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Con gli occhi di una bambina
di Melita Richter

Il ricordo drammatico dell’assedio di Sarajevo evocato con le parole dei testimoni: particolarmente toccanti quelle di Zlata, una bambina di undici anni che racconta nel suo diario lo sgretolarsi di un mondo fino a quel momento familiare e amico. Suonano quasi incredibili, oggi, quelle parole. E tornano a porsi le domande di fondo: com’è possibile che una simile barbarie possa essere successa, a distruggere un mondo che fino a quel momento sembrava convivere pacificamente?  E com’è spiegabile che l’Europa, che pur aveva le sue televisioni puntate sui Balcani e che testimoniavano il massacro, sia rimasta a guardare inerte, per troppo tempo, dando mostra di non capire?

 

Il mantra della «pace»

  1. Un anno, molti significati, strati di memoria ormai slabbrati, confusi, nonostante quelli istituzionalizzati nitidi, fissi, celebrati (ricorrenze, lutti, feste d’indipendenza…) e quelli privati spesso coltivati in sordina, non condivisi; miriadi di intrecci tra tempo-spazio-luogo, un fardello di piombo, una memoria anacronistica. Infine, la congestione dei significati, la sovrapposizione delle immagini, la contrazione di epoche, di date, di avvenimenti.

Il luogo è la ex Jugoslavia. I suoi resti martoriati, fondamenta delle nuove identità statali. Le divisioni sulle cerniere etniche.

Eppure, la prima associazione che accanto a quella cifra affiora nella mente è quella dell’immagine di migliaia di cittadini di Sarajevo, più di 100.000 di loro scesi in piazza a dire il «no» alla guerra. Le loro facce senza sorriso ma decise, di uomini, donne, giovani, tanti giovani che sentivano sempre più pressante l’alito della guerra addosso, eppure non ci volevano credere ancora. «Mi smo za mir» (Noi siamo per la pace). Esponevano i cartelli scandendo il loro affetto per la Bosnia Erzegovina, ripetevano il mantra «pace», concetto più vero e più sentito che mai, che poteva esprimere la popolazione mista di una città cosmopolita come Sarajevo. Ci credevano, ingenui, nella forza di quella parola, nonostante nella vicina Croazia l’aggressione serba, frutto dell’estremo nazionalismo e di insane progettazioni su una Grande Serbia avessero già dimostrato quanto feroce possa essere una guerra e quanto crudele e devastante possa essere l’attacco all’identità culturale e storica dell’Altro. Un Altro fraterno.

Disarmati e fiduciosi hanno invaso in massa le piazze e le strade di Sarajevo nei giorni del 4, 5 e 6 aprile del 1992. L’atmosfera era di piombo, tesa, la loro testardaggine a difendere la convivenza era l’unica arma che possedevano. Davanti al Parlamento gli oratori chiedevano un governo di unità nazionale. All’alba del 5 aprile questa speranza è stata spazzata via: dal colle dell’antico cimitero ebraico e dai piani alti dell’Hotel Holliday Inn, dove si erano piazzati i tiratori serbi di Karadzic, sono partiti gli spari sui manifestanti. Caddero le prime vittime, Suada Dilberović, una giovane studentessa di medicina giunta da Dubrovnik per prendere parte alla manifestazione e la pacifista croata Olga Sučić. Saranno colpite sul ponte Vrbanja, che attraversa il fiume Miljacka nel centro della città. Non è un caso che siano state le donne le prime vittime, le persone innocenti. Sarà la tattica preferita e perfezionata dei cecchini: colpire la cittadinanza inerme, donne e bambini che escono di casa in cerca di provviste, di acqua, di pane, che vanno a scuola, a prendere un tram, a raccogliere legna per ardere, o semplicemente escono incauti a respirare un po’ di aria fresca, salgono sugli slittini quando nevica…

 

Da quel maledetto Aprile

Da quel maledetto aprile il terrore tra la popolazione aumenterà sempre di più. Per i successivi tre anni di assedio non si muoveranno più come persone normali, non cammineranno ritti, si piegheranno cercando il riparo dietro i muri delle case, dei containers rovesciati, dei tram fermi, strisceranno all’ombra delle barricate e dei cumuli di sacchi di sabbia, volgeranno i loro sguardi in alto cercando di individuare da quale parte potrà giungere un mortaio, un proiettile, una pallottola sparata da chi ha deciso di seminare morte e di annientare la città. Malediranno i monti che circondano la città, quei monti di cui sono stati sempre orgogliosi, che gli hanno portato notorietà mondiale durante i giochi Olimpiaci invernali del 1984, e che loro frequentavano gioiosi cercando la frescura nelle torride estati cittadine. Saranno indotti a maledire la stessa configurazione geografica che vede la loro città distesa in una vallata attraversata dal fiume e circondata da una corona di monti, una bellezza unica nei tempi di pace, una sfortuna enorme in tempi di assedio. Una trappola dove saranno obbligati a vivere per quarantotto mesi come i topi negli scantinati, senza una via d’uscita.

