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Economia al futuro: il “tempo dei nipoti”
di Severino Saccardi

Nel tempo è necessario abbandonare un’ottica angustamente “economistica”, per inquadrare gli aspetti sociologici, esistenziali e “di costume” che, in questo difficile passaggio, si evidenziano e per puntare su una nuova connessione fra razionalità economica e salvaguardia della dignità umana.

Viviamo nel tempo della crisi. Abbondano in proposito le metafore che vi si riferiscono: la crisi è “tunnel” (l’uscita dal quale ha tempi non prevedibili), è “passaggio” (chissà quanto lungo e quanto aspro), è travaglio (che dà sofferenza, ma che potrebbe anche preludere al cambiamento, anche se non è domanda peregrina chiedersi a quale costo). Sono le metafore a cercare di dar conto intuitivamente dei modi in cui la crisi si è prodotta. Una delle più efficaci, per renderne il carattere rovinoso e repentino, è quella della “valanga”(1). Come “ (…) spiega Felix Rohatyn, l’ex capo della banca d’affari Lazard, per anni uno dei più ammirati finanzieri di Wall Street e il banchiere di fiducia della famiglia Agnelli in America, “in poche settimane è andata distrutta una quantità di ricchezza pari a quella svanita nell’intero secolo precedente: più che nelle due guerre mondiali messe insieme””(2).

Tempo di patologia
La domanda che si è raggrumata nell’(attonito) inconscio collettivo della nostra società è, insieme, prevedibile e perentoria: “Come è potuto succedere”?
Com’è che un meccanismo che sembrava così ben oliato e rutilante si è improvvisamente, e disastrosamente, inceppato? Ci viene spiegato che “(….) a un certo punto, la fisiologia di un mercato del credito sempre più competitivo” avrebbe innescato, “nell’assenza di un’efficace supervisione dell’autorità monetaria e, in ultima analisi, di quella politica”, una “grave patologia”(3).
Ecco, dunque, la cruda diagnosi (che, infatti, viene, variamente, ripetuta dagli amici che hanno contribuito a questo nostro volume): il tempo della crisi è, per definizione, tempo di patologia. Malati appaiono la finanza, l’economia, il sistema produttivo e la società nel suo complesso. Ma si tratta di una patologia (o di manifestazioni di diverse patologie) che abbisognano di analisi e di diagnosi differenziate. La sofferenza contagia, e infetta, in varie forme il corpo sociale nella sua interezza. Ma colpisce in modo assai diversificato. I notiziari danno conto della notevole quantità di italiani che vivono, come viene detto, in condizioni di “povertà assoluta”. Che appartengono, però, a ben specifiche categorie: al Meridione d’Italia; o a famiglie monoreddito; o a comparti dell’esercito di anziani che vivono soli o che devono, comunque, auto-sostenersi.
Anche a livello “globale” la povertà sembra estendersi in maniera consistente, avverte Joseph Stiglitz, come risultato di un anno che è “verosimilmente il peggiore (…) dalla seconda Guerra Mondiale”(4). Colpisce duro il vento della recessione “perfino i Paesi in via di sviluppo che hanno fatto ogni cosa nel modo giusto”(5). Ma è certo che, sia a livello “globale”, sia in riferimento alle dinamiche di casa nostra, gli effetti dell’attuale momento di sofferenza e disagio sociale incidono, e vengono recepiti, in maniera differenziata, nei vari ambiti del corpo sociale.
Detto in chiaro: dalla crisi c’è chi viene colpito duramente (chi perde il lavoro, chi è in cassa integrazione, in situazioni familiari in cui il reddito si riduce e non è più possibile onorare impegni e saldare debiti e, in genere, nelle zone geografiche e/o nelle fasce sociali più esposte); c’è chi non ne viene toccato; c’è chi, addirittura, come sempre accade, ne ricava guadagni aggiuntivi, perfino arricchendosi o speculando sulla particolarità e le difficoltà del momento.
