cristo_redentor_-_rio

Un’enciclica teologica
di Pietro L. Di Giorgi

La recente enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate è un testo molto ricco, ma dispersivo, nel quale la specificità della questione sociale viene quasi smarrita, mentre si affrontano, oltre alle dimensioni materiali, economiche, socio-politiche e tecnologiche dello sviluppo umano, anche le sue indispensabili pre-condizioni spirituali, religiose, culturali, educative, bioetiche. Evidente è, nell’impianto del discorso, un atteggiamento di ribadita diffidenza nei confronti del ruolo dello Stato come possibile equilibratore dei fattori di crisi e delle sperequazioni che connotano il sistema economico

 

Il fulcro del discorso

E’ soprattutto nell’Introduzione (nn. 1-9) che si delinea il rapporto intrinsecamente teologico fra verità e carità. Nel progetto di Dio, “amore eterno e verità assoluta”, è insita la vocazione all’amore e alla verità, dalla quale l’essere umano, con risposta libera e responsabile, trae una “forza straordinaria” per operare per la giustizia e per la pace, difendendo la verità come “forma esigente e insostituibile di carità” (n. 1). Infatti è solo in collegamento con la verità che la carità può rivelarsi come “espressione autentica di umanità” sia nelle relazioni interpersonali che nelle relazioni pubbliche.

La questione sociale come questione antropologica

Nella verità, dalla quale promana la luce della ragione e della fede, si dà il senso e il valore della carità, ossia la sua verità naturale e soprannaturale, con il suo significato di “donazione, accoglienza e comunione” (n. 3). Ed è la verità che “preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia”. Gli uomini sono quindi costituiti come “soggetti di carità” per “effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità” (n. 5).
La dottrina sociale della Chiesa ha nella caritas la sua via maestra, purché essa si coniughi con la verità, nella cui luce la carità “va compresa, avvalorata e praticata”, ma ciò anche allo scopo di accreditare la verità nell’attuale contesto relativistico, mostrandone “il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale”.
In mancanza di ciò si scade in forme di emotivismo o di sentimentalismo soggettivistiche e contingenti che possono sviare, svuotare di senso, fraintendere o addirittura estromettere la carità dal vissuto etico, fino a dichiararne “l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali” (nn. 2-3). Senza verità, insomma, si scade in una “visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori – talora nemmeno i significati – con cui giudicarla e orientarla” (n. 9). Solo se improntata alla verità, la carità con la sua ricchezza di valori può essere condivisa e comunicata, al di là di determinazioni, culturali, storiche, soggettive, in un dialogo che “apre e unisce le intelligenze nel logos dell’amore” (n. 4).
Appare quindi chiara sin dalle prime battute la tesi centrale dell’enciclica: “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica”. Se non si riesce a ribaltare la “cultura del disincanto totale” che, specie nell’ambito della manipolazione della vita, ha dato la massima espressione all’“assolutismo della tecnica”, producendo posizioni culturali negatrici della dignità umana, come si potrà far fronte alle “situazioni umane di degrado” sociale ed economico, considerato che “l’indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è” (n. 75)?
Da qui il legame inestricabile fra etica della vita ed etica sociale e le implicazioni devastanti di una “mentalità antinatalista” che fa smarrire la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, facendo nel contempo inaridire anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale: infatti, “l’accoglienza della vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco” (n. 28).

