di Vincenzo Russo


Una vocazione, quella di don Giulio Facibeni per la carità verso i più poveri, gli emarginati, gli ultimi, nata nella tragedia della Prima Guerra mondiale. Da quella dolorosa vicenda prese forma una straordinaria esperienza: la Piccola Opera della Divina Provvidenza (poi diventata Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa). Avviata a Firenze nel 1923, ebbe al centro l’accoglienza degli orfani con l’Asilo, l’Orfanotrofio, la formazione umana e professionale di tanti giovani: non una istituzione ma una casa, che continua ancora oggi la sua opera.


 La carità: una fiamma che arde
«L’animo vorrebbe inoltrarsi negli oscuri vicoli, salire le scale sgangherate, stringere a sé tanti piccoli esseri, avvolgerli nell’amore che protegge, eleva, insegna la gioia della vita. Vorrebbe togliere al dormitorio pubblico poveri fanciulli senza casa, esposti ai pericoli della strada. Ma, le convenienze, le difficoltà del poi, le critiche di coloro che pensano che anche la carità deve essere fatta per benino… Siamo dei pusillanimi! La carità non è una fredda luce chiusa nell’involucro di vetro; è una fiamma che arde, sprizza, si dilata, si eleva; il vento non la spenge, la moltiplica; chi tenta soffocarla ne rimane avvolto». Queste parole, scritte da don Giulio Facibeni nell’edizione datata 2 febbraio 1947 de «Il Focolare», giornale che fu ed è stato fino ad oggi espressione costante dell’azione dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa, ben riassumono il senso più pieno del suo carisma e della missione dell’Opera stessa.
Quello che emerge è, anzitutto, l’intensità del desiderio di annunciare a tutti la gioia della fede e della vita attraverso una evangelizzazione incentrata sulla carità.
Per cogliere la portata «rivoluzionaria» di quel desiderio occorre collocarlo nel tempo in cui don Facibeni lo esprimeva. Siamo nel secondo decennio del secolo scorso, in una Chiesa abbondantemente preconciliare, dove i primi doveri di un parroco sono quelli della catechesi e dell’amministrazione dei sacramenti. Troppo lontani, ancora, quei richiami, a noi oggi familiari, alla necessità del dialogo, ad una comunità cristiana aperta che, insieme al suo pastore, non si chiude in una ritualità incomprensibile ma esce fuori dalle pareti delle sue stanze e sicurezze e si riversa per strada, per testimoniare la buona notizia di Cristo attraverso l’azione concreta della carità. Eppure don Facibeni viveva già tutto questo, spesso incompreso e malgiudicato dagli stessi ambienti ecclesiastici, attuando quel monito che in questi giorni tanto abbiamo caro nel ricordo di papa Francesco: «Il pastore deve avere l’odore delle pecore», deve cioè stare in mezzo alla gente.
Questo incontro con l’altro nella carità, con chiunque altro, soprattutto se sofferente e in difficoltà, don Facibeni lo eleva a centro della sua vita sacerdotale e di fede dopo aver maturato dentro di sé la familiarità con la realtà della Croce, della sofferenza umana. La vita lo conduce a questo non solo attraverso le sue umili origini ma poi, soprattutto, per mezzo della sua esperienza sul Monte Grappa, dove nel 1918 fu partecipe dei tragici conflitti sulla linea del fronte nelle fasi decisive e finali della Prima Guerra mondiale.