Sono considerazioni da non trascurare per evitare una rappresentazione generica, e genericamente allarmata o allarmistica, di una situazione, certo drammatica, ma evidentemente complessa, come quella che stiamo vivendo. Una situazione che abbisogna di analisi che devono essere puntate sulla specificità delle diverse realtà che si vanno determinando per essere politicamente e culturalmente efficaci.

Il lato umano
Nella sezione “Società civile” diamo conto di un’esperienza particolare, ma significativa, come quella del “microcredito” promosso da associazioni ed istituzioni di una zona della Toscana di grandi tradizioni sociali e civili come l’empolese. Nel Convegno su Vecchie e nuove povertà, di cui viene ricostruito lo svolgimento, oltre a riferire della messa a punto di concrete esperienze di solidarietà, si fanno considerazioni non irrilevanti. Emerge, ad es., chiaramente dal dibattito, che oggi le figure cui riferirsi nella ricostruzione di un tessuto sociale lacerato sono non tanto quelle riferibili alle tradizionali “classi subalterne” dell’ età industriale e dei tempi, non lontanissimi, della cultura del “fordismo” (con lavoratori, sfruttati sì, come denunciavano partiti operai e sindacati, ma inseriti nel cuore del sistema produttivo). Sono, al contrario, e sempre più, i “marginali”. I “nuovi poveri”, appunto. Coloro che dal lavoro vengono espulsi. Che non hanno spesso abbastanza di che vivere in termini materiali. Ma che, soprattutto, sentono messi in questione la loro “utilità” e un loro (qualsiasi) ruolo accettabile di carattere sociale.
Ecco, dunque, il punto. Ed ecco, per quel che ci compete, il “taglio” che abbiamo voluto dare, con un’impostazione peculiare, a questo fascicolo. Che muove da una convinzione. Che sarebbe, cioè, riduttivo e fuorviante dare della “crisi” una lettura ed un’interpretazione solo di carattere economico o, peggio ancora, “economicistico”. Tanto più in un momento in cui economisti ed esperti di questioni finanziarie vivono, non del tutto immotivatamente, uno stato di evidente incertezza.
Si occupi, in ogni caso, chi deve farlo (meglio se con adeguata cognizione di causa e con la messa a punto di adeguate strategie di uscita dall’emergenza) degli aspetti strutturali dell’attuale sconquasso sociale. Che vanno adeguatamente, e prioritariamente, studiati, come è ovvio.
Ma senza trascurare il “lato umano” della complessa vicenda che stiamo vivendo. L’“antropologia della crisi” (nelle sue manifestazioni sociali ed esistenziali) non è giustapposta agli aspetti più strettamente “tecnici”, cioè prettamente economici, che la caratterizzano. Vi è piuttosto strettamente intrecciata ed interconnessa e ne è, anzi, essa stessa, elemento costitutivo.
A non voler essere ciechi e sordi, non vi è un’unica ed unidimensionale (macro)storia della crisi.
Che si può intendere, peraltro, pienamente solo se si è capaci di porsi in ascolto delle molte “storie” e dei risvolti umani di cui essa si compone.
Ci sono, accanto agli aspetti materiali, e da essi talora determinati, e con essi, comunque, variamente, connessi, gli aspetti di carattere sociologico, psicologico, di mentalità, di costume, che la crisi determina e da cui essa viene, a sua volta, influenzata nel suo altalenante e stressante andamento.
Lo stress, appunto. E’ uno dei temi più ricorrenti, al momento. Ne parlano settimanali a larga diffusione e trasmissioni televisive che dispensano spediti consigli, utili quanto la riproposizione dell’uovo di Colombo. C’è, d’altronde, lo stress vero e autentico (quello di chi è alle prese con difficoltà reali) e c’è lo stress dovuto all’ansia “generica” di carattere sociale ed all’autosuggestione. Come quella di chi, pur non avendo problemi di reddito e pur rientrando nelle categorie (fortunatamente) non toccate dalla crisi, smania nei supermercati per trovare gli sconti più convenienti e i prezzi più stracciati.
