto di vista, è davvero una data-cardine.
Oggi viviamo già in un mondo in cui della portata di quella svolta non abbiamo più l’esatta percezione. L’Ottantanove, l’anno del crollo del Muro, sembra quasi una data come tante (lo ricordiamo anche nella conversazione con Sofri, che si interroga sulla relatività delle date epocali); e del resto (come sottolinea Claudia Mancina), i giovani che hanno oggi vent’anni non hanno già alcun ricordo di un tempo in cui l’Europa era divisa, c’erano i Blocchi e Berlino era spaccata in due.
Ma bisogna, in un tempo sempre più povero di senso storico, fare uno sforzo per recuperare memoria. Sul senso stesso dell’annus mirabilis 1989, ad esempio.
Perché non è male ricordare che ci furono due tipi di Ottantanove. Così come due sono state, lo ricordavamo prima, le più grandi rivoluzioni “socialiste” dell’intero percorso secolare. In quella che poi sarà l’Unione Sovietica (che esporterà e imporrà, nel secondo dopoguerra, il suo modello nell’Europa centro-orientale, l’attuale “mondo ex” di cui parla Predrag Matvejević) e in Cina, con Mao, nel 1949.
Ebbene, entrambe le esperienze si trovano di fronte ad una prova decisiva proprio quindici anni fa.
Nella scadenza storica di cui siamo, oggi, a ricostruire il senso. L’Ottantanove, non va dimenticato non è solo la pacifica “svolta polacca”, le adunate oceaniche a Praga che acclamano i “senza potere” Václav Havel e Alexander Dubcek, la fuga (ormai mitica) dei tedeschi dell’Est sulle tenere e scassate Trabant, lo schianto della barriera berlinese del 9 novembre, che assume la forza di un simbolo.
L’Ottantanove a Tien-An-Men
L’Ottantanove è anche Tien-An-Men. La Piazza della Pace celeste. Che vede l’innalzamento di una statua della libertà da parte dei giovani cinesi. E che poi dal sangue degli studenti è macchiata, nel momento dell’irruzione delle truppe con i carri armati. Lo studente e il carro armato: un altro dei simboli di quell’anno, forse uno dei più grandi simboli dell’ intero “secolo breve”.
Il sistema comunista, così come si è storicamente affermato e per come ha dominato, in ogni caso, è proprio nell’Ottantanove che conclude il suo ciclo storico. Anche a livello di immagine, la spinta propulsiva era, da tempo, esaurita. Lo aveva rilevato alcuni anni prima proprio uno degli ultimi grandi dirigenti comunisti dell’Occidente, custode di una tradizione e, rispetto ad essa, almeno parzialmente eversore: Enrico Berlinguer. Che è scomparso venti anni fa, in tempo per vedere le ultime convulsioni di un mondo (che il suo eurocomunismo cercò, insieme, di interpretare e di esorcizzare) che rapidissimamente è andato verso trasformazioni fatali e inimmaginabili.
Trasformazioni inimmaginabili: di questo è stato portatore l’anno del crollo del Muro.
