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Battere la Fortuna e governare la globalizzazione
di Gianfranco Pasquino

Il Principe è la prima opera basata sulla convinzione assoluta dell’esistenza di leggi proprie della dimensione «effettuale» della politica, che è possibile individuare, spiegare e applicate. Tre le interpretazioni, intrecciate fra loro, che è possibile darne: come spregiudicato manuale di gestione del potere, come proclamazione di indomito spirito civile repubblicano, come strumento razionale di analisi della dimensione politica. In tempi profondamente mutati, rimane comunque valida la lezione di Machiavelli, finalizzata alla costruzione di una forma di Stato nella quale chi governa con il consenso del popolo sia in grado non soltanto di opporre resistenza alla globalizzazione, ma di domarla con la conoscenza e con la virtù, proprio come viene domata la fortuna.

«Globale», fin dagli esordi

La lettura, lo studio, la fama di Niccolò Machiavelli e del suo Principe sono state «globalizzate» già pochi anni dopo la pubblicazione del piccolo libro da lui definito «opuscolo». Nel corso del tempo, Il Principe si è affermato come la più nota e la più apprezzata, ma anche la più aspramente criticata opera di analisi della politica mai pubblicata. Non esiste nessuno grande studioso di scienze sociali e di filosofia politica, pur tanto diversi fra loro, da Karl Marx a Antonio Gramsci, da Raymond Aron a Leo Strauss, che non abbia sentito l’imperativo intellettuale di fare i conti con Machiavelli. Già i numeri delle edizioni del Principe, dei commentari, delle citazioni dicono molto. Dovrebbero anche suggerire che, nel corso del tempo, le diverse generazioni di studiosi hanno interpretato quel testo sia con riferimento ai problemi allora contingenti sia, i migliori fra loro, cercando di cogliervi, proprio come desiderava Machiavelli, il nucleo duro e qualificante, l’essenza stessa della politica. Per conseguire l’obiettivo della «verità effettuale» della politica, che cosa ha fatto specificamente Machiavelli? Prenderò le mosse da tre possibili interpretazioni.

Prima interpretazione. Il Principe è un testo che Machiavelli scrive e offre, infine, a Lorenzo de’ Medici, ma l’avrebbe offerto a chiunque avesse avuto potere politico a Firenze in quel momento purché desse garanzie di impegno ad agire nel senso da Machiavelli indicato, con l’obiettivo di qualificarsi come il migliore dei consiglieri politici, come, diremmo oggi, un consulente. Qualcuno potrebbe persino utilizzare il termine inglese, spin doctor, poiché le variegate attività di costoro sono caratterizzate da considerazioni e manipolazioni spesso attribuite a Machiavelli e raggruppate sotto l’etichetta «machiavellismo». Vedremo tutto questo qui sotto. Seconda interpretazione. Il Principe intende essere l’opera di un «intellettuale-tecnico», di un grand commis, che pone le conoscenze da lui acquisite al servizio, oggi diremmo di chi ha potere di governo, comunque, di un uomo potente, affinché dia vita a una repubblica e proceda al suo consolidamento una volta che si sia attrezzato con le migliori conoscenze possibili, indispensabili. Terza e ultima interpretazione. Il Principe è, in parte consapevolmente in parte deliberatamente, una grande opera di riflessione e di teorizzazione politica concentrata sull’ampia e complessa tematica dell’acquisizione, dell’esercizio, del mantenimento del potere politico. E’ la prima opera di scienza politica basata sulla convinzione assoluta che la politica ha leggi proprie che possono essere individuate, spiegate e applicate. La scienza politica di Machiavelli non è né «pura» (qualsiasi cosa voglia dire questo aggettivo, poiché, ad esempio, fa leva sulla storia e si accompagna alla psicologia) né astratta. Intende essere una scienza politica le cui acquisizioni in termini di conoscenze possano essere applicate e dalla cui applicazione si traggano conferme e confutazioni grazie alle quali la scienza politica cambierà, crescerà, si raffinerà e interpreterà e spiegherà sempre meglio la politica.

