di Emma Fattorini


Ad ogni ricorrenza civica, ad ogni festa patria, si ripropone il tema della trasmissione della memoria degli eventi evocati. Purtroppo, con il passare del tempo, le testimonianze di coloro che quegli eventi hanno vissuto vengono meno e c’è il rischio di proporre alle giovani generazioni una memoria «ufficiale», spesso ammantata di retorica, che, in realtà, allontana dall’acquisizione di una matura consapevolezza storica. Una situazione diversa da quella che viene qui ricordata, in un tempo in cui, anni addietro, era ancora possibile provare forti emozioni, durante le riunioni di famiglia, nelle quali nonni e genitori raccontavano le loro esperienze dirette vissute durante la guerra. Un contesto in cui persone con connotazioni politiche diverse convergevano nella sottolineatura dell’importanza fondativa del 25 aprile. Un’ispirazione da recuperare e riproporre: la Festa della Liberazione non deve, infatti, essere divisiva, ma unire l’intera comunità nazionale, come a più riprese ha ricordato il presidente Mattarella.


Come parlarne ai giovani?
Questo 25 aprile, si festeggiano gli ottanta anni della data simbolo della fine della guerra, della Liberazione d’Italia dalla occupazione nazista e dal fascismo.
Tutte le volte che ci avviciniamo ad una ricorrenza importante ci chiediamo come renderla davvero viva e comunicabile ai giovani. Quanto e come la memoria sia ancora trasmettibile.
Fino al punto di avere ormai capito il possibile effetto paradosso, quello addirittura contrario allo scopo voluto. Nulla può essere più respingente della retorica e dell’assuefazione. Tanto più in tempi come questi: rapidi, discorsivi e superficiali. Quando appartenenze e contenuti sono estenuati in polarizzazioni estreme. Respingenti ad ogni tentativo di sintesi e di condivisione comune.
Basti pensare al Giorno della Memoria per eccellenza, quello della Shoah.
Scolaresche che visitavano i campi di concentramento, lezioni (spesso) noiose già dalle scuole elementari, letture indefesse: pratiche lodevoli, certo. Ci mancherebbe. Ma anche per il fatto di essere associate ad un mero ordine pedagogico, nel corso del tempo, hanno finito con l’avere un effetto boomerang.
Qualche tempo fa, accompagnando alcuni studenti universitari in Erasmus ad Amsterdam, mi era capitato di chiedere loro cosa volessero fare come prime visite e alla mia proposta di recarci alla casa di Anna Frank mi risposero con un coro di no. All’unisono: «Professoressa la prego no! È dalle elementari che ci propinano i suoi diari». Rimasi colpita. Erano giovani colti, preparati, motivati. Non era solo una questione di comunicazione, ma molto di più. Pensai all’emozione di noi bambini quando la nostra maestra delle elementari ci leggeva le pagine di quel Diario. Immedesimazione, empatia, indignazione. Da tempo quel giorno è diventato addirittura divisivo, certamente rituale.
Oggi, dopo la tragedia che si è consumata in Israele il 7 ottobre, è tutto ancora più difficile e ancora più tristemente preoccupante. Derubricato troppo rapidamente, quel pogrom in miniatura eppure feroce, aveva colpito giovani ebrei, perché tali, con i simboli della loro generazione: la libertà, la musica, il ballo, l’amore, il corpo. In quanto espressioni di modernità e in quanto ebrei.
Lo scempio operato non solo astrattamente su quei simboli ma sui corpi concreti, violentati e stuprati con le ragazze esibite nei modi più orripilanti, tutto questo orrore non aveva scosso le nostre femministe più giovani. La protesta e l’indignazione è durata poco. Troppo poco.
I nostri studenti protestavano per la reazione sanguinaria di Netanyahu, certo «sproporzionata», ma senza neanche porsi più il perché. In un crescente antisemitismo, imbracciando senza esitazione, in tutto il mondo occidentale, i simboli della persecuzione antiebraica.

Con le parole di Mattarella
Le altre «feste civili» sono ancora più appannate. Il Primo Maggio, festa dei lavoratori, si rivolge ancora alle tute blu, sparite da tempo, senza misurarsi con le tanto diverse forme che ha ormai assunto il lavoro. E non riesce a parlare a quelle.
L’8 marzo delle mimose sopravvive stancamente, in presenza di tanti e belligeranti femminismi.
Del 2 giugno nessun studente ricordava mai neanche cosa fosse.