La testimonianza di una donna anonima parla chiaramente del risveglio delle coscienze di chi ancora credeva in una soluzione pacifica: «(…) i giorni della manifestazione (4, 5 e 6 aprile 1992 ndr) sono rimasta in casa e ho visto tutto alla TV. La gente che si buttava a terra perché non sapeva da dove venivano i colpi (…) Per tutto aprile non era chiaro, poi, con la strage del 27 maggio, tutto è diventato chiaro, osceno (…) Era impossibile pensare a una guerra tra gruppi etnici! Come era possibile a Sarajevo visto che qui c’era il 40% di matrimoni misti? Voleva dire che nel mio appartamento avrei dovuto fare la guerra con mio marito perché lui è serbo. Invece è successo.»[1]

La data alla quale si riferisce la testimone è soltanto un altro segmento dell’anacronistico tempo della città: indica la giornata quando un obice cadde sulla folla in coda davanti a una panetteria, nel cuore della città. Erano le 9 di mattina, l’ora di intenso movimento di popolazione in cerca di cibo, di acqua, di legname… Ma poi i tempi diventarono tutti ugualmente rischiosi e nessun riparo teneva; gli spazi pubblici, le case, i luoghi di culto, i parchi, i cimiteri dove si svolgono i funerali, tutto e tutti esposti alla mira dei cecchini.

 

La dormiente Europa e i «selvaggi Balcani»

Quel funesto giorno la via Vase Miškina si riempì di sangue, sul marciapiede rimasero 17 morti e decine di feriti, tra cui molti gravi. E l’Europa iniziava ad apprendere una nuova mappa geografica: i nomi delle vie, delle piazze, dei ponti della martoriata Sarajevo. La via Tito, via Kranjčevićeva, Bašćaršija, Kralja Tomislava… Seguiranno i nomi dei quartieri che ben presto assumeranno la connotazione etnica: Grbavica, Vogošća, Vrača, Ilida, Marijin Dvor, Skenderija, Bistrik, i cimiteri Lav, poi, il vecchio cimitero ebraico, lo stadio Zetra, i monti Igman, Trebević, Pale… La triste geografia che abbonderà nei notiziari delle reti televisive, mentre la dormiente Europa non saprà ancora riconoscere chi fosse la vittima, chi il carnefice nella «selvaggia Balcania». La cecità del continente durerà a lungo. Altri tristi nomi si aggiungeranno all’elenco: Gorade, Bjeljina, Zvornik, Omarska, Manjača, Višegrad, Srebrenica, Vares, Prozor, Jajce, Ahmići…

Cosa significava quando un quartiere diventava «etnicamente ripulito» – il che presuppone la cacciata di chi ci ha abitato e non corrisponde più all’identikit identitario desiderato? Qual era il valore strategico di queste isole etnicamente e soprattutto ideologicamente omologate? Per capirlo ci aiutano le parole di Jovan Divjak, il generale serbo che al momento del richiamo della nazione-madre non cedette e non abbandonò la sua vera patria, Sarajevo, e ne condusse la difesa. Lo fece in nome di umanità e convivenza, contro le rapine territoriali e le guerre sante in nome della nazione. Il suo commento si riferisce al maggio del 92 quando i serbi si erano impadroniti del quartiere di Grbavica, sulla riva del fiume, praticamente nel cuore della città. «Questo luogo offriva agli sniper una serie di postazioni senza pari per colpirci. Presero anche una parte del quartiere di Dobrinja, che si trovò completamente accerchiato dal nemico e separato dal resto della città. In due giorni furono tracciate le linee dell’assedio che non si muoveranno più fino alla fine della guerra.»[2]

Sarà l’assedio militare più lungo della storia moderna subito da una città europea.

 

Il diario di Zlata

E la lenta agonia della città ebbe inizio. Di questa esperienza non riporto le analisi dei dotti «balcanologi» o i testi letterari, ma qualche accenno da un diario di una ragazzina appena undicenne, Zlata Filipović. Il diario di Zlata è diverso dai diari delle bambine che vivono in qualche altra parte dell’Europa, il suo annotare degli eventi quotidiani è l’urlo contro l’ingiustizia, contro la barbarie della guerra, contro la distruzione della sua infanzia, di un mondo di pace e di convivenza. È anche l’osservazione lucida di un’urbanità messa a ferro e fuoco. Zlata vive l’assedio, sogna, spera, soffre, corre negli scantinati, assiste all’uccisione degli amici… E giorno dopo giorno annota scrupolosamente la morte della sua città.