Anche se oggi, infatti, non ne abbiamo quasi più memoria, non dobbiamo infatti scordare che fino a pochi anni prima (fino a metà anni ottanta e, di più, fino ad una fase avanzata dell’esperimento gorbacioviano), nessuno che non avesse voglia di esser considerato folle politicamente si sarebbe azzardato ad ipotizzare la fine del Blocco sovietico né, tanto meno, l’autodistruzione dell’URSS, che si verificherà nel 1991. Oggi (vedi i contributi di Maurizio Bassetti sulla Lituania e quello di Roberto Mosi, che parla proprio della Berlino riunificata) siamo a discutere (come fanno anche gran parte dei testi di questo “Uomo planetario”) delle sorti e della connotazione dell’intero mondo ex-sovietico. Ma se si escludono alcuni grandi conoscitori del mondo russo-slavo (un nome per tutti: Hélène Carrère d’Encausse, che parlò per tempo dell’esplosione di un impero), in genere l’Unione Sovietica e il suo sistema di alleanze venivano dati per longevi. Certi interrogativi (come il famoso sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?, di Andreij Amal’rik) venivano considerati impropri e bizzarri auspici di dissidenti un po’ fuori di testa. Sarebbe sopravvissuto, certo, si diceva, l’impero sovietico: almeno fino al 2020-2030, azzardava qualche “futurologo”. Invece non fu così. I nodi, di cui nella nostra ignoranza di marca euro-occidentale non conoscevamo la portata, vennero ben presto al pettine. Quel mondo era corroso. Nel profondo. C’è chi dice che fu lo sforzo strutturale che l’URSS dovette sostenere nella competizione con gli USA di Reagan per la corsa agli armamenti a far implodere il sistema. Forse, in questo, c’è del vero. Ma personalmente chi scrive è più propenso a pensare che fossero i motivi endogeni di crisi di tipo politico-morale e sociale a far accasciare platealmente su se stesso un grande edificio minato, da tempo, alle fondamenta. Questo d’altronde, a volerla leggere, diceva già la storia di alcuni dei più vicini decenni del Novecento. Questo avevano annunciato, con rombo di tuono, la rivolta operaia di Berlino Est del 1953, il 1956 ungherese (che, lo aveva detto Indro Montanelli, allora non creduto, era rivoluzione di proletari, di comunisti eterodossi e di socialisti), la trascinante (e presto soffocata) “Primavera” di Praga, la fiumana operaia e popolare aderente a Solidarność nell’81 polacco. Fu proprio il soffocamento di quell’atipico movimento operaio da parte del generale Jaruzelski a far dire a Berlinguer che la spinta propulsiva derivante dall’Ottobre rosso era irrevocabilmente esaurita. Una dichiarazione fatta con non poco ritardo sulla storia, ma con nettezza. A ripensarci adesso, infatti, sembra incredibile, ma non erano ancora cose facili da dire. A sinistra, e non solo. Del resto, di che meravigliarsi?
Il “fattore Gorbaciov”
Come ricordiamo in un’altra parte della Rivista, qualche anno più tardi, esattamente nel 1984 (se non andiamo errati), Giulio Andreotti si prendeva gli applausi alla festa de “L’unità” ostentando il suo classico “realismo” e dicendo che era inevitabile che il muro di Berlino restasse in piedi. Ma le cose non andarono così. Cinque anni dopo, del Muro non sarebbero restate che macerie e si sarebbe andati rapidamente, in uno scenario che chiunque avrebbe fino ad allora considerato “fantapolitico”, alla riunificazione del popolo tedesco: una sola Berlino (città di cui Mosi racconta le straordinarie trasformazioni realizzate in questi anni), una sola “grande Germania”.
Dagli eventi dell’Ottantanove, del resto, a Ovest, tutti rimasero spiazzati: progressisti e conservatori, (centro) sinistra e (centro) destra. Per tanto tempo, come forse era inevitabile in tempi di “guerra fredda” e di costante corsa al riarmo, nei confronti del Blocco dell’Est era prevalso un approccio cauto e, appunto, “realistico”. Le classi dirigenti socialiste, socialdemocratiche, ma anche democratico-cristiane e conservatrici, quando andavano ad Est parlavano con i rappresentanti dei partiti al potere, quasi mai con i dissidenti (per evitare, si diceva, atteggiamenti che sarebbero stati considerati provocatori dai suscettibili esponenti della “Nomenklatura” delle “democrazie popolari”). Ma viene il momento in cui nella storia irrompe quel che fino a poco prima si sarebbe detto imprevedibile. E’, in questo caso, il “fattore Gorbaciov”. E’ giusto parlarne, all’interno di un discorso come questo. Ai nostri giorni è quasi dimenticato, Mikhail Gorbaciov. E nella sua Russia è, forse, uno dei personaggi più impopolari. E’ stato, d’altra parte, come talora viene, giustamente fatto notare, svantaggiato dalla doppiezza del ruolo che si è trovato a incarnare. Assai più di Berlinguer, operando nel cuore e al centro di comando del colosso sovietico, è apparso come l’ultima espressione del vecchio potere oltreché come il riformatore, e poi il distruttore, del sistema. Molti russi, poi, con un certo spirito sciovinistico, non gli perdonano di aver declassato quella che era pur sempre una grande potenza ed attribuiscono (veramente, con molta irriconoscenza e scarso senso storico) alle sue scelte di allora la responsabilità delle loro odierne tribolazioni.