Il dibattito storiografico, in modi più o meno approfonditi, si è interrogato sulla memoria. Fino allo sfinimento. Il passato che non passa. Il bisogno di una memoria condivisa. Anche qui: sforzi più che lodevoli. Ma senza la consapevolezza e la libertà intellettuale di sapere che, se è fondamentale il ricordo e la memoria, lo è anche saper scegliere e discernere una giusta dose di oblio. Come nelle vite personali, la memoria può e deve essere selettiva e relativa ai fondamentali se vogliamo sia davvero interiorizzata. Il 25 aprile è una data «fondativa» della nostra repubblica, come lo è l’antifascismo.
In questo ottantesimo anniversario è davvero importante chiedersi come, e in che modo, possiamo fare sì che esso sia unitivo e non oggetto di scontro e divisione.
Al riguardo è utile rileggere l’acuto il discorso del presidente Mattarella il giorno del ricordo delle foibe ed esodo giuliano dalmata, il 10 febbraio scorso: di quella commemorazione non ci sarebbe stato bisogno – ha detto il presidente – se fin dall’inizio non ci fosse stata la volontà stessa di cancellare le foibe, dalla storia e dal ricordo. Sia intenzionalmente, con una esplicita selezione della memoria, o quanto meno con una non meno grave rimozione.
È un ragionamento che era già stato affrontato dal presidente Mattarella quando nel 2020 aveva compiuto la doppia visita alla foiba di Basovizza e al monumento agli sloveni fucilati dal fascismo. Richiamando il 9 maggio 1950 quando Robert Schuman e Kondrad Adenauer avevano giurato promettendo la pace lungo il corso del fiume Reno.
Quest’anno, il presidente, a partire da questa postura, ha fatto un’osservazione che è molto più che interessante: basta con la rincorsa di una memoria condivisa, che sia solo astratta, forzata e retorica.
Con toni pacati e riflessivi il presidente riconosce che le memorie possono essere diverse e non condivise. Ma non devono mai essere divisive. Piuttosto incanalarsi in un alveo e un intento comune di connessione della comunità nazionale.
Per fare questo, ha proseguito il presidente, è fondamentale una conoscenza della storia che dia voce e legittimità alle varie letture storiografiche, senza censure o rimozioni, auspicando che, anche in virtù di questa consapevolezza, esse abbiano poi una ricaduta «comune». Costituiscano una memoria di Patria. È stato significativo che abbia pronunciato queste parole affianco alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e a quello del Senato Ignazio La Russa, le cui forze di provenienza non hanno fatto parte dell’arco costituzionale antifascista.
La storia, dunque. Ma la sua conoscenza può davvero bastare, può essere giudice imparziale?
Eccoci allora alla prova del 25 aprile di questo 2025, che ne festeggia l’ottantesimo. Data tra le più simboliche, che è sembrata, fino ad ora, resistere alle divisioni. Quasi l’archetipo della nostra più recente identità nazionale.
E come è possibile proprio ora? Quando non solo l’Italia è divisa, ma lo è anche tutto il mondo, diviso all’interno della stessa appartenenza all’Occidente? Nel nuovo dis-ordine di un multipolarismo sregolato e incontrollato di quello che ci appare come la fine dell’assetto seguito alla Seconda Guerra mondiale? Che ne è del nostro patrimonio di memoria, di ricordi, proprio quando ne avremmo più bisogno, che resista oltre la retorica?
Quando la polarizzazione investe tutti i campi, politici, culturali, etici non solo in Italia e rende sempre più difficile trovare un terreno comune, anche se da posizioni diverse, come quello scaturito dalla liberazione di quel 25 aprile del 1945.
Non si potrebbe dire meglio di come ha fatto Mattarella nel discorso dell’ultimo dell’anno «Si registra ovunque un fenomeno di evidente polarizzazione che tocca tanti aspetti della nostra convivenza. Appare sempre più difficile preservare lo spazio del dialogo e della mediazione all’interno di società che sembrano oggetto di forze centrifughe divaricanti, con una pericolosa riduzione delle occasioni di dialogo, di collaborazione, di condivisione. Si tratta di una dinamica che non riguarda soltanto la politica ma la precede e va molto oltre. Tocca ambiti sociali, economici, culturali, persino etici. Il pluralismo delle idee, l’articolazione di diverse opinioni rappresentano l’anima di una democrazia. Questo è il principio cardine delle democrazie delle società occidentali. Ma sempre più spesso vi appare la strada di una radicalizzazione che pretende di semplificare escludendo l’ascolto e riducendo la complessità alle categorie amico/nemico».
