cecco3-savonarola Come mormorio di un vento leggero di Giuseppe Vettori

Partendo dall’esempio di due grandi periodi storici fiorentini (l’esperienza di Savoranola e quella del cattolicesimo democratico degli anni 60 con don Milani e La Pira) una riflessione sulla necessità di un percorso di dialogo tra credenti e non credenti e tra le pluralità del sentire ponendo come basi di regole comuni la libertà di scelta e la centralità della persona, con i suoi diritti e doveri

Da più parti arrivano segnali forti per ripensare gli intrecci fra politica e religione . Segni simbolici di deferenza ostentata e pregevoli spunti di riflessione sui rapporti fra Stato e Chiesa, laicità e fede, ruolo pubblico o ruolo privato del messaggio evangelico .
Sul banco degli imputati compare il cattolicesimo democratico che si era consolidato su alcune linee di pensiero tutte poste in discussione. Un’idea forte di laicità dell’azione politica, la preferenza per una Chiesa che non detta imperativi al legislatore ma parla piuttosto alle coscienze, un dialogo privilegiato con la sinistra. Tutto ciò è ritenuto incongruo per due motivazioni chiare. Sarebbe assurdo escludere dalla vita politica il magistero della Chiesa in un momento in cui occorre ridefinire le modalità primarie della convivenza civile, (della famiglia, del valore della vita in ogni suo percorso e fase) mentre non avrebbe alcun senso lo “stereotipo dei cattolici democratici in dialogo con la sinistra e di quelli conservatori in dialogo con la destra” .
La proposta alternativa è chiarissima. Non di laicità abbiamo bisogno ma di “integrazione inedita di fede e ragione”. Non serve un dialogo privilegiato dei cristiani con forze di destra o di sinistra, ma un nuovo laboratorio che affondi ex novo un percorso della nostra storia politica.
Accolgo volentieri questo invito alla riflessione muovendo da una consapevolezza forte.
Il presente è qualcosa da ricostruire nella nostra mente facendo parlare il passato perché non si può isolare i due momenti senza farne delle entità assolute, e a Firenze la storia ci afferra con prepotente forza evocativa almeno in due periodi. La fine del Quattrocento e la seconda metà del Novecento.