Cambiano, in ogni caso, abitudini, stili di vita, modi di consumare. C’è chi denuncia di non avere “più sogni” perché le spese sono l’“unico incubo”, c’è chi afferma di rinviare tutti i pagamenti e di viaggiare “solo low cost”, chi non si permette “né libri né vestiario” pur lavorando al massimo e chi afferma: “Mi sacrifico su tutto per aiutare mia figlia”(6).
Si vive di attese. In generale, si attende che “la crisi passi”. Ma si trova anche chi aspetta che essa produca effetti che, in realtà, non si verificano se non in misura ridotta. Così è, ad es., come confessano, talora, desolati agenti immobiliari o eventuali acquirenti, per il costo delle case. Che è un po’ calato, certo. Ma non fino al punto che alcuni si sarebbero attesi per fare, sia pure in un momento critico, il gran passo dell’acquisto (o, per quel che riguarda le agenzie immobiliari, per ricavarne il guadagno dell’intermediazione).

Il tema-fiducia
C’è una sensazione diffusa di ristagno. Manca, si dice, la fiducia. Certo. Ce n’è ben donde.
Ma l’osservazione è tutt’altro che peregrina. La fiducia – cioè un elemento di carattere tipicamente “umano”, non riducibile a freddi calcoli di carattere quantitativo e matematico – è un fattore determinante, e propulsivo, per il risanamento, e il buon funzionamento, della dimensione economica. Lo ha sottolineato, di recente, anche un pensatore lucido come Amartya Sen.
La desolazione di questi nostri tempi – con un richiamo così insistito da sembrare abusato – viene talvolta paragonata alla grande depressione che seguì l’“orribile” anno-simbolo 1929.
Ebbene, al di là dei (pesanti) dati strutturali che, anche allora, segnarono una brusca e drammatica inversione di tendenza rispetto ai “ruggenti”, e inconsistenti, anni ’20 (letterariamente, quelli de Il grande Gatsby), l’elemento profondo che rese così oscura la situazione fu, certamente, un crollo profondo e diffuso della fiducia. Mancanza di fiducia, oltreché di risorse e di lavoro. C’era questo alla base di molti dei più eclatanti drammi umani di cui puntualmente le cronache dettero conto (e dei moltissimi drammi anonimi, che non fecero notizia, ma che contribuirono a rendere fosco il clima sociale e così lenta la ripresa).
John M. Keynes, che al tema della ripresa (e della riforma del capitalismo) legò il suo nome, era probabilmente consapevole dell’importanza dei fattori psicologici, soggettivi ed umani nel co-determinare le altalenanti fasi del ciclo economico.Un suo breve scritto (con una postfazione di Guido Rossi e l’ammicante titolo: Possibilità economiche per i nostri nipoti), che è diventato un piccolo “caso editoriale”, non si apre, infatti, con l’invettiva contro “una forma particolarmente virulenta di pessimismo economico”?(7).
Certo, ridare, e riacquistare fiducia non è semplice. E’ come nelle vicende esistenziali e individuali. Non è facile ripartire dopo il fallimento di un progetto. E, adesso, alle spalle abbiamo un progetto fallito. Che, laddove non si connotava come pura ribalderia o avventurismo, aveva un suo profilo ed un suo senso, per quanto marcatamente ideologico e discutibile. Alla base vi erano una logica ed una prospettiva, quelle di “far entrare anche i cittadini a basso reddito nel “club dei proprietari”, legando così anche loro al successo dell’economia di mercato”. Una prospettiva (“quella della casa perfino ai meno abbienti”) che “coincide con l’obiettivo ideologico del presidente conservatore”(8), cioè di George W. Bush. Quel che ne è seguito è noto, ed è quello che tuttora, in forme ed a livelli differenziati, stiamo vivendo e di cui portiamo le conseguenze.
