Avevo un fratello di Andrea Bigalli
Alex Langer è stato una di quelle persone che costituiscono dei compagni di viaggio, dei fratelli che ci accompagnano per la via e che ad un tratto scompaiono creando un vuoto e un sconcerto reso più drammatico dal mistero di una fine anzitempo.
Io avevo un fratello
Non ci siamo mai visti
però non importava.
Io avevo un fratello
che andava per i monti
mentre io dormivo.
Gli ho voluto bene a mio modo,
gli presi la voce
libera come l’acqua.
Ho camminato alle volte
vicino alla sua ombra.
Non ci siamo mai visti
però non importava,
il mio fratello sveglio
mentre io dormivo.
Mio fratello mostrandomi
dietro la notte
la sua stella eletta.
(Julio Cortàzar)
L’esistenza ci conduce al debito che contraiamo con tutti coloro che contribuiscono a quel che siamo. Per lo più questo debito è evidente, manifesto, si articola nella prossimità alla possibilità della reciprocità: amare quelli che ci amano, realizzare pienamente i rapporti di amicizia, di lavoro, di passione, di vicinanza intellettuale, del vincolo del sangue. Altri sono per noi importanti, addirittura fondamentali nella costruzione di ciò che siamo: ma restano al di là del nostro tempo, dello spazio, della potenzialità irrisolta del desiderio. Da chi ha composto la musica che amiamo, a coloro che hanno scritto le parole della consolazione, dell’inquietudine e della gioia, da quelli che predispongono per le nostre retine la bellezza del segno e dei colori, delle immagini e dei fotogrammi, alle persone che ci hanno insegnato il vincolo e la libertà di ciò che è vero, noi siamo spesso nella fatica di non poter saldare il conto della riconoscenza a tutti coloro che hanno sfiorato le nostre esistenze nei tocchi della grazia, della consapevolezza, del crescere e dell’educare. Se ciò si afferma per tanti, a volte nell’incapacità o nell’impossibilità, segnando una cifra dell’inespresso che grava sulla nostra vita (o forse rimanda all’ulteriore ancora da definire e realizzare…), di certo lo si sa per quelli di cui conosciamo l’importanza nella consapevolezza del poi e del durante. Di altri si pensava che il tempo a disposizione fosse un altro; si era sicuri che tanto ancora sarebbero stati compagni sulla via, si attendeva altra circostanza per l’incontro. Un artista notevole e non banale come Sergio Endrigo titolò uno delle sue raccolte “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”: espressione bellissima ma da percorrere con il dolore inevitabile degli incontri irrealizzati, abortiti o rinnegati.
Ancora tanto altro da dire a riguardo, che l’intreccio dei giorni, delle idee, dell’agire moltiplica i dati del debito. Julio Cortàzar esprime, con la poesia sopra citata (scritta a suo tempo in memoria di Ernesto Che Guevara), quel che il pensiero razionale fatica a trasmettere: tra gratitudine e nostalgia, per capire il bello ricevuto ma sentire pure il peso di quanto noi stessi dobbiamo ad altri, quel che si consegna alle nostre volontà perché si ampli e cresca, diffonda, si radichi.
Quando seppi
Quando seppi che Alex Langer aveva deposto il peso evidentemente insostenibile della propria esistenza, non conoscevo i versi del letterato argentino. Li intreccio alla memoria di Alex adesso, nel momento in cui riesco a comprendere quanto allora ritenni assolutamente non comprensibile. Il suicidio di un uomo così non rientra nell’accettabile, non si accosta in nessun modo alla vita di chi aveva speso la sua ad insegnare che non ci si può arrendere alle misure del mondo, non ci si rassegna a quanto possono essere ristrette e soffocanti, chi ci ha spiegato l’orrore e ci ha detto che la conoscenza è l’inizio del disgregarsi del male. Ho conosciuto Langer quando intervenne ad un dibattito organizzato da un’associazione per cui lavoro: sul tema della devastazione – dei mondi e dei corpi, come delle speranze – che imperversava oltre Adriatico, nei Balcani, espresse una logica serrata e sensatissima, capace di contrapporsi alla tentazione di liquidare il senso di utilità per tutto quello che si stava cercando di fare a riguardo. Mi congedai da lui con il cuore meno indurito, nella convinzione di aver recuperato un po’ di coscienza della necessarietà della politica. Alex Langer era un autentico politico, che conosce e non si accontenta di quanto conosce, che adopera le lingue del mondo e le coniuga nella ricerca del possibile nella pace, che guarda un po’ più avanti. Era un uomo gentilissimo: l’aggettivo “mite” si pensa associato al dimesso e all’inoffensivo, non a quella forza tranquilla che traspare da chi non ha bisogno del sostegno della forza verbale per esprimere ciò che è ragionevole. Colpito dall’attività di un gruppo locale di sostegno alle popolazione dell’ex-Jugoslavia, mi inviò poi un piccolo contributo in denaro per la loro attività: regalò a me e a Damiano Ghiozzi, altro organizzatore della serata, un abbonamento alla rivista “Una città”. Avevo già seguito, sulle pagine, il suo pensiero e la sua azione: nelle cronache fu piacevole incontrarlo nuovamente, seguirne le tracce, mai del tutto prevedibili, di certo indice di una presenza sulla scena politica mai accomodante. Chi ne ricorda il sorriso, sa che senso di divertito buonumore traspariva da molte cose che diceva e con cui commentava ciò che accadeva. Era un uomo prezioso, lo è stato al di là di quanto di significativo ha affermato e scritto: lo era perché era bello pensare che ci possano essere persone così, che possano trovare spazio in una classe politica spesso squallida, che ci sono corrieri lungo i confini tra i popoli (lui che era nato giusto sul limitare di culture e lingue diverse) capaci di far correre le missive che diffondono il coraggio della pace. Un vero “viaggiatore leggero” (il titolo di una sua raccolta di articoli), ma leggero per il peso che gli auguriamo addosso, non certo per la poca consistenza di quanto ha detto e scritto. Un fratello che percorreva altri monti, condivideva veglie, prestava voce e mostrava stelle…uno di quei tanti fratelli e sorelle di cui ci dimentichiamo, mentre pensiamo di essere rimasti soli, sotto il peso di una storia che non desideriamo, quando è intrisa di lacrime e di sangue.