Facibeni: un pastore in mezzo alla gente
Era nato nel 1884 a Galeata, un piccolo paese dell’appennino allora toscano (oggi romagnolo). Qui aveva conosciuto la vita povera, semplice ma dignitosa, e aveva respirato in famiglia un sincero clima di fede. Presso il Seminario di Faenza avvennero gli studi ginnasiali e liceali; quindi la svolta di Firenze, con la scelta del capoluogo toscano per proseguire gli studi iscrivendosi a Lettere presso l’Università. Nel 1907 ecco giungere l’ordinazione sacerdotale. L’insegnamento, che nel frattempo don Facibeni aveva già iniziato ad esercitare, non doveva essere però la sua vocazione. La destinazione alla parrocchia di Santo Stefano in Pane fu un chiaro segno che egli avrebbe dovuto essere pastore in mezzo alla gente. Poi, come accennato, l’incontro con la Croce in mezzo alla ferocia distruttiva della guerra, sulla Cima del Grappa.
Qui, l’immagine della Madonnina, anch’essa mutilata dagli eventi bellici, fu ispiratrice e guida di una trasformazione del suo cuore, avvenuta attraverso il sanguinamento di una umanità condotta al macello. Raccogliendo le ultime volontà dei soldati morenti, promise cure e attenzioni per i figli e le famiglie, privati di giovani padri dall’assurda logica del male. Proprio da questa esperienza, come sorgente, scaturisce il fiume di paternità con il quale egli sceglie di offrire vita all’intera comunità a lui affidata.
Scriverà: «Il seminatore fatica silenzioso nelle umili e nebbiose giornate di novembre e dona con largo gesto il suo seme all’oscurità della terra: il mietitore raccoglie in una festa di luce e di canti sotto l’ardente sole di giugno. Le prime pietre di ogni istituzione voluta dalla carità, devono essere cementate col sangue del cuore» (Pic. Op. Div. Prov., Marzo1931).
Così era avvenuto. Da quella dolorosa macerazione del cuore, aveva preso forma, una straordinaria azione di carità che, con inizio ufficiale nel novembre del 1924, avrebbe strutturato e coordinato diverse attività parrocchiali. Al centro, l’accoglienza degli orfani con l’asilo e poi l’orfanotrofio. Non una istituzione ma una casa. È la Piccola Opera della Divina Provvidenza, poi diventata Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa. «L’Opera non è un collegio. È e vuole essere famiglia dei senza famiglia. Unico titolo per l’accettazione è il maggior bisogno» (discorso per il ventennale dell’Opera, Vita Parr., 3 giungo 1945).

Un centro propulsore di carità
Questa Opera è il centro propulsore di carità della parrocchia. Questo l’intendimento: «(…) andare ai piccoli che nell’anima e nel corpo portano i segni della bufera che ancora volteggia, medicarne le ferite, donare loro il senso cristiano della vita» (Lettera a don Corso Guicciardini, 29 marzo 1946). Emerge sin da subito e si conferma nel tempo che la via indicata da don Facibeni non è il semplice esercizio della buona azione, di una compassionevole assistenza. Non si tratta di fare carità ma di essere e vivere carità, facendosi avvolgere da quella fiamma d’amore divino che questa rappresenta. A definirne il tratto caratteristico è la vita di chi la incarna, chiamato alla gratuità, alla totalità del loro impegno, al farsi strumento invisibile ed umile dell’amore di Dio, all’essere attraversato dal sacrificio personale. Quanta distanza, facendo una breve digressione, dalla beneficenza così come oggi intesa e poi manifestata, spesso consistente nella pubblica realizzazione di opere e attività che raggiungono solo la superficie dei problemi e delle persone e che si dicono efficaci anche se non implicano il coinvolgimento della vita di chi dona. L’Opera di don Facibeni è incontro vero, che tocca la vita dell’altro, è immergersi nella povertà, è sporcarsi le mani con la miseria e il dolore delle persone, con il problema particolare di ciascuno. «Il cuore umano ha abissi così profondi; racchiude energie alle volte insospettate! Anche il cuore più devastato ha sempre una fibra che, saputa trovare e toccata con grande carità, può sempre donare una nota di bontà» (Lettera, 15 sett. 1943).
Affrontare una sfida così grande, in quel periodo e senza i dovuti mezzi precedentemente assicurati poteva parere una pazzia. Ma non per chi fondava questa Opera affidandola alla Divina Provvidenza. «Nella casa c’è povertà che qualche volta rasenta la miseria, ma non la povertà arcigna, invidiosa, dispettosa! No! La fiducia nella Provvidenza Divina la rende serena» (Vita Parr., 23 dicembre 1945). E ancora: «L’Opera vuole essere umile messaggera della bontà della Provvidenza di Dio ovunque l’ignoranza ottenebra, il lavoro opprime, la sventura travolge» (discorso per il ventennale dell’Opera, 3 giugno 1945).
«Unico capitale dell’orfanotrofio: l’incrollabile fiducia nella Divina Provvidenza; uniche cartelle di rendita: le pagine del libro dove ogni giorno sono registrate le offerte» (Vita Parr. 20 dicembre 1936). Siamo nel centro della vita e della missione dell’Opera, la cui vera forza sta nella preghiera. Non solo però l’accoglienza degli orfani e dei ragazzi, che arriveranno ad essere anche 1200 contemporaneamente e per i quali l’Opera si prodiga non solo nell’offrire una casa e una famiglia ma anche di provvedere alla loro formazione, attraverso lo studio oppure la formazione ad un mestiere.