Va pur ricordato, invece, la determinazione con cui Gorbaciov (pur con oscillazioni, ritardi ed errori) prese atto dell’irreversibile crisi del “sistema socialista”. Forse, ed evidentemente, non poteva fare diversamente. Ma operò certe scelte, e non altre. Anche a questo è dovuto il carattere dirompente dell’Ottantanove. Che fu, certamente, il punto di arrivo di un processo storico, che era passato in precedenza per la Conferenza di Helsinki (1) del 1975 (con la risonanza che ebbe, a Est, il suo cosiddetto “terzo cesto”, relativo a libertà di movimento e diritti umani), per il rafforzamento del dissenso e dell’auto-organizzazione della società civile (come in Polonia), per la crescente crisi strutturale e ideale di quelle società. Che fu dovuto all’iniziativa di massa, e pacifica (rivoluzioni “neogandhiane”, le chiamò Ernesto Balducci) delle popolazioni, come quei tedeschi dell’Est che, si disse, “votavano con i piedi” fuggendo in gran numero. Ma che poté dispiegare tutta la sua forza di rottura storica anche per le decisioni dell’“uomo coraggioso” (come lo definì una volta Adam Michnik, esponente di punta di Solidarność) che sedeva allora al Cremlino. Avrebbe potuto fare diversamente, infatti, il “padrone del Cremlino”. Fu anche il suo fermo orientamento, deciso a non replicare tragedie storiche già viste, a non reprimere i moti popolari con la forza e a non soccorrere regimi agonizzanti con i carri armati a far sì che le cose prendessero a scorrere con l’empito travolgente che le caratterizzò.
Un capitalismo senza democrazia?
Non bisogna, infine, dimenticare, come dicevamo sopra, che ci furono due Ottantanove: quello cinese e quello dell’Europa dell’Est. Nelle due scelte, emblematicamente diverse, che furono operate non era inscritta solo la decisione (certo cruciale): repressione sì, repressione no. Vi era, al fondo, molto di più. E di più “strategico”. La domanda cruciale, a cui Gorbaciov e i dirigenti cinesi risposero imboccando strade opposte e divergenti era, evidentemente: ha senso e può essere imboccato il percorso del capitalismo senza democrazia politica? Sì, risposero i cinesi, ed infatti continuarono a introdurre nel loro sistema quote crescenti di economia di mercato e di logica imprenditoriale, realizzando un unicum storico: la costruzione del capitalismo sotto la dittatura politica del partito comunista (questo esplicitò Tien-An-Men) e senza libertà civili e sindacali.
No, rispose Gorbaciov, portando alle estreme conseguenze glasnost e perestrojka, non può esservi sviluppo economico senza democrazia. La riforma economica deve procedere insieme all’apprendimento della democrazia (e la sua Russia, anzi ancora Unione Sovietica, fu, per una sua breve ed entusiasmante “primavera”, tutto un fiorire di passione e di iniziative politiche). Non aveva messo in conto, Gorbaciov, lo sfaldamento del sistema né, tantomemo, la fine dell’Unione Sovietica (che ebbe il suo Ottantanove con due anni di ritardo ed in modo singolare, dopo l’incredibile e pasticciato “golpe” di agosto).
Ma di fronte alle estreme conseguenze dell’indirizzo imboccato, e soprattutto dell’accelerazione del corso della storia (chi avrebbe pensato che così rapidamente sarebbe stato chiamato a dare il suo assenso alla riunificazione tedesca?) non si ritirò indietro.
