mugnaini

Con occhi di bambini, con parole di vecchi
di Sara Mugnaini
Una storia basata sul vero

Questa storia è basata sul vero, i racconti di nonna Luisa e di nonno Pietro, e su un immaginato che potesseessere il più possibile verosimile.

La prima ha convissuto forzatamente con un gruppo di soldati della Wehrmacht, che le occuparono la casa tra la fine del 1943 e l’iniziodel 1944. Il secondo ha assistitoalle retate, alla ricerca casa per casa,ai racconti dei repubblichini e dei partigiani che in quel momentoabbondavano a Montemignaio e nel Casentino.

Erano occhi di bambinoe so che non è stato facile per loro raccontare la guerra con le parole dei vecchi.

Quando hanno bussato alla porta

È da una mezz’ora buona che sto cercando di rinfilare le pallinedi corallo della mia collana. Beppe stava cadendo dalle scale, non ho fatto in tempo a dirglidi «no», si è agganciato alla collana e ha tirato forte. Così adesso la raccomodo. Voglio finire prima che ritorni Gerbert,non voglio che la veda tutta rotta. So che gli dispiacerebbe molto.

Se n’è andato quandola mamma mi ha portatogiù nella cucina,a merenda, per vedere se i suoi amici soldatiavevano lasciato qualche avanzo per me. Ce n’erano un po’ in un angolo del tavolo grande, quello che babbo Rinaldo ha costruito molto tempo prima che nascessi.Ho trovato del pane e un po’ di marmellataavanzata nel barattolonesulla credenza. La mamma è stata chiara quando le ho chiesto, col pane in bocca: «Torneranno?». «Non si parlacon la bocca piena. Se torneranno? Voglia Iddio di no».

Secondo me è stata un po’ cattiva, ma non lo dirò a Gesù Bambinonelle preghiere di stasera.

Gerbert è arrivato con gli altri una sera dello scorso inverno. Faceva un gran freddo e quando hanno bussato forte alla porta, nessunodi noi aveva voglia di alzarsi dal canto del camino ed andare ad aprire. Quindi hanno mandatome. Deve essere perché adesso sono una bambina grande. Devo chiedere a nonna come funziona questa storia. Che quando i grandi non hanno voglia, allora la devono avere i bambini. Vabbè.

Insomma mi sono alzata, ho aperto, e ho avuto una gran paura. Quasi il capitano non mi buttava per terra. Allora non lo sapevo che era il capitano, l’ho scoperto dopo, la sera in cui aveva bevutotutta una bottiglia di vino del babbo e si è messo a urlare, mezzo nudo in cucina:«Io sono il capitano, qui! Se non fate come dico ra-ta-ta-ta-ta e kaput!Tutti!».

Allora ho chiesto alla mia amica Gina, del podere accanto: «Che vuol dire kaput?». Lei mi ha guardato come se fossi una scema e mi ha risposto:«Non lo so, ma se dicono kaput, obbedisci, fai la brava. E scappa». «Ma non posso fare la brava e scappare nello stesso momento!», le ho risposto per farle capire che non ero mica scema, io. «Hai ragione. Allora stai zitta e china la testa».

Una strana lingua

fifa matta, mentre ci mettevano tutti in fila davanti alla porta, al freddo, e loro entravano dentro.Babbo e nonno forse lo sapevano di dover chinare il capo, perché rimasero così immobili fino a chenon ci fecero rientrare. Solo i pugni li tenevano stretti stretti. Non capisco perché.

Gerbert parlava, cioè lo parla ancora, italiano.Però lo parla con una cantilenastrana. Sembra come Renato, il barbiere del paese, che canta le canzonidi un americano che però ha il cognome di un italiano, come si chiama?,.. ah sì, Sinatra, e insomma le canta tutte con parole strane. Gerbert quellasera ci disse che la nostra casa era perfetta, e che quindi noi dovevamo stare al piano di sopra, perché loro avrebberofatto il «quartiergenerale» nel piano di sotto. Ma io dopo ho capito che non c’era nessun generale, solo un capitano, e non ho mai inteso cosa volesse dire Gerbert quella sera. Appena torna gli devo chiedere perché proprio casa nostra. Perché non quella della mia amica Gina, che pensa che io sia una scema.