Il mistero di una resa
Al suo rito funebre celebrato in Toscana, alla Badia Fiesolana, c’era quell’atmosfera stupefatta, dolente e stranita che segue alle morti improvvise, ma pure un senso di ulteriore che non saprei raccontare con le parole: un senso che sovente ho respirato nella memoria pubblica delle donne e degli uomini che hanno vissuto secondo la misura di ciò che è realmente significativo. L’omelia di don Angelo Chiaroni, già suo assistente ecclesiastico in FUCI quando Langer la frequentò al tempo dei suoi studi in diritto all’Università di Firenze (fu studente di Giorgio La Pira, al suo corso di Diritto Romano) ci narrò dei suoi rapporti con il cattolicesimo, in un’ansia di ricerca che non si arrestò in un ambito confessionale ma rimase fedele al fascino della Resurrezione. Ne parlò anche con me, durante la cena che precedette l’incontro pubblico a cui intervenne, raccontandomi di quanto fosse affascinato dai riti della Veglia Pasquale. La visione aperta ad una lettura positiva, che, nonostante la nitidezza, spesso durissima, dei dati che forniva sugli eventi della contemporaneità, scaturiva dalle sue esposizioni e i suoi scritti, faceva trapelare una speranza non scontata, frutto del considerare la traduzione laica dell’evento di resurrezione. Un riferirsi al Vangelo come parola condivisa, di pace, ha dettato alcune delle sue parole di commiato: “venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi…”. Mi è sempre parso che il suo meraviglioso ribaltare il motto olimpico nello spero celebre “Non Citius, altius, fortius; Più veloce, più in alto, con più forza: ma Lentius, profundius, suavius; Più lentamente, più in profondità, con più dolcezza”, sia stato profetico nell’anticipare un tema adesso meglio compreso nella sua importanza, quello degli stili di vita, capaci di tradurre l’utopia nella quotidianità, secondo la misura di ciò che è praticabile e quindi sovversivo, di esplicitazione del sogno, di inveramento della speranza. Per quanto riguarda la mia ottica particolare di ricerca e azione, questo motto incarna lo spirito evangelico scagliandolo in linea diritta di collisione verso la beatificazione dell’egoismo adesso così rilevante e pericolosa.
Altri scrivono di Alex Langer su questo numero di “Testimonianze”: lo faranno con più competenza, diranno meglio e di più sul suo eccezionale percorso politico e culturale. Voglio terminare la mia riflessione proprio sulla fine, sul termine che Alex decise per la sua esistenza. La mia storia e le mie convinzioni continuano a farmi ritenere la sua scelta inaccettabile: ma l’onestà necessaria riguardo alle mie fatiche e al dolore mi fanno comprendere quanto sia facile caricare – nel suo caso, per generosità – l’architrave che sostiene la nostra esistenza di un peso poi impossibile da sopportare. L’intreccio del sapere, del vedere, dell’analizzare, dell’interpretare…e la sovente inutilità di ciò che si comprende e si annuncia nello scongiurare i flagelli, nell’evitare lo spargersi del sangue, nel fronteggiare l’erodersi delle coscienze davanti all’assedio di un grande nulla, di questa enorme stupidità collettiva. L’errare opinione sulle persone, il tradimento, le delusioni in riferimento ai progetti falliti, l’intollerabile peso della fine dei propri amori (o semplicemente del vivere l’amore) e delle passioni per ciò che tesse la vita…non so cosa sia stato per Alex: so cosa mette in discussione la mia volontà di vita e scatena la pulsione a distruggersi al termine di ciò che ti dava esistenza. Non è facile ricostruire a partire dai frammenti, con le macerie che si moltiplicano al transitare di eventi che ti inchiodano d’impotenza: non resta alternativa, è grande il debito contratto con l’esistenza altrui per negare la propria. Il mistero della desolazione è grande, chiede un comprendere che non sia angusto di cuore.
Abbiamo provato a continuare in ciò che è giusto, come Alex ci aveva chiesto: non è giusto che non abbia voluto continuare a farlo insieme a noi. Ma il rispetto sacrosanto per la fatica, l’estinguersi della sua volontà di lottare, un’angoscia e un rifiuto che non vogliamo e non possiamo giudicare, dice altro in più su quest’uomo: si tramuta in tenerezza e a questa rimanda nella necessità di una memoria riconoscente.
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