Dio e politica nella Firenze del Quattrocento

“Alla fine del Quattrocento , al culmine del Rinascimento, l’uomo più importante e prestigioso di Firenze non era Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, e, neppure Michelangelo o Macchiavelli, ma un “fraticello” di Ferrara”, capace di farsi “promotore dell’ideale repubblicano” contro il dominio dei Medici, e di ripristinare una moralità perduta nella città. Come ciò sia potuto accadere è oggetto di giudizi molto diversi che ci porterebbero lontano. Si può solo ricordare un fatto oggettivo .
Il Savonarola muoveva la sua azione dall’analisi di una contraddizione evidente in quegli anni, fra il messaggio cristiano e lo stato di vita, miserevole, della Chiesa e della gran parte delle figure civili più rappresentative, ma la sua finalità finì per divenire esplosiva quando cercò di risolvere il conflitto fra precetti morali e regole civiche nell’arena politica .
La cacciata di Piero dei Medici , il transito periglioso di Carlo VIII, l’avvento della Repubblica posero al centro della vita pubblica fiorentina il Frate che aveva oramai acquisito quella fama e credibilità necessarie per affermare il suo progetto di smantellare la tirannia per trasformare Firenze e farne uno strumento per il risveglio culturale di tutta la Chiesa. Fra il 22 e il 24 dicembre 1494 si istituì il Consiglio grande di cui facevano parte oltre tremilacinquecento persone, “quasi la metà degli uomini adulti”, istituzione che sarà la “colonna portante del governo fiorentino per quasi diciotto anni”, fino alla fine della repubblica e al ritorno dei Medici (1512). Il 19 marzo 1495 si garantì con una legge il diritto di appello contro il giudizio della Signoria a cui era prima consentito con una maggioranza di due terzi (le sei fave) pene gravissime sino alla morte. Fu abolito l’uso “di ricorrere ad un parlamento, ovvero alla facoltà …di convocare tutti i cittadini con diritti politici …allo scopo di tenere un referendum popolare”, strumento che era servito per “manipolare il popolino, bandire e distruggere nemici politici, insediare al potere i vincitori, …schiacciare un opposizione crescente, serrare i ranghi e imporre il proprio apparato di controllo” . Tutti i provvedimenti furono ispirati o sostenuti con forza dal Savonarola che tuonava sulla centralità dello spirito anche nel reggimento dello Stato contro l’idea di Cosimo che a ciò non fosse sufficiente un orazione o un paternostro.
Dio e politica, dunque. Un intreccio che si fece sempre più stringente negli anni a seguire sino a divenire deflagrante e portare alla rovina del frate e di gran parte delle sue sane e robuste riforme civiche.
L’inizio della fine cominciò quando si fece più stretta la immedesimazione dei suoi progetti con una annunciata volontà di Dio di cui si affermò voce e messaggero. Quando nel marzo del 1498 un francescano, per accertare le verità di Savonarola, lanciò la sfida di una prova del fuoco, migliaia di seguaci del Frate domenicano si offrirono di entrare nel rogo, ma ciò che accadde in quei giorni fu l’inizio della fine . La lunga trattativa per i dettagli dell’ordalia, i dubbi dei più autorevoli fiorentini e dello stesso Savonarola, i lunghi preparativi e la processione per la città dei due gruppi di frati, le sottili dispute teologiche sul modo in cui si doveva affrontare il fuoco, la interminabile attesa di una folla enorme, il temporale che improvviso indusse la Signoria, esasperata, a mandar via i francescani e che fu inteso dai domenicani come un segno della disapprovazione di Dio per la prova. Tutto ciò assunse toni di estrema rilevanza. Nel “giro di poche ore la mancata ordalia trasformò la parte più vulcanica del sentimento popolare di Firenze in un odio e in un disprezzo furenti per il frate e i suoi seguaci” che di lì a poco ebbero una tragica sorte .
Il giudizio di Macchiavelli su tale vicenda è discusso da sempre .
Il Segretario non nega l’importanza della religione nel reggimento dello Stato  ed esalta anzi la virtù che può essere mediata e nutrita dal sentimento religioso, ma imputa gravi colpe alla Chiesa romana  e dà per scontata la “superiorità dell’antiqua virtus sulla vita cristiana quale è insegnata dalla Chiesa”. Ciò senza alcuna acrimonia o laicismo, come diremmo oggi, ma teorizzando una precisa autonomia della politica come esito di una constatazione ancor più grande. “Il riconoscimento de facto che fini altrettanto ultimi, altrettanto sacri, possono contraddirsi reciprocamente, che interi sistemi di valori possono entrare in collisione senza che sia possibile un arbitrato razionale” .
Ciò può spiacere a chi è stato educato in un sistema monista, religioso o morale, ma può essere invece un antidoto forte contro ogni fanatismo connaturale a chi ha davanti a sé una sola meta e un solo ideale da realizzare con qualsiasi mezzo e a qualsiasi condizione. Come è stato lucidamente osservato, insomma, il pensiero di Macchiavelli è “un antidoto efficace al fanatismo dei sostenitori di un’unica visione del bene” che non comportava affatto la separazione tra politica ed etica ma solo la “scoperta di un conflitto insanabile fra valori egualmente ultimi” .