La “stupefacente esperienza del dono”
Se queste sono le basi teologico-antropologiche della Caritas in veritate, è evidente quanto l’impianto eminentemente ‘politico’ della dottrina sociale postconciliare debba apparire inadeguato rispetto all’emergenza di tipo antropologico che, secondo Benedetto XVI, caratterizza il nostro tempo.
Non è questa la sede per prendere in esame le discutibili valutazioni ratzingeriane sul disincanto e sul relativismo e sulle sue implicazioni nichilistiche; nonché sui ‘rischi’, nella sua impostazione, del pluralismo religioso, politico, culturale (anche se, sia detto en passant, nella radicalità delle sue posizioni vi è comunque un contributo importante all’elaborazione di quella cultura del “disincanto del disincanto” che vuol tornare ad offrire risposte di senso all’uomo post-moderno; ma su questi temi si veda il nostro contributo sul n. 460/2008 di “Testimonianze”).
Vogliamo, però, osservare che quelle sue argomentazioni, peraltro già ampiamente espresse nelle due precedenti encicliche, sembrano un po’ estrinseche rispetto ad un testo che programmaticamente dovrebbe occuparsi della dottrina sociale della Chiesa, innestata nella tematica più ampia dello sviluppo umano, che per sua costituzione e tradizione non può non avere un approccio prevalente di natura politica ed economica. Il documento si presenta perciò sbilanciato e poco coordinato, con parti d’impianto teologico ed antropologico ed altre in cui si affrontano via via tutti i capitoli della dottrina sociale tradizionale (aggiornati anche con formulazioni ed accenti propri addirittura della contemporanea business ethics).
Il punto di raccordo e di snodo del discorso ratzingeriano pare essere rappresentato dall’idea di un’economia del dono: fondata sulla “stupefacente esperienza del dono” e sulla assoluta gratuità come espressione di fraternità, essa “irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia”, che “per sua natura oltrepassa il merito” e la cui “regola è l’eccedenza” (a questa “economia aperta al dono reciproco” è dedicato un paragrafo, il n. 34, particolarmente ispirato, e dai toni sapienziali e profetici). E l’enciclica si sforza di ipotizzare che “anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o ‘dopo’ di essa” possano darsi “rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità” (n. 36), secondo il modello teorico dell’economia civile (che ci sembra trasparire da queste espressioni) che si prefigge di massimizzare non il profitto ma il bene comune nel quale si armonizzino i rispettivi interessi, nel quadro di un sistema di libero mercato (che rimane l’opzione ideologica di fondo). Quel modello, elaborato da Stefano Zamagni, membro del gruppo di lavoro per la preparazione dell’enciclica, vede nell’ “economia di comunione” del movimento dei Focolarini o anche nelle attività economiche della Compagnia delle Opere il tentativo, senza andare fuori mercato, di realizzare utili, consentendo anche ad altre imprese di farlo.
Ma come immaginare, se la sfera economica è improntata alla logica del calcolo razionale (osservava Max Weber che il sistema dei prezzi, e poi dei prezzi fissi, al posto del mercanteggiare tipicamente orientale, è stata una delle pre-condizioni indispensabili per lo sviluppo del capitalismo), che “il principio di gratuità e la logica del dono”, con le implicazioni di incertezza e di irrazionalità che portano con sé, possano trovare posto entro la normale attività economica al di là di piccoli spazi residuali (n. 36)? Come pensare che “un’economia della gratuità e della fraternità” che trova nell’ambito della società civile il suo ambiente privilegiato, possa “nell’epoca della globalizzazione” disseminare ed alimentare la solidarietà e la responsabilità per la giustizia (anzi ne sia proprio una condizione imprescindibile) (n. 38) affidandosi ad un presunto ruolo equilibratore del mercato? E’ davvero possibile pensare ad una sorta di compito civilizzatore in sé del mercato, una volta che si sia spogliato delle sue vesti capitalistiche alle quali solo si dovrebbe il suo imbarbarimento (secondo alcuni recenti approcci storico-economici, si pensi a E. Gotti Tedeschi, pure presente nel gruppo di lavoro, e a L. Bruni)?