Tre interpretazioni

La prima interpretazione è quella alla quale aderiscono tutti i critici di Machiavelli, tutti coloro che ne stigmatizzano il cinismo, la spregiudicatezza, la dissimulazione, l’immoralità. Sono coloro che definiscono il «machiavellismo» come la giustificazione dell’uso di qualsiasi mezzo pur di conseguire il fine, ovvero la conquista e l’espansione del potere del Principe, coloro che attribuiscono a Machiavelli una concezione di politica senza etica, basata sulla pratica e sull’elogio della astuzia e della violenza. Il riferimento notissimo è all’invito al Principe affinché impari ad usare sia la golpe sia il lione «perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi». Altrove Machiavelli mette anche in guardia il Principe dal presentarsi come profeta disarmato poiché «li profeti disarmati ruinorno». Quanto agli oppositori bisogna vezzeggiarli o schiacciarli. Sono questi consigli che vengono da uno spregiudicato spin doctor immerso fino al collo nella realtà di quei tempi turbolenti oppure sono descrizioni e analisi di fenomeni e comportamenti che Machiavelli ha raccolto e registrato nella storia politica da lui studiata e nella esperienza politica da lui vissuta? Questo è l’interrogativo che va posto agli intransigenti critici di Machiavelli e del «machiavellismo». Le loro risposte in nome di un’astratta e mutevole moralità appaiono non convincenti.

La seconda interpretazione, quella che fa leva sull’offerta delle conoscenze acquisite da Machiavelli ad un Principe che sia in grado di portare ordine, autonomia e prosperità a Firenze, trova molti riscontri. Il Principe è un testo patriottico e «repubblicano». Nasce per l’insopprimibile desiderio che Machiavelli ha di tornare a lavorare per i Medici, a farsi da loro «adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso». Nasce anche per amore della patria fiorentina, che Machiavelli afferma essere addirittura al di sopra della salvezza della sua anima, e si fonda sullo spirito repubblicano, vale a dire, sul perseguimento del benessere della comunità di appartenenza. Una volta costruita, se necessario anche con il ricorso alla forza, il principato deve essere difeso, eventualmente anche con la forza (e con la milizia di popolo). La difesa del Principato e il suo buon funzionamento risulteranno tanto più probabili e efficaci laddove il Principe saprà acquisire il consenso del Popolo. «A uno principe è necessario avere il populo amico, altrimenti non ha nelle avversità remedio» e «uno principe debbe tenere delle congiure poco conto, quando il populo gli sia benevolo». Non è, ovviamente, il caso di parlare prematuramente di democrazia, e commettono un errore molto grave coloro che scrivono in maniera assolutamente fuorviante di «Principi democratici». Tuttavia, risulta chiaro che Machiavelli non sta prestando la sua intelligenza e offrendo i suoi consigli ad un Principe che voglia farsi dittatore, che schiacci i suoi sudditi, che imponga loro con la violenza la sua volontà. Le azioni del Principe non saranno dettate neppure dal desiderio di compiacere il popolo, ma dall’obiettivo di garantire al popolo le condizioni fondamentali della libertà e della prosperità. Qui, Machiavelli si pone al servizio della sua idea di Stato nonché del Principe che voglia e sappia condividerla. In un certo senso, si trovano qui le premesse della potente dottrina della Ragion di Stato.

La terza interpretazione non contraddice la seconda, ma la integra e la spinge più avanti. Qui è sicuramente lo studioso che prende la parola. Lo cito per esteso nella famosissima splendida lettera del 10 dicembre 1513 all’amico Francesco Vettori: «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso – io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus…».

Ho evidenziato in corsivo il punto che mi preme portare all’attenzione dei lettori: il «cibo» per il quale Machiavelli ritenere di essere nato e che è solo per lui, quella che lui chiama «l’arte dello stato», modernamente non può che essere definito «scienza politica», vale a dire, lo studio scientifico della politica, l’apprendimento delle conoscenze politiche e la formulazione delle spiegazioni e delle teorizzazioni nella maniera più scientifica possibile, comunicabile, verificabile, falsificabile.