Quali sono state le conseguenze dei due diversi Ottantanove di cui andiamo parlando?
Certo, potrebbe essere detto che la Cina ha conservato la sua saldezza interna e si va avviando a divenire una grande potenza a livello economico e tecnologico. Ma a prezzo di non poche contraddizioni sociali (il famoso sviluppo ineguale “a macchie di leopardo”) e senza tutela per le fasce deboli e subalterne della società e, soprattutto (almeno per adesso) senza democrazia e diritti civili. Nell’Europa centro-orientale (come è tornata ad esser chiamata l’indistinta “Europa dell’Est”), certo, non tutto è andato come alcuni, all’indomani del crollo del Muro, si sarebbero potuti attendere. Non si è ricreata l’armonica seppur variegata dimensione di una tranquilla e prospera Mitteleuropa, di cui pure negli anni dell’immediato dopo-muro sembravano riaffiorare il nostalgico ricordo e il mito(2). Tutta la fatica di un’indefinita “transizione” si è fatta sentire, sia pure con le dovute differenze da paese a paese.
La “democratura”
In alcuni casi, come continua impietosamente a ricordare Matvejević, invece di una compiuta democrazia si è formata una democratura, un ibrido in cui, sotto la veste istituzionale delle libertà formali, continuano ad esistere, camuffati, troppi aspetti delle vecchie pratiche autoritarie. E c’è, sullo sfondo e al centro di quel che fu l’“impero” sovietico, l’inquietante “questione russa”, la cui essenza si è espressa e si esprime nella disinvolta gestione del potere (e del rapporto potere-economia) nell’anomala democrazia in versione eltsiniana, prima, e putiniana, adesso. Per non parlare di quella macchia nella (indifferente) coscienza d’Europa che è rappresentata dalla guerra di Cecenia. Dove, in nome della lotta alla (reale e consistente) piaga terroristica, si è fatta terra bruciata e si è fatto strame dei diritti umani e della dignità di una piccola e fiera popolazione caucasica. E’ vero, si ha, a volte, l’impressione che, crollato materialmente il vecchio Muro e recisa per sempre quella cortina di ferro da Trieste a Danzica e Stettino di cui aveva parlato il vecchio Churcill nello storico discorso di Fulton, nuovi e invisibili muri si siano alzati a separare ancora l’Europa occidentale da quella che era, un tempo, l’“altra Europa”. E, all’interno di quest’ultima, nel bacino centro-orientale del “vecchio continente”, sperequazioni forti si sono confermate o nuovamente imposte fra aree e paesi che, sia pure a prezzo di sacrifici e di logiche a volte brutali, sostanzialmente “ce l’hanno fatta” e paesi e regioni che continuano ad essere in condizioni di marginalità, povertà e sofferenza. Il fianco Sud-Est dell’Europa continua a gemere e fa difficoltà a trovare una strada. E’ vero, nell’insieme, che talvolta si ha l’impressione che, rispetto alle speranze nutrite dalle folle che, nelle capitali dell’Europa centro-orientale, demolirono a pacifiche spallate vecchi assetti di potere e nomenklature decotte, siamo portati a fare un “bilancio amaro” (Leoncini). Ed ha ragione Melita Richter a sottolineare come non ci sia stato un adeguato sforzo per capire altrui sensibilità, paure ed incertezze e per facilitare la ricomposizione dei popoli del continente in un sussulto della coscienza comune per riunificare davvero quel focolare europeo che, come aveva ricordato suggestivamente Milan Kundera, era stato brutalmente diviso e scippato di una parte (quella centrale e orientale, appunto) del suo patrimonio culturale e identitario.
Ma tutto questo, dovrebbe esser chiaro, non sminuisce affatto la portata, il valore ed il significato di quello che simbolicamente, politicamente e storicamente quel 9 novembre di quindici anni fa ha rappresentato.