C’è, certo, anche la possibilità che la crisi rappresenti un’opportunità di cambiamento e che come tale possa, e debba, essere colta. Va bene. Su questo insistono non pochi degli interventi della nostra sezione monotematica. Ma tale possibilità (che come tale va problematicamente inquadrata) non si dà di per sé, con immediatezza, o come una sorta di automatismo. La crisi (ha ragione Andreini, usando efficacemente immagini bibliche) è, intanto, un diluvio. E come un diluvio travolge e distrugge risorse, energie e persone. Questo testo viene scritto mentre i giornali riportano la notizia del suicidio di David Kellermann, manager del colosso americano dei mutui “Freddie Mac”. Una persona incalzata dalla magistratura e, forse, non esente da (colpevoli?) errori e responsabilità. Ma, comunque, un uomo di soli 41 anni che non vede altra via che uscire traumaticamente, e definitivamente, di scena. Le vite troncate, i suicidi, erano, d’altronde uno degli emblemi del “grande crack” del 1929 (9).
Sarebbe, insomma, ingenuo vedere, come mi pare sottilmente si tenda talvolta a fare, la crisi quasi come una sorta di (opportuno?) lavacro purificatore e di collettiva espiazione per gli errori, che si sono commessi(10), riconducibili allo scialacquamento consumistico.
E’ augurabile, per riprendere l’efficace approccio metaforico di Andreini, che la colomba torni presto con un ramoscello di ulivo che sia annuncio di una terra al riparo dalla devastazione delle acque e possibile sede di una più equilibrata ripresa e rinascita. Ma, intanto, è bene sapere che la crisi, di per sé, è un meccanismo ansiogeno e patogeno. Che può indirizzare verso la solidarietà e la sobrietà. Ma che, con più evidente facilità, genera anche chiusure, egoismi, durezza nei rapporti, arroccamenti e chiusure. Che altro sono se non questo gli istinti protezionistici che rinascono?
Che lezione altrimenti trarre da vicende recenti come quella degli operai inglesi che insorgono contro la presenza, nel loro Paese, dei loro colleghi italiani ed il lavoro ad essi accordato?
L’inasprirsi della situazione economico-sociale, prevedibilmente, appesantirà, del resto, le dinamiche che si sono andate sviluppando, in questi anni, sul delicato terreno della convivenza tra diversi. E renderà, probabilmente, ancora più problematica la gestione della “questione immigrazione”. I movimenti di popolazione del “mondo globale” schiudono a possibilità nuove di confronto e di contatto fra differenti porzioni di umanità e fra storie ed esperienze diverse, ma generano anche contraddizioni enormi. E’ un ambito al cui interno si confrontano opposte paure: quella del migrante che vive lo sconcerto dell’arrivo in una terra incognita e quella dell’“autoctono” e del residente che vivono le nuove presenze come invasione e intrusione. Non è sufficiente, in merito, ricordare come la nostra società e la nostra economia abbiano bisogno vitale di immigrati: per il lavoro di cura e per le attività che da noi nessuno è più disposto a svolgere. Nell’immaginario collettivo convivono, e sono come giustapposte, la figura dell’“immigrato necessario” e quella dell’“immigrato invisibile”. “Invisibile”, come spesso lo si vorrebbe una volta che abbia adempiuto le mansioni per cui la sua presenza fra noi è indispensabile. La crisi, in ogni caso, restringe gli spazi ed inasprisce gli animi. E l’immigrato, all’interno della classica dinamica del “conflitto fra poveri” verrà visto, ancor più, come elemento di perturbazione della pace sociale e come un “ladro di lavoro”. Come un competitore delle parti più deboli della nostra società nella spartizione di risorse ed opportunità di vita che appaiono (o realmente sono) in via di restringimento. E che sembrano riportare, in taluni casi, anche ad una concorrenza reale sul mercato del lavoro “povero”, in cui “tutti accettano tutti” e “si adattano a mestieri diversi”(11).

E’ (anche) una questione di cultura
Nella complessità della situazione attuale, l’atteggiamento più esiziale sarebbe quello orientato a considerarne esclusivamente i, pur rilevanti e basilari, dati materiali. Le crisi vengono anche perché si è seguita una certa visione delle cose (e, dunque, una determinata impostazione “culturale”) e dalle crisi si esce, anche, innovando conoscenze e scommettendo sulle competenze e su un modo diverso di guardare alla realtà. Investendo, dunque, in cultura. Una simile consapevolezza era presente in tante delle esperienze storiche dei movimenti operai, cooperativi e mutualistici che intuivano che puntare, allora, sulla crescita culturale dei lavoratori era una scommessa vincente. La Biblioteca o il corso di formazione da inquadrare, dunque, non in un’ottica settoriale ma come veicolo di crescita complessiva della consapevolezza civile e umana delle classi subalterne. La stessa intuizione di don Milani che, anzi, ne dava un’interpretazione radicale, bacchettando in nome dell’elevazione culturale dei poveri, gli aspetti ricreativi di oratori e case del popolo, dei ritrovi dei “comunisti” e di quelli dei “preti”.