 Esperienza delle cose moderne e lezione delle antiche

Le leggi della politica possono e debbono essere elaborate esclusivamente con riferimento alla politica, a quanto fanno gli uomini per associarsi, confrontarsi, scontrarsi e governarsi nella repubblica e, per quel che riguarda Firenze, nel Principato. Incidentalmente, si noti che il titolo che Machiavelli aveva dato al suo «opuscolo» non era Il Principe (dunque, nessuna personalizzazione ante litteram della politica anche se Machiavelli riconosce ampiamente l’importanza delle persone/alità in politica, le loro virtù e, persino, le loro capacità di domare la fortuna), ma De principatibus: sulla natura, sulla struttura, sul funzionamento e sull’evoluzione delle forme di governo definibili per l’appunto Principati.

Comprensibilmente, in quel tempo i metodi di analisi della politica disponibili a Machiavelli erano pochi e rozzi. Li descrive lui stesso: «la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche … con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate». Sono due metodi che traduco nel linguaggio delle scienze sociali contemporanee: l’osservazione partecipante e il metodo storico-comparato. Non sono in nessuna contraddizione fra loro, ma, naturalmente, mentre il metodo storico-comparato, come dimostrerà poi con straordinaria maestria Max Weber, ha un vastissimo campo di applicabilità, l’osservazione partecipante è praticabile esclusivamente in alcuni contesti e a determinate condizioni. Ad esempio, nelle corti d’Europa, sono in grado di praticare l’osservazione partecipante gli ambasciatori (soprattutto coloro che abbiano ottenuto e ritenuto cognizione delle cose antiche).

È un esercizio di grande audacia e di altrettanta arbitrarietà quello di chiedersi come Machiavelli «leggerebbe» la politica in un mondo globalizzato e se terrebbe ferma la sua impostazione senza cambiare i suoi metodi analitici. Un conto, poi, sono le modalità di analisi della politica; un conto, molto diverso, è il tipo di politica che ciascuno di noi e Machiavelli potremmo ritenere necessaria e auspicabile nel XXI secolo. Neppure nel mondo globalizzato è possibile fare a meno di una visione realista e disincantata che riesca a descrivere la politica quale essa è e a esplicitare le modalità d’azione dei protagonisti prevedendone le conseguenze. La diffidenza di Machiavelli nei confronti di analisi buoniste basate su ideologie, precetti morali, preferenze personali continua ad essere assolutamente giustificata, da condividere. Chi non ha imparato la complessità della politica e non ha gli strumenti per individuarne le regolarità e formularne le leggi non sarà mai in condizione di cambiare quella, o qualsiasi altra, politica. La globalizzazione non la si scongiura deprecandola e demonizzandola. L’economia e i mercati non vengono «sconfitti» sostenendo che producono diseguaglianze e rappresentano il male.

Rimane ferma e valida la lezione di Machiavelli, tradotta negli insegnamenti da lui inviati al Principe e, più in generale, a coloro che acquisiscono potere politico. Una forma di Stato nella quale il Principe goda del consenso del popolo è in grado non soltanto di opporre resistenza alla globalizzazione, ma di domarla con la conoscenza e con la virtù proprio come viene domata la fortuna. Infatti, la fortuna «dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle».

Non sarà neppure il richiamo all’etica di impianto religioso che sconfiggerà la globalizzazione. Anzi, il rischio è che quell’etica e quella varietà di richiami operino in maniera perversa sull’analisi della politica. D’altronde, anche senza definire i suoi comportamenti come applicazione talvolta dell’etica della convinzione talaltra dell’etica della responsabilità, entrambi accuratamente delineati da Max Weber, il Principe, in questo caso, i governi democratici e i loro protagonisti sono consapevoli dell’obbligo politico di commensurare entrambe le etiche e di applicare la loro virtù per resistere agli effetti sgraditi della globalizzazione e per regolamentarla. Non è il fine che giustifica i mezzi, frase mai scritta da Machiavelli, ma sono i mezzi, la virtù, in primis, una corretta sobria limpida analisi della politica, scevra da brandelli ideologici e da orpelli moralistici, che consentono di conseguire il fine: una repubblica condivisa e solida, in grado di andare oltre se stessa, di superarsi in chiave sovranazionale.