Domenica 12 aprile 1992: «Sui nuovi quartieri della città Dobrinja, Mojmilo, Vojničko Polje, piovono granate. Stanno distruggendo e bruciando tutto, gli abitanti si sono nascosti nei rifugi.»[3]

Sabato, 2 maggio 1992: «Oggi è stato senza dubbio il giorno peggiore per Sarajevo. (…) Le finestre della nostra strada erano quasi tutte rotte. (…) Ho visto l’ufficio postale divorato dalle fiamme, uno spettacolo terribile. I pompieri stavano cercando di spegnere l’incendio che divampava. (…) Mi dispiace davvero tanto. L’ufficio postale era stato restaurato, era bello e imponente e le fiamme lo stavano distruggendo sotto i nostri occhi. Stava scomparendo. Ecco cosa sta succedendo nel nostro quartiere, cara Mimmy.»[4]

Sabato 30 maggio 1992: «E’ bruciata la maternità, l’ospedale in cui sono nata io. Centinaia di migliaia di bambini, di nuovi abitanti di Sarajevo, non avranno la fortuna di nascere in questo ospedale. Era ancora nuovo, e le fiamme hanno divorato tutto. Per fortuna sono riusciti a salvare le madri e i bambini.»[5]

Lunedì, 25 maggio 1992: «Oggi è bruciata Zetra, nel villaggio olimpico. Tutto il mondo conosceva questa meraviglia, e ora le fiamme la stanno distruggendo. I vigili del fuoco hanno tentato di salvarla, ma non c’è stato niente da fare. Le forze della guerra non sanno che cosa siano l’amore e il desiderio di salvare qualcosa. Sanno solo distruggere, bruciare, saccheggiare. Così hanno voluto che anche Zetra scomparisse.»[6]

Oltre ad osservare con straordinaria partecipazione di dolore e senso di perdita la sparizione dei segni chiave dell’urbanità, Zlata è testimone della barbarie che si accanisce sugli innocenti.

Mercoledì, 27 maggio: «UNA STRAGE! UN MASSACRO! UNA CARNEFICINA! UN CRIMINE! SANGUE! URLA! LACRIME! DISPERAZIONE! Ecco come si presentava oggi la via Vasa Miškin. Sono esplose due granate per strada e una al mercato. Mamma si trovava da quelle parti ed è corsa da noi. Papà ed io eravamo sconvolti perché non la vedevamo tornare. Ho visto delle immagini alla TV, ma faccio fatica a credere di averle viste davvero. Era una cosa incredibile. Avevo un nodo alla gola e lo stomaco sottosopra. Semplicemente ORRIBILE. Stavano portando i feriti all’ospedale, sembrava un manicomio. (..). HO VISTO LA MAMMA CHE ATTRAVERSAVA IL PONTE CORRENDO. Appena entrata in casa è scoppiata a piangere e ha iniziato a tremare. Mentre singhiozzava ci ha raccontato di aver visto dei corpi dilaniati dell’esplosione. Poi sono venuti tutti i vicini, che erano stati in ansia per lei. Grazie a Dio, mamma è di nuovo con noi. Dio ti ringrazio.»[7]

 

I «signori della guerra»

Nel maggio dello stesso anno, avvenne il cambio ai vertici delle forze militari serbe. Alla guida arriverà un uomo che già si era fatto conoscere a Knin durante la guerra in Croazia: il generale Ratko Maldić. Un cambiamento non solo di facciata, ma, come lo dimostreranno le operazioni condotte da Maladić sul vasto territorio bosniaco, di estrema ferocia, non nascondendosi più dietro la parola «Armata Jugoslava» e sempre più uguagliandosi ai criminali paramilitari dei vari Arkan, Martić, Stanišić, Karadić… E l’Europa non capirà ancora, per lungo tempo essa riterrà affidabili interlocutori proprio Karadić e Milošević, e in secondo luogo Izetbegović. Tutti «signori della guerra». Mentre Mladić rimarrà l’esecutore dalle mani insanguinate, il «macellaio» dei Balcani, colpevole della strage di Srebrenica, attualmente sotto processo per i crimini contro l’umanità al Tribunale dell’Aia.