Peròsono contenta che i soldati stiano a casa mia. Tutti i bambinidel paese vengono a chiedermiqualcosa. Mi hanno chiesto come si chiamassero, cosa facessero dentro casa, se potevo rubar loro un fucile e andare a fare la guerra con i grandi.

«Alla guerra ci vanno solo gli uomini, cretini», ho rispostomentre tornavo di corsa verso il prato di casa. «Non è vero», mi ha detto Alboino, il bambino del macellaio.

«Ieri una signora è venuta in casa mia, ha preso delle lettere e sai dove se l’è messe?».

«Dove?», abbiamo fatto noi tutti in coro. «Nelle tasche dei pantaloni». «Una donna con i pantaloni?!». «Sissignore, parola mia!». «Non è possibile, sarà stato un uomo travestito da donna». «Macché», ha continuato Alboino. «È una donna che fa la guerra. Sta nascostacon gli altri grandi, su, nel bosco.Porta le lettere a loro, me l’ha detto la mamma».

Ho deciso dinon dire nulla a Gerbert,non volevo che sapesse che nel bosco ci sono altri, oltre ai soldatiche parlano tedesco. A volte il capitano urla con quella lingua strana, e a me sembra così incredibile che ci sia una lingua così al mondo.Chissà come sono brutte le loro canzoni.

La collanadi corallo

Comunque noi non ci siamo fidati, ci sembrava strano che una donna andasse in giro vestita come un uomo. Anche se poi, a pensarci, forse i pantaloni starebbero bene anche a me e alla Jole, mia sorella. L’altra sera la mamma si è arrabbiata così tanto, perché ci siamo infilatei vestiti dei soldati stesi ad asciugare fuori, vicino alla porcilaia. Ci eravamo messe i loro pantaloni eJole era rimasta incastrata con la testa in unadelle camicie di un soldato. Non ha visto la mammache tornava dall’orto.Io sono riuscita a scappare, ma lei no.

Gerbert mi ha trovato nascosta dietroun orcio in cantina.C’era puzzo di muffa ma tutto era meglio delle botte dellamamma.

«Che fai lì?», mi ha chiesto Gerbert quando mi ha trovato. «La tua mamma ti cerca». «Lo so. Non dire nulla. Mi vuole picchiare».

Ma Gerbertmi ha convinto a tornare su, mi ha detto che la mia casa era il quartier generale dei soldati,e che io dovevo essere coraggiosacome loro. Però la mamma mi ha picchiato ugualmente. Non molto però. Mi sa che Jole ne aveva prese di più. Io sonocorsa fuori perché ero arrabbiata con Gerbert. Piangevo così forte che non ce la faceva più a sentirmi urlare. Allora mi ha preso in collo,mi ha fatto fare un giro nelle sue braccia, tanto da farmi girare la testa. Anche con Beppe, ilmio fratellino piccolo,lo fa spesso, per farlo ridere. Poi mi ha guardatoe mi ha detto: «Sei sta-ta coraggiosa. Ti faccio un bel regalo». «Che regalo?», ho detto asciugandomi il naso con la mano. E mi sono accortache non avevo il fazzoletto. Non volevo farmi vedere come una mocciosada Gerbert. Speravo che sapesse che ormai ero quasi grande.

Ha fatto apparirenon so da dove una collana di corallo. «Per me?», ho chiesto.Ho allungato una mano per toccarla. Me l’ha messa al collo e accarezzato i capelli.«Ecco fatto, brava Luisa».

Sono stata un po’ a toccarela collana. I soldati intorno a noi avevano ripreso a fumare e a parlare strano. «Anche a te quando sei coraggiosoti regalano le collane?». Gerbert ha riso, così forte che quasi non gli è cascato il cappello.«No, Luisa, a me dannoqueste», e mi ha fatto vedere delle strisce gialle oro sulla giacca del suo compagno, perché la sua lastava lavando la mamma. «Beppe è piccolo, ma tu quanti anni hai?». «Sei», ho detto io, precisissima. «Quando sarò grande come te ci sposiamo?».