Di Vittorio aveva capito
Non solo perché è finito un mondo la cui positività, come ricostruisce con vivezza di immagini e di aneddoti Lucio Niccolai, non esisteva se non nei perduranti riferimenti dell’immaginario di rispettabili militanti di base che, a lungo, hanno pensato che “da là” derivasse forza e appoggio per le loro aspirazioni e lotte, spesso giuste e sacrosante. Ma che le cose stessero diversamente doveva averlo già intuito in grande dirigente sindacale come Giuseppe Di Vittorio, che prima ed istintivamente fu portato a capire le ragioni dei lavoratori ungheresi (definiti come controrivoluzionari dalla linea ufficiale del partito) per essere poi costretto, con la morte nel cuore, a rivedere formalmente le proprie posizioni. Ma aveva capito, Di Vittorio. Più di trent’anni dopo, Occhetto, operando una scelta (quella di procedere alla trasformazione del PCI in un’altra Cosa) esecrata da una parte non piccola dei militanti e del corpo del partito, non farà che certificare quel che nella storia si era già consumato. Proprio il ’56 ungherese, d’altronde, era stato riscoperto, e valutato con ben altra equità (rispetto ai giudizi espressi a caldo di fronte ai quei “fatti” ormai lontani) dalla sinistra italiana di matrice comunista. Proprio Occhetto, accompagnato da Federigo Argentieri, autore a metà anni Ottanta de L’Ottobre ungherese (3), era stato a Budapest a rappresentare il PCI durante la riesumazione e le esequie solenni di Imre Nagy, il comunista “eretico”, e guida, della rivolta di Budapest del ’56 e di alcuni dei suoi sfortunati compagni.
Un atto storico di riparazione. Una presa d’atto della necessità di una rilettura di tanta parte della storia del Novecento e di implicita apertura al nuovo. Ed il nuovo che, da lì a poco, avrebbe fatto irruzione sulla scena e sulle piazze d’Europa avrebbe davvero imposto forti cambiamenti di paradigmi culturali e di modi di pensare. Colgono nel segno, se posso dirlo, in maniera ed in misura diversa, nella nostra sezione monotematica, gli spunti di interventi che sostengono che siamo inadeguati a leggere il “mondo nuovo” che da lì ha iniziato a prodursi. Così, ad es., Marcello Flores e Claudia Mancina. Con quest’ultima si può anche non concordare, per così dire, su una certa impronta e “direzione” del suo ragionamento ma, certo, non si può non apprezzare la forza con cui sottolinea che non si fa politica con la “nostalgia” e con la riproposizione di schemi (politici e, talora, anche scopertamente neoideologici) che proprio il gigantesco colpo di spugna dell’Ottantanove ha reso anacronistici.
Andando a stringere, è dunque vero che talora l’Occidente, impropriamente mitizzato (da parte di dissidenti e popolazioni dell’Est), si è rapportato ai “vecchi fratelli separati” con logiche miopi, anguste e, talora, predatorie. Anche di questo è fatta la versione meno presentabile della globalizzazione. Ed è vero che i popoli dell’Est sono stati complessivamente assai poco sensibili alla possibilità di (ri)costruire le loro economie e società all’insegna di logiche più austere ed eco-compatibili rispetto alla logica consumistica dominante nelle società affluenti dell’occidente, statunitense ed euroccidentale (come auspicava, poco dopo il crollo del muro berlinese, Alex Langer in uno scritto che qui riproponiamo). Ma si può chiedere agli altri di fare quel che non si è in grado di realizzare in casa propria? Individuare e perseguire un nuovo rapporto fra crescita economica, consumi ed ambiente è questione che tutti, globalmente, ci investe. E da tale considerazione, in una logica nuova di interdipendenza, bisogna ripartire.