La seconda metà del Novecento e il cattolicesimo democratico

La seconda metà del secolo scorso è iniziata con alcune novità di cui accenno solo un elenco sommario.
Durante il dibattito per la formazione del testo costituzionale si rinunziò ad un espresso riferimento alla divinità perché, dopo attenta e meditata riflessione, cattolici e laici concordarono di non votare su Dio. Ciò aprì la via all’approvazione dell’articolo 7 e alla definizione della Chiesa e dello Stato come due ordini indipendenti e sovrani.
Negli anni sessanta il concilio Vaticano II ha segnato una “sconvolgente inversione di tendenza”. Una lettura negativa della storia aveva individuato la Chiesa “come una cittadella assediata, impegnata in una guerra di trincea, nella quale l’immobilismo sembrava la migliore – se non l’unica – forma di resistenza possibile”. La visione nuova del cristianesimo vissuto dentro le contraddizioni del tempo, ha portato a rivelare la Chiesa come autentica comunità del popolo di Dio in cammino nella storia .
Già a partire dalla fine degli anni sessanta questi fatti hanno agevolato la rottura di un mondo diviso in blocchi: cattolico, laico, comunista. “Per molti l’essere cattolico iniziò a non significare più molto, dal punto di vista delle posizioni culturali e politiche”  pur nei diversi modi di interpretare quegli anni. La lucida dirompente opera apolitica di don Lorenzo Milani rivelò le ipocrisie e le insopportabili disuguaglianze di quei tempi. Altri maturarono la percezione che la miseria e le diseguaglianze andavano “conosciute e aggredite nelle loro condizioni socio-economiche, con un rapporto più direttamente e autenticamente politico”  capace di modificare dall’interno ogni istituzione.
Prese corpo in quegli anni un’idea forte che rifiutò sia il carattere troppo pragmatico dell’agire politico e sia il ruolo troppo ideologico della fede per abbracciare uno spazio intermedio della “laicità della cultura e quindi della laicità dell’agire politico … con il conseguente diritto di decidere in questo campo secondo le particolari convinzioni culturali”. Questo atteggiamento ha avuto grandi meriti nel progresso della vita religiosa e sociale della Repubblica. Ma il passato non torna e non serve fare di quegli anni un vessillo. Ciò che abbiamo vissuto in quegli anni va storicizzato e compreso per ciò che ci può dire oggi quel metodo.
La stagione del cattolicesimo democratico fa parte della nostra storia recente. Andrà studiata più e meglio di adesso. Non potrà certo essere liquidata come ininfluente, né ieri né oggi.
A chi esclude recisamente si possa oggi immaginare una dimensione discreta e privata del messaggio cristiano, va ricordato che immedesimare quella appartenenza con la sola voce delle sue Autorità mortifica l’esperienza religiosa e la storia della Chiesa.
A chi considera inattuale l’idea di laicità della politica e della scienza va ricordato che entrambe si sono fondate sulla propria autonomia. Solo l’autonomia della politica ha consentito il sorgere dello Stato moderno, solo l’autonomia della scienza ha consentito conoscenze e conquiste altrimenti impensabili, rese ancor più evidenti dagli errori e dal riconoscimento di essi da parte della Chiesa. Solo il coraggio e i costi di personaggi come La Pira, Milani, Balducci, spesso in aperto contrasto con il proprio mondo, hanno consentito conquiste decisive per la giovane democrazia italiana alla ricerca dagli anni sessanta in poi di una propria identità politica.
Non c’è nessuna nostalgia in tutto ciò ma solo la necessità di ricordare i tratti e le esperienze di una cultura che ha meriti grandi e altrettanti limiti.
Da qui voglio muovere per cogliere le peculiarità del presente ove è centrale, oggi come allora, il rapporto fra diritti e storia e debbo iniziare la mia riflessione sottolineando due debolezze del dibattito attuale.
Da un lato le ambiguità di chi si appoggia strumentalmente alle Autorità religiose, mortificando il sacro che tende naturalmente verso parole di vita eterna e l’azione politica che non può identificarsi nella società complessa con una fede o una credenza. Dall’altro i limiti di un incontro fra fede e ragione nella definizione del nuovo rapporto fra il valore della persona e le regole dettate dall’evoluzione tecnologica. L’analisi del presente non può che partire da qui.