Eppure, qualche raggio di luce si intravide in quel buio fitto e opaco che aveva investito il paese; una presenza europea di altissimo rango prometteva che le cose potevano cambiare il loro corso. Si trattava della visita lampo del presidente Mitterrand a Sarajevo il 28 giugno del 1992. Dirà ancora Divjak: «L’arrivo di Mitterrand suscitava una vera speranza: gli occidentali cominciavano a darsi da fare per mettere fine alla guerra.»[8]

Ben presto i bosgnacchi capirono che nulla o poco sarebbe cambiato. «Non ci sarebbe stato nessun intervento dell’Occidente. Mitterrand aveva ridotto la guerra a un semplice problema “umanitario”, rendendo così impossibile ogni azione militare per fermare i serbi (…). Tutto ciò aumentò il sentimento di disperazione, soprattutto tra i bosnacchi, che avevano l’impressione d’essere abbandonati dal mondo intero.»[9]

Parole dure, ma a queste si aggiunsero più tardi le interpretazioni del fatto che la visita del presidente francese si svolse proprio il 28  giugno, il giorno di San Vito, la più grande festa civile, militare e religiosa dei serbi in ricordo della battaglia del Kosovo. Un simbolismo casuale? Nessuno ci credette.

La disillusione che i cittadini della Bosnia sentiranno crescere sempre più potente non sarà diversa da quella che i cittadini della Croazia avevano vissuto solo un anno prima, nel 1991. Allora gli intellettuali croati scrivevano le lettere aperte dagli scantinati ai politici della Comunità Europea. «Non riusciamo a decifrare le intenzioni del mondo, e il nostro dilemma è il seguente: ci volete vivi o morti»? chiedeva eljka Čorak, architetto dell’Università di Zagabria. «Adesso noi croati veniamo uccisi e massacrati per mancanza di ogni principio etico in Europa. La verità e la parola non impegnano l’aggressore. L’unica cosa importante è il traguardo prefissato. E il traguardo è la conquista.» [10]

Intento doppiamente confermato in Bosnia Erzegovina. Dai Serbi, dai Croati.

Sarà il grande poeta Abdulah Sidran a esprimere il profondo senso di solitudine che aveva pervaso gli abitanti di Sarajevo nei lunghi anni d’assedio e la loro percezione di un’Europa sorda che ha lasciato morire l’urbanità rimanendo impassibile al grido d’aiuto per la democrazia e la convivenza.

«Il nostro stato d’animo è la rassegnazione riguardo a tutto ciò in cui abbiamo creduto. Una rassegnazione totale: il mondo non esiste, la democrazia non esiste, l’idea di Europa non esiste, non esiste niente che possa servire di base agli argomenti di cui si deve fare uso all’esterno… Noi, a Sarajevo, abbiamo la sensazione che anche le parole non abbiano più senso. Non sono quasi più necessarie, ci si capisce senza parlare… La psicologia del lager regna fra noi, con tutte le sue sindromi…»[11]

Un’altra cittadina del paese martoriato, Nada Mladina, medico pediatra di Tuzla, solleverà la seguente domanda: «Può l’indolenza dell’Europa riguardo alla distruzione del modello multiculturale bosniaco-erzegovese essere il segno che la cultura del secolo a venire non sarà più orientata verso un generale sistema multiculturale, ma piuttosto verso nuove divisioni e verso la barbarie?»[12]

L’Occidente europeo ha saputo dare la risposta a questa domanda?

 

Quando bruciò la Biblioteca

La notte del 25 agosto 1992 viene bombardata la Biblioteca di Sarajevo, «Vijećnica». L’incendio si è protratto per tutta la notte distruggendo un milione e mezzo di libri, manoscritti rari, scritture antiche. Sono andati in fumo la collezione più ricca della Bosnia assieme al luogo simbolo dell’incontro di culture diverse. Un memoricidio. Non mi soffermo su altri nomi che richiamano la memoria a ritroso: Markale, Mostar, Srebrenica, Foča, Višegrad… Le date sono diverse, fuoriescono dalla cornice del tempo prefissato.

E’ il 1992 l’anno che contiene in nuce già tutto.

 

[1] P. Del Giudice (a cura di), Sarajevo! 1992-1195, Edizioni E, 1996, p. 110.

[2] J. Divjak, Sarajevo, mon amour, Infinito edizioni, Roma 2007, p. 69.

[3] Z. Filipović, Diario di Zlata, Supersaggi Rizzoli, 1995, p. 37

[4] ibid, pp. 43-44

[5] ibid, p. 54.

[6] Ibid, p.51

[7] ibid, pp. 52-53

[8] Jovan Divjak, ibid, p. 71

[9] Jovan divjak, ibid. p. 72

[10] eljka Čorak ,“Ci volete vivi o morti?” Una delle lettere degli intellettuali croati riportate nel libro colletaneo Lettere a Nessuno, curato da Ljiljana Avirović, Hefti edizioni 1992,

[11] Predrag Matvejević, Mondo “ex”, Garzanti, 1996, p.164

[12] Nada Mladina, “Per me la libertà non è questo, in: Le guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo (a cura di Melita Richter e Maria Bacchi), Rubbettino Editore 2003, p. 202