Oggi, in un’epoca in cui gli strumenti e le possibilità di conoscenza si sono enormemente ampliati – si pensi, pur nella sua ambivalenza, alla potenzialità enorme della Galassia Internet (12) – tale consapevolezza pare talora subire un preoccupante appannamento. Appannamento, tornando al nostro tema, di cui la crisi è, insieme, causa e pretesto.
“Non ci sono risorse”, si dice; dunque, come è possibile investire in cultura? Il cane si morde vistosamente la coda. Le realtà culturali, nel mondo dell’informazione, della comunicazione, dell’associazionismo, sono esposte a batoste pesanti. Si tagliano contributi, si riduce il “servizio civile” per le associazioni di volontariato, si butta là l’idea di attingere al 5 per mille (vitale per il “terzo settore”) per la sacrosanta opera di soccorso ai terremotati abruzzesi. Che potrebbe, invece, essere sostenuta con ben altre, più mirate, e più ingenti, risorse. E pensare che la “cultura diffusa” sarebbe una grande riserva di carattere morale proprio per reagire al clima depressivo che nel tempo della crisi è penetrante e pervasivo. Bisogna ripensare, si dice, lo sviluppo. Ma lo sviluppo non è solo questione di carattere angustamente e tecnicamente “economico”. E’ profusione di energie, è inventiva, è creatività applicata. In Toscana, dove i traffici dei mercanti e la vivacità dei Comuni posero le basi di esperienze importanti della borghesia europea, ne abbiamo antica memoria. Come quella, per non fare che un esempio, dell’opera di Francesco Datini, il mercante di Prato cui si deve l’invenzione della “lettera di cambio”. Nella sua città, in una Fondazione che porta il suo nome, la mole di testi, lettere, documenti sta ad attestare come lo spirito di intrapresa, inteso come insieme di relazioni, di rapporti umani, di realizzazioni filantropiche, sia intessuto di ben più che del semplice produrre ed esportare beni o investire denaro.
Le esperienze più significative della “civiltà borghese” e dei movimenti operai hanno, in questo, un elemento di convergenza, pur nella diversità delle finalità e delle ispirazioni. Nel sapere, cioè, che il “fattore cultura” è elemento fondamentale (non mero ornamento o volatile sovrastruttura) nel decidere i destini e nel qualificare il cammino di una comunità.
Si tratta, forse, di considerazioni ovvie. Che tali però non appaiono nel momento in cui la crisi morde non solo tagliando posti di lavoro o rendendo più insicuri i percorsi di vita, ma anche impoverendo il volto delle città, restringendone gli spazi ed i riferimenti culturali.
A Firenze, di cui parlo perché ne ho cognizione diretta, chiude una grande e storica libreria: la LEF (Libreria Editrice Fiorentina). Un luogo, un centro culturale, che è stato un punto di riferimento
per personalità come Giorgio La Pira, don Lorenzo Milani (che con la LEF pubblicò i suoi testi), Mario Gozzini, Giampaolo Meucci. Una perdita. Che tanti deplorano, senza che si sappia, o si voglia, porvi rimedio(13). Ancora: nel capoluogo toscano, che è “città europea della cultura”, rischiano di essere gravemente compromessi i servizi della Biblioteca Nazionale. La carenza di risorse e il pensionamento, senza adeguati ricambi, del personale qualificato potrebbero essere fatali ad una istituzione che, nel lontano 1966, quando la furia dell’Arno devastò Firenze, assurse a simbolo della tenacia dei fiorentini e dei volontari di tutto il mondo nel contendere al fango i tesori della letteratura e del sapere.