Il grande contributo di don Corso Guicciardini
C’è, infatti, molto altro, che è frutto di un vero e concreto uscire verso le persone, incontrandole nelle case, nelle officine, nelle carceri, negli ospedali.
Si ricordano, in particolare, la vicinanza ai carcerati e agli operai. Circa la realtà del carcere don Facibeni, con sguardo profetico, la individua quale realtà che deve essere illuminata da uno sguardo nuovo, capace di accogliere anziché giudicare. Accogliendo un piccolo di due anni, figlio di detenuta, don Facibeni scrive: «L’Opera si avvia decisamente verso una delle miserie più cupe e profonde meno conosciute» (Vita Parr., 4 maggio 1941). C’è poi l’impegno dell’Opera vicino ai lavoratori, che vede don Facibeni più volte accanto al sindaco Giorgio La Pira. Uniti da una stima reciproca, essi sono accomunati dall’intendimento della vita cristiana come vita di servizio verso i poveri.
Una vocazione, questa, che è stata ed è l’anima dell’Opera, e che è giunta sino a noi grazie a don Corso Guicciardini il quale, raccogliendo l’eredità di don Facibeni, che lo scelse come successore dopo aver compreso la sua grande profondità spirituale, ha vissuto e trasmesso nel corso dei decenni il carisma ricevuto, testimoniandolo attraverso uno stile fatto di azione concreta nella carità che si svolge nel silenzio. Da nobile che era, aveva scelto di entrare a far parte della famiglia dell’Opera e di farsi sacerdote proprio per aver conosciuto la povertà. Raccontava di sé: «Perché sono sacerdote? Perché c’era la povertà. Non si può vivere il Vangelo senza abbracciare la povertà!». Ecco perché egli fu scelto dal «padre» – l’appellativo con cui tutti a Firenze indicavano don Facibeni – quale guida dell’Opera alla sua morte. Egli aveva compreso che ciò che dà senso alla vita cristiana è la donazione che si fa interamente, che vuol dire partecipazione, condivisione. Non fare per gli ultimi ma stare con loro, vivere con loro, rinunciare a se stessi per fare spazio a loro. Quando, durante gli anni del suo servizio presso la parrocchia di San Giovanni Evangelista in Empoli egli si trovò di fronte ad una coppia rimasta senza casa egli li ospitò per molto tempo nella sua camera, scegliendo una nuda panca della sagrestia come letto. La cifra del suo amare era il silenzio, l’ascolto, il non apparire, il fare concreto ed efficace che si veste di umiltà perché vero e non alla ricerca di altri scopi.
Così gli aveva insegnato il «padre»: «non pose, non clamori… azione umile e silenziosa… anima ad anima». E lo faceva con profonda convinzione: «Il carisma dell’Opera è l’amore a Cristo attraverso il servizio ai più poveri, più soli, più abbandonati». Amare è mangiare con chi non ha nulla ed è spogliato anche della dignità, è condividere il boccone amaro del disoccupato, prendere su di sé il pianto del disperato, accogliere le ferite delle famiglie, dare ascolto e protezione a chi è solo. Ciò si può farlo se si è intimamente uniti a Dio nella fede, se si è in contatto con l’amore del Padre. Scriveva: «Il Signore assiste il cuore di ogni uomo e mette in esso per mezzo del suo Spirito Divino impulsi e aspirazioni di verità e di bontà, di amore reciproco».

Una realtà immersa nel contesto fiorentino
Immergersi nella storia dell’Opera Madonnina del Grappa è immergersi nella storia di Firenze, in ciò che più l’ha costituita nel suo umanesimo più vero e recente. C’è, in tutto questo, l’eco di un altro testimone fiorentino della fede e della dignità di ogni persona, don Lorenzo Milani, che attraverso il pane della parola e dell’educazione volle promuovere gli ultimi verso il legittimo godimento dei loro diritti e della piena libertà.
Scriveva un altro prete, amico degli ultimi, «I poveri sono scomodi, ingombranti, suscitano ripulsione intimidiscono. È facile dire una parola gentile a un uomo della nostra condizione…È difficile misurare la profondità del suo dolore e la superficialità del suo piacere. Per conoscere veramente i poveri, per parlarne con competenza, bisognerebbe conoscere il mistero di Dio, che li ha chiamati “beati” riservando loro il suo regno» (Primo Mazzolari, La parola ai poveri). Don Giulio Facibeni, don Corso Guicciardini e l’Opera Madonnina del Grappa, sono entrati in questo mistero di Dio e dell’uomo e ne hanno manifestato le conseguenze. A noi il compito di proseguire nella strada indicataci, sapendo che come è avvenuto per tutti loro, ciò comporta solitudine, avversità, contrasti e opposizione. Chi vive questa carità, inevitabilmente sarà ostacolato e giudicato. Ma, come scrisse don Facibeni a don Corso nella sua lettera testamento, «(…) in ciò dovrai vedere una maggiore conferma delle divine disposizioni a tuo riguardo» (24 novembre 1949).