Per un nuovo laboratorio

Nessuna pensa che la Chiesa debba tacere su questioni politiche fondamentali ma il rapporto fra politica e religione non può ridursi al dialogo fra alcune forze politiche e qualche Autorità religiosa senza sminuire il ruolo del sacro in una società complessa.
Il sentimento religioso è fondamentale per la gestione del bene comune e la Politica non può ignorarlo come ammoniva già Macchiavelli.
Ciò che disturba, ora come allora, è l’uso strumentale di quel sentimento. Persino in America, dove è sorta tale strategia neoconservatrice, sta mutando l’atteggiamento nei confronti della religione e cresce l’insofferenza degli elettori per una politica che si presenta come più efficiente perché più religiosa. .
La verità è che “minoranze creative”  nella Chiesa e nelle Istituzioni sono ancora importanti per avvertire “il respiro sempre nuovo del mondo” .
C’è un gran bisogno di Comunità ove accogliere e unire giovani e meno giovani, di diversa provenienza, sulle cose da fare assieme nell’interesse generale. Senza imporre una dottrina, ma in piena aderenza al messaggio evangelico come perno dell’azione quotidiana. Gruppi guidati da una morale non precettiva ma centrata sul ruolo che l’altro deve avere nei progetti di vita. Unità capaci di un’attenzione alla politica come impegno per un’azione che dà frutti, con un rapporto aperto e franco con le Istituzioni e le Gerarchie ecclesiastiche che può sfociare in dissenso, mai in rottura.
Credo ancora, insomma, ad una dimensione contemplativa nella ricerca di Dio e all’autonomia della politica.
In tal modo non si rinunzia ad affrontare i temi centrali del presente. Tutt’altro. Si avverte solo, nel profondo, i pericoli storici di chiamare Dio a sostegno di contingenti scelte politiche. Si avverte anche che un confronto fra fede e ragione non può fissare facilmente i protagonisti, perché la comunità scientifica non ha una sola voce e la Chiesa è Istituzione, ma anche “comunità che vive nella società umana e partecipa delle sue vicende” e proprio perché cattolica e missionaria non si identifica con nessuna condizione particolare: sociale, culturale, razionale ”.
Non solo.
Il dialogo fra fede e ragione ha molti meriti e un limite perché “l’essere umano è ben più di un soggetto dotato di una ragione” e perché oggi è soprattutto necessario “saldare la razionalità con la dimensione corporea dell’uomo e delle sue percezioni sensibili, la sua cultura e la sua storia”. Per tutto ciò è necessario essere capaci di integrare il pensiero “nei più vasti alvei della sapienza umana e delle religioni per capire che cosa possiamo fare e ciò che è giusto fare” .
Come ci ha ricordato di recente Habermas “lo Stato non deve ridurre preventivamente la complessità polifonica delle diverse voci pubbliche… e le tradizioni religiose dispongono della capacità di articolare in maniera convincente sensibilità morali e intuizioni solidaristiche” . Ma proprio questa consapevolezza richiede una politica e una cultura capace di tenere conto di tutta la complessità dei messaggi religiosi per poi ridurre tale complessità con una sintesi autonoma e valida per tutti, credenti e non credenti.
Non mancano punti di incontro importanti sul tema dei diritti.
Di fronte   ai mutamenti vorticosi imposti dalle nuove tecnologie occorrono nuove consapevolezze giuridiche ed etiche nei confronti della vita e della morte, sottratte sempre più al determinismo della natura, mentre l’evoluzione sociale rende necessario un ripensamento della vita familiare e di coppia. Tutto ciò con un orientamento preciso. “Il punto di incontro non può esser trovato fra diverse concezioni del mondo e quindi fra diverse etiche che convivono legittimamente nella società e non possono essere imposte” .
Decisiva è invece la forza del diritto   che deve fondarsi su di un ordine condiviso e la chiave di volta di un dialogo fra laici e credenti sta nel “pensare che la sacralità della vita è la vita libera” perché “questo è il segno della creazione”. Una libertà che ha un limite interno nella dignità come sintesi dei diritti e doveri della persona e come orientamento nel definire regole per una scelta consapevole nella procreazione, per riconoscere l’efficienza del rifiuto delle cure, per fissare il riconoscimento giuridico della famiglia e di altri diritti comunitari dei singoli.
Libertà di scelta e centralità della persona, con i suoi diritti e doveri, sono i centri per la edificazione di regole comuni, ma tutto ciò non lo si decide in un confronto fra sapienti e potenti, né può essere risolto una volta per tutte dal legislatore perché i diritti non esistono in natura, non sono un dono di Dio o uno sport nazionale (Dworkin), ma forme complesse prodotte da una molteplicità di fonti, tutte legittime in uno Stato di diritto.
Nuovi bisogni creano nuovi diritti e nuovi diritti nuove leggi in un processo circolare insostituibile.
C’è solo da sperare che scienziati, giuristi e politici facciano bene il loro lavoro e che i credenti riflettano sul quel bel passo delle scritture ove si descrive la manifestazione di Dio, che appare, a Elia, non nel vento, nel terremoto o nel fuoco, ma come “mormorio di un vento leggero” (Primo libro dei Re 19, 9°. 11-13°) espressione di umiltà nello sforzo di comprendere e di forza paziente nelle difficoltà quotidiane dell’azione.