In un’epoca non solo post-ideologica ma che neppure ricorda più il senso di quelle ideologie che sostenevano la Guerra fredda e che si polarizza nelle forme più estreme e su tutti campi, che ne può restare della memoria?

Quando la memoria si tramandava in famiglia
E, infine, non va mai dimenticato che la nostra è l’ultima generazione ad avere vissuto i tragici eventi novecenteschi attraverso i racconti vividi dei nonni e dei genitori. E quello della memoria, tramandata in ambito familiare, ha un valore radicato, nel bene, come nel male, incommensurabilmente più profondo di qualsiasi fonte scritta. Un filtro soggettivo verso cui la storia orale ci suggerisce, ovviamente, molta cautela.
È certamente assai diverso rispetto ai giovani che hanno assimilato questi tragici eventi attraverso il filtro delle inevitabili retoriche celebrative.
Io sono cresciuta in una famiglia molto numerosa: tutti e quattro i nonni, due zie nubili e noi quattro figli ci ritrovavamo intorno a una lunga tavola.
Il nonno materno aveva la sua «narrazione», la più remota. Con sorellina e fratellino accovacciati davanti al fuoco del camino, il nonno raccontava di Caporetto, del Piave, della Val Pusteria. Per non sconvolgerci troppo, dalle descrizioni del freddo inaudito durate la disfatta di Caporetto senza l’equipaggiamento, introduceva un «oggetto transizionale», un animaletto vispo che faceva compagnia ai buoni, ai soldati tristi, soli e spaventati.
Il nonno paterno raccontava invece della sua prigionia in Africa e del caldo torrido. Del resto, anche lui per non spaventarci troppo diceva di avere fatto quella scelta per evitare il freddo del Nord. Storie e ricordi emozionanti si intrecciavano con le nostre avventure quotidiane.
Mio padre, nato a Roma, parlava spesso della fame durante la guerra, dei suoi studi liceali interrotti dal fascismo e dell’epopea della resistenza. La sua vita da partigiano della Brigata Maiella. La sua fuga notturna da un casolare, dove era rinchiuso con altri compagni per scampare alla fucilazione che li attendeva all’alba.
Le storie familiari erano un caleidoscopio di avventure. Mia madre raccontava come, bambina, da «sfollata in campagna» mangiava dei polli dal sapore indimenticabile e da più grandicella ricordava come, nella pensione dei nonni a Milano Marittima, la nonna ospitasse polacchi, inglesi, africani e «i tanti tedeschi che si ritiravano. Che scappavano».
Era vero; non si parlava delle tremende stragi tedesche di Marzabotto o del Garda, poco più a Nord e di cui si ebbe notizia più tardi. Era una comunità accogliente, capace di condivisione, che apriva la sua casa a chiunque avesse bisogno, senza badare alla nazionalità o alla bandiera. Tutti si sentivano accolti dalla nonna, compassionevole con chiunque avesse bisogno: «Quei tedeschi facevano tanta pena. Erano giovanissimi volevano tornare dalle loro mamme». Nel 1944 il territorio emiliano-romagnolo era stato l’epicentro della Linea Gotica, l’ultima linea di difesa frapposta delle forze armate tedesche all’avanzata degli alleati lungo il crinale appenninico. E mio padre, medico militare, fu mandato da Roma di stanza lì.
La mia formazione è stata profondamente cattolica, ma la famiglia era attraversa dalle profonde contraddizioni del tempo appena trascorso.
Mio nonno paterno, socialista, sfuggito per un soffio alla strage delle Fosse Ardeatine litigava spesso con i parenti materni, cattolici e democristiani. Queste divergenze ideologiche, però, non intaccavano mai l’unità familiare, che rimaneva solidale e aperta. Aperta al dialogo sì, ma sul 25 aprile non si poteva discutere. Era la Liberazione. Si doveva festeggiare.
Ce lo spiegava bene il nonno socialista che entrava e usciva dalle carceri di Regina Coeli. Il 25 aprile del 1945 fu il giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia che aveva sede a Milano proclamò l’insurrezione generale anche negli altri territori ancora occupati dai nazifascisti, incitando i partigiani di attaccarne i presidi prima dell’arrivo degli alleati. Intimando loro «Arrendersi o perire».
Per la fine del mese anche gli altri capoluoghi del Nord furono liberati: Bologna il 21, Genova il 23, Venezia il 28. La guerra terminò definitivamente con la resa il 2 maggio dopo la così detta resa di Caserta del 29 aprile 1945. E noi bambini imparavamo da quelle discussioni, da quelle emozioni. Ora il lavoro della memoria è tutto più difficile. E la nostra generazione ha una responsabilità in più.