Su un piano generale, molte sono, del resto, le deprivazioni culturali che incombono. Nel delicato settore della comunicazione e dell’informazione, c’è il tema, oggi molto dibattuto, della paventata “morte dei giornali”(14). Un fenomeno preoccupante, che è in fase avanzata e si manifesta clamorosamente, soprattutto negli Stati Uniti. Dove molti quotidiani (di carattere locale, ma anche a più larga diffusione) vengono falciati dal calo delle vendite e della pubblicità e dalla mancanza di risorse. Non è solo la risaputa questione della concorrenza di internet e della dimensione multimediale rispetto al “cartaceo” ad essere probabilmente all’origine del problema. Tanto più che non c’è organo di informazione, ormai, che non si avvalga anche di riferimenti, supporti e modalità di diffusione delle notizie e dei commenti on line. La multimedialità può anzi essere, come è evidente, più una risorsa che un problema in un’attenta ed avanzata gestione dell’informazione che punti a rendere intelligentemente complementari le tradizionali versioni di giornali e riviste “di carta” con la crescente informatizzazione dei flussi comunicativi. Il problema, dunque, non è lì.
Il sospetto è che gli episodi, sempre più numerosi, dei giornali che cadono e muoiono non siano riconducibili ad una questione asetticamente “tecnica” (obsolescenza di strumenti, cattiva gestione dei bilanci o dei rapporti con i lettori, etc..), ma che non siano che una manifestazione del più generale impoverimento del mondo attuale. Un impoverimento, in questo caso, di ordine prettamente culturale. Anche senza tirare in ballo la massima di un grande pensatore secondo cui “la preghiera quotidiana dell’uomo moderno è la lettura del giornale”, è assai poco probabile che un mondo senza quotidiani sia anche un mondo migliore. E, con tutta la considerazione dovuta alla dimensione informatica della comunicazione, non è affatto detto che l’auto-costruzione di un “personale” notiziario ricavata da internet abbia la stessa valenza ed implichi la stessa apertura verso la realtà che il giornalismo di tipo “tradizionale”, pur con i suoi limiti, ha lungamente garantito.
Ma è, questo, un discorso che porterebbe lontano e che non è qui il caso di approfondire. Anche se non è detto che, su queste stesse pagine, non torniamo presto a discuterne in maniera più meditata.

In sintesi
La crisi, dunque.In tutti i suoi aspetti, come è da temere, ci farà ancora compagnia(15). Ci sarà modo di tornare ad occuparsene.Ed è bene che su un tema di così vitale importanza e delicatezza opinioni diverse si confrontino. La crisi attuale è una delle manifestazioni (di carattere patologico, ma forse anche di trasformazione e di crescita nel cambiamento) della dimensione della complessità del “mondo globale”. Una dimensione di cui vanno tenuti compresenti i diversi piani ed i differenti aspetti. Questo è, dunque, il senso che è possibile e doveroso dare alla prospettiva dell’individuazione degli elementi fondanti di un’“antropologia della crisi”. Si dibattano e si individuino, in primis, le strategie di carattere prettamente economico tendenti a curare le distorsioni strutturali che sono alla base della malattia. Ma non si dimentichi che anche la considerazione dell’“elemento umano” e la preservazione ed il rilancio dell’iniziativa e della dimensione culturale sono parte integrante della diagnosi e della terapia. Solo in questa ottica d’insieme, tra l’altro, è possibile cogliere la valenza politica della cultura dei diritti come via d’uscita solidale e fondata sul rispetto della dignità dell’uomo, dalle conflittuali contraddizioni del presente. L’“anno dei diritti”, che è appena alle nostre spalle, ci ha consegnato, dopotutto, una lezione che ricorda imperativamente che i diritti sociali, insieme a quelli di carattere politico e civile, sono non un qualcosa di aggiuntivo, ma una componente essenziale della lezione consegnataci, oltre sessanta anni fa, dalla Dichiarazione Universale. Nel tempo futuro dei “nipoti”(evocato da Guido Rossi, sulla scia della lontana suggestione di Keynes) non è detto che sia ineluttabilmente inscritta la prospettiva di un perdurante conflitto fra le istanze della razionalità economica e la salvaguardia del valore primario del “fattore uomo”.