In realtà, è proprio la crisi globale nella quale siamo ancora immersi a renderci ancora una volta molto scettici sulla capacità di autoriformarsi e di eticizzarsi del mercato e della “ragione economica” che gli è sottesa (e fra l’altro, ci si potrebbe chiedere, perché solo quest’ultima dovrebbe sfuggire alla onnipervadente deriva relativistica del disincanto?).
E’ insomma illusorio pensare che si possa improntare il mercato a “forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca” (n. 35), oppure il contratto alla “logica del dono senza contropartita” (n. 37) (mentre la stessa enciclica riconosce che “il mercato della gratuità non esiste” e che “non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti”: n. 39). E che ad una “civilizzazione dell’economia” su vasta scala si possa giungere solo auspicando la responsabilità sociale dell’impresa, ovvero con delocalizzazioni ‘dal volto umano’, o forme d’impiego etico delle risorse finanziarie, banche etiche e forme di micro-finanza e di micro-credito (con implicito riferimento al premio Nobel M. Yunus), imprese con scopi di utilità sociale, forme di economia civile e di comunione (n. 46) (e, in questa logica, sia detto en passant, stupisce la semplice citazione, e nulla più, delle grandi cooperative di consumo: cfr. n. 66).
Ciò che insomma suscita più che una semplice perplessità è il fatto che si continui a ritenere (in linea del resto con la Sollicitudo rei socialis e la Centesimus annus) che l’“agire gratuito” possa meglio essere garantito dagli automatismi del sistema di libero mercato, che è improntato al “dare per avere” proprio della logica dello scambio, piuttosto che dal “dare per dovere” imposto dall’intervento redistributivo dello Stato, che può assicurare solo solidarietà ma non fraternità e reciprocità (n. 39). Emerge, infatti, ancora una volta, uno scetticismo di fondo (viste le premesse giusnaturalistiche insite nella tradizione della dottrina sociale della Chiesa) sull’intervento dello Stato nell’economia, specie dopo il fallimento delle economie pianificate e le insoddisfacenti prestazioni delle socialdemocrazie di fine secolo.
Ora, se un’opzione di questo tipo avrebbe potuto essere compresa prima della crisi globale del settembre 2008, essa risulta tanto più incomprensibile di fronte all’ennesimo fallimento di un “modello di sviluppo” di cui pure la Caritas in veritate chiede una “revisione profonda e lungimirante” (n. 32). E, a questo proposito, se, come è stato detto, il testo era pronto a fine settembre 2008, non sembra che la pausa di riflessione abbia prodotto novità di rilievo nell’elaborato finale.
Di fronte ad una “progressiva e pervasiva globalizzazione”, agli effetti deleteri di un’irresponsabile finanziarizzazione dell’economia che ha generato, fra l’altro, strumenti sofisticati per tradire i risparmiatori (n. 65), alle forme perverse di delocalizzazione, allo smantellamento delle reti di sicurezza sociale con la minimizzazione delle usuali forme dello Stato sociale (nn. 24-5; 32-41); di fronte agli enormi costi umani e sociali prodotti dagli ‘spiriti vitali’ del capitalismo (un termine mai usato, se non andiamo errati, nell’enciclica) si continua a ritenere residuale, in linea con una certa vulgata del pensiero politico-economico dominante, l’apporto dello Stato come regolatore del mercato e dell’impresa e come garante della giustizia distributiva (pur se l’enciclica deve riconoscere che “in relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze”: n. 41). E questo nonostante che il ruolo (anche coercitivo) del potere pubblico democratico stia oggi rappresentando l’unica àncora di salvezza per correggere le maggiori storture di automatismi finanziari sfuggiti al controllo di chi li aveva irresponsabilmente liberati ‘al grido: meno Stato, più mercato’.