Turisti e polizia politica
Una persona di mia conoscenza, profondamente legata alla realtà praghese, commentava un giorno con aspra insofferenza i commenti degli amici intellettuali che rimpiangono la Praga, più solitaria, discreta e romantica di “prima” (prima della svolta e del crollo del “socialismo reale”) rispetto alla Praga attuale, involgarita, piena di gente e di paccottiglia, sommersa dalle ondate del turismo di massa. “Una città raccolta e silenziosa in cui nelle strade si sentono distintamente i passi degli agenti della polizia della polizia politica è forse preferibile ad una città in cui può finalmente aver sfogo l’“insopportabile” e “frastornante”, ma libero, scalpiccio di visitatori e turisti?” fu la sua incollerita domanda rispetto, alla quale, mi pare, la risposta è pleonastica.
C’era, insomma, un prima (che offriva, certo, alcune certezze, come ricorda Matvejević, ma a costo della privazione dei diritti civili fondamentali) e c’è un dopo, che tuttora va definendosi nella ricerca di una più stabile fisionomia, che ha aperto nuove, e talora dolorose e inaccettabili, contraddizioni, ma ha dischiuso, soprattutto, a nuove e libere potenzialità. C’è la realtà inedita della “grande Europa”.
Ha senso riparlare oggi del crollo del Muro proprio perché questa possibilità ha iniziato, sullo sfondo, fin da allora a delinearsi. Certo, questo ci dicono anche i recenti risultati elettorali, allarmanti per scarsità di interesse e di partecipazione proprio negli ex “paesi dell’Est”, fare l’Europa non può essere appannaggio solo degli eurocrati, di una burocrazia e di un ceto politico sentiti come freddi e lontani. Un campanello d’allarme è suonato. La nuova e vasta Europa, basata su un suo unitario riferimento costituzionale (ne parla Giuseppe Vettori nel “Tema” di questo numero), dovrà avere un’attenzione diversa alle politiche sociali, ad Est, ma anche ad Ovest (4). Dovrà decidersi a dotarsi di una strategia e di una politica comune sulle questioni internazionali, lasciandosi alle spalle le recenti divisioni fra “vecchia” e “nuova” Europa. Dovrà dotarsi di un respiro culturale e di uno spirito cooperativo capaci di non mettere più in contrapposizione il ritrovato spazio centro-orientale con quell’area mediterranea che rappresenta la più antica memoria e l’anima originaria dell’Europa medesima.
Sono problemi di ardua soluzione, che danno conto, a partire dalla considerazione di un’area specifica, di quanti siano, all’inizio del millennio, le contraddizioni e le questioni sul tappeto, nel mondo. Resta il fatto che se il comparto europeo del pianeta ha la possibilità di giocare un ruolo importante, strategicamente innovativo ed unitario è alla strada, nuova e allora imprevedibile (giova ripeterlo), aperta dall’Ottantanove che lo si deve.
Un altro muro
Il crollo del Muro europeo, diceva d’altra parte Balducci, come altre volte ci è occorso di ricordare, ha lasciato in piedi l’altro, e più grande muro, gigantesco e reale seppur invisibile, che separa il Nord dal Sud del mondo. L’Ottantanove ha posto le premesse per un cambiamento di ordine generale. Non è ascrivibile allo “spirito dell’Ottantanove” medesimo, ma al suo depotenziamento se il mondo non ha realizzato cambiamenti che si rivelano sempre più urgenti e necessari.
Avrà pur avuto un suo significato se Jacek Kuron (come racconta Wlodek Goldkorn), partito dal marxismo e poi attestatosi sull’auto-organizzazione della società civile per abbattere il comunismo reale e restaurare mercato e democrazia, di fronte alle contraddizioni prodottesi nella fase attuale del capitalismo nel “mondo globale”, abbia guardato con singolare simpatia ai movimenti new global. Rigurgiti “senili” di spirito alternativo di un uomo dall’animo strutturalmente libertario e “di sinistra”, come irrispettosamente si potrebbe pensare, o manifestazione di fedeltà ad un sogno di ricongiungimento fra giustizia e libertà, che del rivolgimento dell’Ottantanove è forse l’aspetto più grande e più sostanzialmente misconosciuto?