1) V. Massimo Gaggi, La valanga – Dalla crisi americana alla recessione globale, Ed. Laterza, Roma-Bari 2009.
2) M. Gaggi, cit., Introduzione, pag. IX.
3) Ivi, pag.27.
4) Joseph Stiglitz, Duecento milioni di nuovi poveri, risultato di un 2009 da dimenticare, “la Repubblica- Affari & Finanza”, 20 Aprile 2009.
5) Ivi.
6) Lettere dall’ Italia in crisi- Così cambia la mia vita, di Massimo Russo, “la Repubblica”, 26 Marzo 2008. Sul tema aveva già scritto (“la Repubblica” ,4 Marzo 2009) un articolo di commento Luciano Gallino, facendo riferimento al “Paese dei senza lavoro”, di “un pezzo d’Italia che diventa sempre più grande e disperato”.
7) John Maynard Keynes (seguito da Guido Rossi: Possibilità economiche per i nostri nipoti?), Possibilità economiche per i nostri nipoti, ed. Adelphi, Milano 2009, pag. 11.
8) M. Gaggi, cit., pag. 8.
9) “E’ lunga la lista dei manager che si sono tolti la vita a causa della crisi finanziaria (…) ma c’è anche gente comune: la scorsa settimana un uomo del Maryland ha ucciso moglie e tre figli e si è tolto la vita schiacciato dal peso dei debiti” (Francesco Semproni, “La Stampa”, 23 Aprile 2009).
10) Contro la tendenza ad una diffusa “fustigazione morale” anti-liberistica ed anti- consumistica, è particolarmente tagliente e sarcastico il punto di vista del “bastian contrario” André Glucksmann (La cattiva coscienza dei critici della globalità, “Corriere della Sera”, 24 Aprile 2009), che nota: “Presso molti intellettuali si sente affiorare uno spirito di rivendicazione, una gioia malvagia (…) Ho sentito celebrare come una giusta punizione del cielo il naufragio di una globalizzazione che se ne infischia dei principi immortali e dei valori ineccepibili (…) nulla è sfuggito (…) né la dittatura della tecnocrazia(…) né la dissoluzione dei costumi, né la crescita produttivistica (…) tutte vere e proprie maledizioni apocalittiche..”.
11) Sono considerazioni che sviluppa, ad es., un giornale di quartiere di Firenze ( “il Reporter del Q1”, n.19, del 1 Aprile 2009) in un articolo a firma Serena Widenstritt, significativamente intitolato: E le italiane tornano a fare le badanti.
12) V. in prop. la sezione monotematica dedicata alla Galassia internet (a cura di Davide De Grazia) nel n. 453 di “Testimonianze”
13) V. Di giorno andavamo alla Lef, di Edoardo Semola, “Il Corriere Fiorentino”, 25 Marzo 2009. Sul “caso Lef” v. anche la proposta, di una raccolta di fondi straordinaria, “provocatoria” (ma destinata evidentemente a restare infruttuosa”) dello storico Franco Cardini, che invoca: “Salviamo noi la Lef” (Edoardo Semola, “Il Corriere Fiorentino”, 26 Marzo 2009).
14) V. in proposito, tra l’altro, “Internazionale” del 6/12 Marzo 2009 (la cui copertina è dedicata a Il giornale di domani ), con articoli come quello di Michael Hirschorn, intitolato drasticamente, e significativamente, L’ultima copia.
15)  E’ una considerazione, purtroppo, verosimile, anche se non mancano (rassicuranti) commenti di segno contrario che invitano a cogliere le prime, timide, manifestazioni di una ripresa o che notano (come Francesco Gavazzi in un editoriale intitolato L’occasione delle riforme, “Corriere della Sera” del 23 Aprile 2009) come la “crescita cinese, più 6,1%, nel primo trimestre dell’anno, seppure in discesa rispetto al 9% del 2008”, sia il segno “che l’economia mondiale non è crollata”.