Un cristianesimo di carità senza verità?

La conseguenza più rilevante di questa opzione (ideologica) per il capitalismo liberale (così lo definiva la Populorum progressio) ed il conseguente credito accordato ad una business ethics che certo riconosce che “i costi umani sono sempre anche costi economici” (n. 32), conduce la Caritas in veritate a ritenere fortemente ideologizzata ogni valorizzazione del ruolo dello Stato in economia, in quanto prigioniera di forme di dirigismo e di statalismo di origine socialista limitatrici della ‘naturalità’ originaria del diritto di proprietà e della libertà d’iniziativa economica, oltre che negatrici del principio di sussidiarietà attraverso il quale i gruppi sociali esprimono le proprie potenzialità.
Ne risulta la necessità di istituire una cesura con la dottrina sociale conciliare il cui orientamento prevalente andava nella direzione di una armonizzazione dei diritti imprescindibili della persona con il principio della giustizia sociale. La strategia prescelta (come di consueto in questi casi) è quella di riaffermare la continuità e la “coerenza dell’intero corpus dottrinale” che il Concilio avrebbe solo approfondito “nella continuità della vita della Chiesa” (n. 12), negando esplicitamente che si possa parlare di una dottrina sociale “pre-conciliare” e di una “post-conciliare”, per rileggere invece la Populorun progressio all’interno della “Tradizione della fede apostolica”: e ciò per non farne un “documento senza radici” nel quale “le questioni dello sviluppo si ridurrebbero unicamente a dati sociologici” (n. 10).
Coerentemente con un’impostazione di tal genere, della Populorum progressio si sottolineano, quindi, soprattutto le basi filosofico-teologiche, insistendo sull’“umanesimo plenario” di Maritain e De Lubac, che deve fondare lo “sviluppo integrale come promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”, al quale la Chiesa, “esperta in umanità”, deve dedicarsi. Bisogna quindi diffidare di un “cristianesimo di carità senza verità” (è questa la definizione più adeguata del cristianesimo conciliare?), che rischierebbe di “venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali” e tali da escludere un vero e proprio posto per Dio nel mondo (n. 4).
Una volta depotenziato il cambio di paradigma ecclesiale determinato dall’evento conciliare, ciò che pertanto risulta perso o trascurato di quel testo è l’afflato tutto ‘politico’ di contestazione radicale delle strutture di peccato sociale. Il che appare evidente se solo si faccia caso ai luoghi citati ed a quelli non citati (o citati in modo ‘edulcorato’) dell’enciclica di Paolo VI. E’ solo un’esigenza di aggiornamento o di nuova contestualizzazione di categorie (rivelatesi obsolete?) che impedisce di citare i nn. 21, 22, 24, 26, 58-9, 61? E’ il nuovo ‘clima post-ideologico’ che impedisce di parlare delle strutture economiche e delle istituzioni come “strutture oppressive” frutto degli “abusi del possesso” e del potere e dell’ “ingiustizia delle transazioni”? O del fatto che tutti i diritti, “di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio” devono essere subordinati alla carità? O che “il bene comune esige talvolta l’espropriazione” di certi “possedimenti che sono di ostacolo alla prosperità collettiva”? O ancora che “le speculazioni egoiste devono essere bandite” insieme con il trasferimento all’estero di capitali, poiché “il reddito disponibile” non va lasciato “al libero capriccio degli uomini”? E che dire della critica radicale al “capitalismo liberale” che considera “il profitto come motivo essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti” (un “liberalismo senza freno” che già Pio XI nella Quadragesimo anno (1931) aveva stigmatizzato come generatore dell’ “imperialismo internazionale del denaro”)? Per non dire della condanna della “legge del libero scambio e della libera concorrenza” che non sono “più in grado di reggere da sole le relazioni internazionali”; o ancora della contestazione della razionalità, oltre che della moralità, dal punto di vista dello stesso diritto naturale, del contratto, anche su base internazionale, laddove il “consenso delle parti” non derivi da una “relativa eguaglianza di possibilità”, ma risulti imposto da “una situazione di eccessiva disuguaglianza”.
Insomma, è davvero difficile concordare con l’idea che la dottrina sociale della Chiesa vada depurata di qualsiasi vis politica (quale emergeva nella Gaudium et spes e nella Populorum progressio), per approdare a forme di minimizzazione del ruolo dello Stato, nonostante le deludenti prove di sé che il sistema del libero mercato continua ad offrire.
Ed, invece, a che cosa stiamo assistendo oggi se non ad una necessitata riedizione di uno Stato attore e controllore delle forze economico-finanziarie e di uno Stato sociale di cui tutti chiedono il continuo soccorso, e che ha costituito l’unico operatore del sistema economico che di fronte alla crisi non si è bloccato, continuando ad erogare redditi e servizi?
Ed infine, quale altro soggetto economico se non lo Stato sociale potrebbe meglio garantire la giustizia come “prima via della carità” (Gaudium et spes, 69) o “misura minima di essa” (Paolo VI)?

In forma di post scriptum. 
Perché la Chiesa non leva forte la sua invettiva profetica (con le forme odierne della sua potenza mediatica) per dare voce alla “collera dei poveri” (Populorum progressio, n. 49) in tutte le loro attuali forme, mettendo sotto i nostri occhi, con la stessa solerte quotidianità riservata alle tematiche bioetiche o educative, “lo spettacolo delle miserie che gli uomini hanno tendenza a dimenticare per tranquillizzare la loro coscienza”, ricordando loro che “i poveri sono alla loro porta e fanno la posta agli avanzi dei loro festini”(ibid., n. 83)?