Continuo personalmente a pensare (non d’accordo, in questo, con Adriano Sofri) che la famosa affermazione di Bobbio all’indomani dell’Ottantanove, secondo la quale la democrazia dovrebbe pur farsi carico delle istanze di giustizia di cui in maniera fuorviante si era proclamato difensore il totalitarismo di sinistra, fosse molto più di un alibi tardivo e “postumo” offerto al comunismo sconfitto. Vi è, in essa, l’intuizione di una questione fondamentale che va, per molti aspetti, al di là dello stesso tema etico-politico della giustizia (o, almeno, dell’equità) sociale. Il movimento operaio (nelle sue due principali componenti: comunista, e socialdemocratica) ha operato storicamente una forte canalizzazione, a livello di massa, di sentimenti collettivi, di bisogni di identità e di istanze partecipative. Istanze che poi, certamente, l’ideologia, nel momento stesso in cui sembrava offrire una risposta calda e rassicurante, isteriliva e irrigidiva spesso nel segno dello spirito dogmatico e dell’intolleranza. Che dire dello spirito internazionalistico che veniva piegato ad offrire giustificazione agli interventi repressivi delle truppe del Patto di Varsavia e delle retate del KGB? Ma resta il fatto che anche nel comunismo (realtà assai complessa, di cui è evidentemente riduttiva e poco sostenibile una lettura come pura manifestazione di “storia criminale”), come nell’identificazione partecipata con i partiti di massa di altre correnti ideali, si sono riconosciuti milioni di persone. Milioni di esclusi. In questo senso, il microcosmo amiatino di cui viene dato conto nelle pagine che seguono, è rivelatore di qualcosa di più di manifestazioni di patetico fideismo e di sconsolante e surreale scissione fra mito persistente e traduzione in realtà dell’idea comunista. Il che, ovviamente, non è un’attenuante, ma casomai un’aggravante per la distorsione che la trasformazione di un potente sogno di liberazione nella prassi del dominio totalitario ha operato, nel corso della storia del Novecento.
Non è certo il caso di avere, dunque, rimpianti, variamente camuffati e variamente riemergenti (ha di nuovo ragione da vendere, su questo punto, Claudia Mancina) per un modo ideologico, in versione “vetero” o “neo”, di affrontare la realtà. Ma si tratta di misurarsi con un problema di portata enorme che il mondo del dopo-muro continua ad aggirare. Non si risponde al forte bisogno di politicità che l’Ottantanove, e in termini assai diversi ma non del tutto dissimili, in precedenza, il Sessantotto hanno posto, eludendo la questione dell’individuazione di forme nuove di partecipazione.
Cosmopolis
Qui il discorso si farebbe grosso ed è opportuno rinviarlo ad altra sede. Ma qualche spunto, in sede conclusiva, possiamo provare ad individuarlo. Limitiamoci, fra i diversi possibili, ad accennarne tre:
1) Il ripensamento ed il recupero, a sinistra, in chiave si intende non acritica e non agiografica oltreché storicamente avvertita, di pezzi, esperienze, filoni di pensiero dell’“altra tradizione”. Un lavoro importante, in questo senso, è portato avanti, ad es., dagli amici della Rivista “Una città” che ripropongono sistematicamente, sia sul versante riformistico sia su quello alternativo- libertario, idee e personalità della sinistra non comunista, portatrici di istanze di tipo cooperativistico, social-liberale, partecipativo che è interessante andare a rileggere. Non per riproporne, in un contesto mutato, formule o ricette, ma per ritrovare il senso di una storia e valorizzare, attualizzandole, intuizioni che la dominante tradizione marxista, o leninista, o togliattiana, aveva, nello scorrere del tempo, ignorato o discriminato.