Ha sorriso,ma era triste. «Certo.Appena la guerra finiscevado a prendere le mie sorellee torno da te e dalla tua mamma. E ci sposiamo». Ero contentissima. Gli ho sorriso anch’io, ma io non ero triste. Sono andata a letto stringendomi forte la collanaaddosso. Avevo paura che quell’impiastro di Jole me la rubasse appena chiudevo gli occhi.

 
Crescere in fretta

Quando mi sono svegliataera molto presto. Il gallo aveva già cantato,ma in casa non si sentiva nessunrumore. Ho pensato che la mamma e la nonna fossero andate al fiume, ma quando ho visto la cesta di vimini ancora piena di panni, ho capito che qualcosa non andava. Infatti, la cucina era deserta.I soldati erano fuori in giardino.Parlavano a voce alta, due di loro sembravano litigare. Mi misi in punta di piedi, ma non vedevo Gerbert e il capitano cattivo. Allora corsi in cameretta, presi la seggiolina per le bambole, e la misi accanto alla finestra. Era vero. Gerbert non c’era, e neanche il capitano. Mia nonna mi strattonòper un braccio. «Vieni via di lì. Subito». Corse conme nel retro della casa, dove tenevamo i limoni quando d’inverno faceva troppo freddo.

«Cosa c’è?», chiesi. «Perché siamo solo io e te?». Avevo paura, m’iniziòtutta d’un botto, come se d’improvviso mi fossi accorta di avere la febbre.

«Dov’è la mamma?»,domandai a voce alta, guardandomi in giro. «Luisa,ascolta. Ora devi correresotto gli alberi,fino all’orto. La mamma è lì. Corri e non ti far vedere da loro», e con gli occhi guardò giù dove erano i tedeschi. «Va bene», dissi. Presi la rincorsa e andai piùveloce che potevo. Mi venne in mente quando con Jole e gli altri bambini giocavamo a nascondino, prima che arrivassero i soldati. Ma allora non avevo mai

paura, e non dovevo correrese non ne avevo voglia. Era quasi l’ultimo giorno digiugno, io avevo quasi sette anni, ma mi sentii vecchia come la mia mamma quando arrivai di

corsa tra gli alberi di ciliegi e i tigli in fiore, e la vidi lì, che sembrava forte come sempre, ma aveva paura come non mai. Parlava con Ottavino, un ragazzino più grande di me che non mi stava più simpatico da quando mi aveva detto che Gina, la mia amica,era più carina di me. Però feci finta che di questo non mi importasse. Ero curiosa di sapere dove erano spariti tutti.

«Dove li hanno portati?»,chiese la mamma, che non si era neanche accorta di me.

«Su a Montemignaio. I partigiani hanno ucciso due degli ufficialidelle SS, vicino al castello. Mi hanno dettoche cercavano qualcuno, sono entrati in diverse case con i mitra in mano. Hanno fatto delle domande, spaventato tutti. Poi sono risaliti in macchina, ma prima della curva i cecchini li hanno beccati».

Ottavino e la mamma si guardarono come due che capiscono moltecose in un solo momento.

«Li ammazzeranno», sussurrò,e la paura mi risalì come la febbre. «Le SS non aspettavano altro.Sono cominciati i rastrellamenti», e nel dirlo si accasciò a sedere sull’erba.

«Rosa, non preoccuparti. Tu hai la Wehrmacht in casa. Non vi succederà nulla, a te, a tua mamma o ai bambini»,e face una pausa lunga un chilometro. «Ma fai nascondere bene gli uomini».

Aquel punto la mamma si voltò e mi vide. Avrei voluto essere piccola come una mosca e scomparire, ma non mi riuscì. Anzi, la mamma mi guardò dritta negli occhi e mi disse:«Luisa, devi comportarti da grande oggi».

Uncrudele gioco a «nascondino»

Oggi hanno ammazzatotante persone, me l’ha detto Alboino. L’ha sentito dalla donna con i pantaloni che tengononascosta in casa, sotto le travi del tetto, e che Gerbert non ha visto quando è andato a cercarla. Io non gli ho detto dove fosse.