2) La riproposizione di una riflessione, non specialisticamente teorica, ma saldata ad una pratica condivisa, che sappia ripensare, per l’appunto, i temi e i modi della rappresentanza e dell’agire politico. Agire politico: riferimento centrale, come è noto, in un’elaborazione come quella di Hannah Arendt. Lezioni come quella della Arendt (5), di singolare attualità, appaiono in sintonia con il lascito “rivoluzionario”, unito al groviglio di problemi, trasmessoci in eredità dell’Ottantanove. L’insegnamento arendtiano, per il suo radicalismo anti-ideologico (si pensi a quanto la Arendt condanni l’utilizzo ideologico della pietà e della compassione) e, insieme, per il suo contenuto di radicalità democratica, avrebbe non poco da dire ai movimenti che contestano l’andamento attuale della globalizzazione e che, per dare efficacia politica alle loro istanze, hanno da individuare strade non sterili per proporre una “buona mondializzazione”.
3) L’individuazione di parametri nuovi che sappiano legare, in un tempo che è irrevocabilmente mutato, la concretezza delle buone prassi e delle efficaci politiche della cultura riformista con l’esigenza profonda e radicale del cambiamento possibile che, per essere stata travisata nelle versioni ideologiche e totalizzanti storicamente fornitene, non è per questo meno vera e profonda nell’epoca nuova che si è aperta. I tempi che viviamo sembrano, talora, abbastanza tendenti all’afasia. Ma, forse, cercano solo le parole per dire un bisogno mai spento, antico e insieme nuovissimo, più concreto ma non per questo meno incisivo e radicale, di un domani fatto di equità, solidarietà, pace, affermazione della cultura dei diritti.
C’è un punto che è rimasto fuori dall’elenco, ma che è, forse, quello decisivo. Provo a dirlo con una suggestione.
La città del domani se vorrà essere autentica e solidale non sarà, evidentemente, fondata sull’esclusivismo e sull’affermazione delle identità particolari. Le singole identità dovranno, quanto mai, essere accolte e rispettare. Ma per contribuire, in una combinazione inedita di unità e molteplicità, a costruire una nuova universalità.
Questo è ben espresso nel mito di cosmopolis. Ne aveva parlato Balducci, ma ne aveva accennato, ancor prima, proprio Hannah Arendt, che, occupandosi di apolidi e paria nella storia del Novecento, aveva anticipato un tema che gli anni duemila, delle migrazioni e del ravvicinato confronto fra culture, rendono di stretta attualità. La cosmopolis “alla quale la Arendt ci permette di pensare si compone (…) di una pluralità di città diverse, concepite come luoghi di passaggio”(6).
In tempi incalzanti di interdipendenza e di (buone e cattive, ma comunque stringenti) tendenze alla “mondialità”, qui ritroviamo, verosimilmente, il centro ed il perno del discorso. E l’Ottantanove, con il crollo del suo Muro (e il metaforico auspicio dell’abbattimento di molti muri), viene a ridefinirsi forse, in una prospettiva storica, non come capitolo della storia europea ma come anticipazione e preannuncio possibile della nuova storia planetaria.
Note
1) V. in prop.: Severino Saccardi, Il continente ritrovato, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1990.
2) V. in prop.: F. Fejto, La fine delle democrazie popolari, Mondatori, Milano 1994
3) Federigo Argentieri- Lorenzo Gianotti, L’Ottobre ungherese, Valerio Levi editore, Roma 1986
4) Interessante, al riguardo, quanto scrive, riferendosi nello specifico alla politica di Blair (La lezione di Blair alla sinistra), Lucia Annunziata su “La Stampa” del 23/7/2004 laddove rileva che nel “(…) mondo che abitiamo, il quadro politico quasi ovunque si è radicalizzato: laddove dieci anni fa avanzavano richieste di efficienza e libertà da ogni laccio, oggi emergono domande di riequilibrio, di possibilità comuni”.
5) Sull’attualità della lezione di Hannah Arendt, è da segnalare il recente lavoro di Rosaria Parri, Mondo comune- Spazio pubblico e libertà in Hannah Arendt, Jaca Book, Milano 2003
6) Ilaria Possenti, L’apolide e il paria- Lo straniero nella filosofia di Hannah Arendt, Carocci, Roma 2002.