Il nascondino che giocano i tedeschi è crudelee cattivo. Portano fuori le persone dalle case, alcuni piangono.Li fanno salire su dei camion con la tela invece del tetto di metallo,e li portano nel bosco. Alcuni sono tornati, dicendoche i partigianili avevano salvati, ma tanti no.

Sono arrabbiata con i partigiani. I soldati non facevano nulla di male, né a Montemignaio, né qui nel mio paesino.Poi hanno ucciso quegli ufficiali importanti, ed ecco cosa è successo. Alboino mi ha detto che questa è la Guerra, ma io non ho mai visto questa signora che fa litigare tutti. Non l’ho mai vista quando Gerbert mi ha regalato la collanadi corallo, o quando stamani il nonno e il babbo si sono dovuti nascondere nellebuche per le bare, giù al cimitero.

Ora ho paura per il babbo e il nonno, e anche per i soldati tedeschi. Stannomorendo in tanti. Ottavino è tornato e ha fatto piangerela nonna, quandole ha raccontatoche a Cetica e a Montemignaio avevano sparato a tutte le persone che avevano caricato sui camion.

«Circa trenta persone. Conosceva qualcuno?», ha detto poi Ottavino. Ma la nonna non ha risposto, si è solo nascosta il viso nel grembiulee ha iniziato a piangere.

Quell’ultimo giornodi Giugno

L’ultimogiorno di giugno, stavo ancora cercando di rinfilare tutte le pallinedi corallo della collana,quando i soldati, e Gerbert tra di loro, tornarono. Quando la mamma diede loro da mangiare, non si misero a parlare come sempre, fitto fitto, tra di loro. La maggior parte erano silenziosi, e neanche il capitano, sempre così agitato, alzò lo sguardodal piatto.

«Si sentono in colpa, bastardi», disse la mamma stizzita mentre girava la minestra di pane sul fuoco in cucina. «Per cosa, mamma?», chiesi io, ma lei non mi rispose. Fece finta di dare ascolto a Beppe, che dalla sala piangeva perché non poteva uscire di casa da quasi tre giorni.

Io non ci capivo più niente. Volevo credere che sia i partigiani, sia i soldatitedeschi fossero buoni, ma dopo tutto quello che avevo visto e sentito,pensavo che la Guerra li avesse fatti diventare tutti cattivi e malvagi.

Poi mi resi conto di quello che stava succedendo.

Quando scesi di nuovo giù in cucina, stavano facendo i bagagli. La nonna e la mamma li guardavano stupite, senza aiutarli.Più di una volta si strinsero contro il muro, mentre il capitano urlava ordini in quella lingua brutta, e loro prendevano tutto quelloche potevano e lo cacciavano negli zaini di tela con i quali erano arrivati quando ancora faceva molto freddo.

«Se ne vanno», pensavo, e in quel momento vidi Gerbert dall’altra parte della stanza, che con l’elmetto ancora in mano mi fissava. Non aveva più neanche il sorriso triste dell’altra volta. Io lo guardavo muta e lui riguardava me.

Corsi su in camera, ci rimasi per tutto il tempo che mi serviva a riaccomodare la collana. Di sotto era tutto un dare ordini, spostare mobili, risposte nervose e voglia di andarsenein fretta. Stavano scappando. I partigianie gli uomini del bosco dovevano aver fatto loro molta paura.

Non era servito ammazzare tutte quelle persone. Non era mai servito a niente. Adesso la Guerra stava venendoa cercare anche loro, e dovevano nascondersi moltovelocemente.

Corsi fuori con la collana finalmente al collo, mentre anche i soldati cominciavano a marciare, su per la strada che li avrebbe portati al Passo della Consuma, e poi chissà. Gerbertsi voltò una sola volta a guardare indietro, rischiando che il capitano lo vedesse. Io stavo in collo alla mamma, avevo voglia di piangere ma dovevo fare la grande.

«Mammà! Un giorno tornerò a trovarvi!», urlò poi rivolto verso di noi. Alzò un braccio e lo agitò come una bandiera.

Era il 30 giugno del 1944, e noi eravamo liberi.