«ARIA STRAPPATA CENTIMETRO PER CENTIMETRO AL VUOTO»: RICORDO DI PIERLUIGI CAPPELLO

di Alessandro Fo

 

Questa libertà, autobiografia in forma di romanzo del poeta Pierluigi Cappello, si ferma alla data del terribile incidente che cambiò la sua vita. È la storia di un bambino che scopre nelle piccole cose e negli accadimenti della sua infanzia felice il seme della bellezza e della poesia, che lo accompagnerà per tutto il resto della sua vita travagliata dalla infermità. Un seme (coltivato con caparbia volontà e strappato a condizioni di vita sempre più impervie) che darà frutti importanti, che gli varranno il riconoscimento di numerosi e prestigiosi premi letterari.

 

Ad Anna De Simone,

industriosa, umile «formichina»

al servizio della bellezza e della poesia.

 

Quel seme prezioso

Il 1° ottobre del 2017, appena oltre il traguardo del cinquantesimo compleanno, si è spento Pierluigi Cappello, una delle voci più limpide della nostra attuale poesia, italiana e in friulano. Poche persone hanno come lui saputo portare una testimonianza tanto diretta ed evidente dell’importanza della cultura, specialmente letteraria, e in particolare della poesia, nell’esistenza di ciascuno di noi. I tratti principali della sua vita sono consegnati a Questa libertà, l’autobiografia in forma di romanzo uscita nel 2013 da Rizzoli. E non è per un caso se quel racconto inizia quando Pierluigi ha 5 anni e mezzo e termina quando ne ha appena 18. Ci aspetteremmo che l’autobiografia di un poeta raccontasse i primi esperimenti letterari, i primi successi, incalzati poi dal progressivo affermarsi, sottolineato da pubblicazioni sempre più rilevanti e dai premi più prestigiosi. E invece ci troviamo davanti alla piccola storia di un bambino e di come si sia depositato in lui il seme di un’attenzione alla bellezza e all’arte, per crescere sempre più rigoglioso in mezzo alla scoperta di nuovi mondi, e divenire poi l’àncora di salvezza nel momento del più tragico snodo della vita.

Nato a Gemona l’8 agosto del 1967, Pierluigi è cresciuto a Chiusaforte, in una casa costruita pietra su pietra, con metodici risparmi e immensa fatica dai suoi antenati, in cima a un colle. «Quella casa è stata il luogo da dove si è irradiata la mia alba, tre anni di ricordi in tutto, tre anni di solitudine e libertà». Sono gli anni fra i 5 e gli 8 e mezzo, e abbracciano la prima lontana memoria di uno di quei momenti alti che ti accompagnano poi per tutta la vita. Un momento che più volte riaffiora nelle successive poesie: «(…) lì, d’inverno, aspettavo il ritorno di mio padre. Lavorava ad Arnoldstein come scaricatore, tornava la sera sotto una cerata verde (…) mio fratello e io gli correvamo incontro abbracciandogli le gambe nella penombra del corridoio. Nei suoi pantaloni di velluto a coste si fermava l’odore del lavoro, limatura di ferro, grasso di camion, legno, catrame». E fu là in alto che una notte il possente zio traghettò Pierluigi oltre la sua paura del buio, con una cura semplice, amorosa, consegnata ora alla poesia Colore (in Stato di quiete). Lassù Pierluigi sentì per la prima volta di appartenere al cielo: a coloro che volano con la fantasia e con il cuore, che aspirano a dominare i paesaggi, a librarsi nell’aria. Lassù quel padre leggendario trasportò di peso sulla propria schiena, lungo un’erta ripidissima, il così necessario e quasi fantastico strumento che era una lavatrice. E ancora, lassù, decise di aggiungere alle rate del prodigioso elettrodomestico quelle dei colorati volumi dei Quindici, per fare felice il bambino già appassionato della lettura, e ansioso di cominciare a controllarlo per davvero, il mondo, sui tappeti volanti di quell’enciclopedia. «Era l’anno della lavatrice. (…) Era felice della mia felicità, quel sabato». Era appena il 1975, e Pierluigi aveva 7 anni: ma, come in un fantastico calendario orientale che disponga il tempo sotto le insegne di figure importanti, quello resta «l’anno della lavatrice». L’anno, anche, dell’enciclopedia.

Pierluigi aveva nove anni quando, alle 21 del 6 maggio 1976, la prima scossa del violento terremoto del Friuli abbatté la vecchia casa: «(…) le tegole lasciarono il tetto come uno stormo di uccelli terrorizzati» e s’impose «(…) un nuovo concetto di normalità. Normale era aver avuto parenti morti nelle zone più colpite, normale era che molti genitori si ubriacassero, normale che alcuni di noi venissero picchiati, normale che si vivesse in baracche di legno gelide d’inverno e torride d’estate (…)».

 

La precocissima vocazione di sognatore

La letteratura conquistò Pierluigi fin da bambino: la Chanson de Roland accese la sua precocissima vocazione di sognatore, e l’Addio alle armi di Hemingway, ricevuto in dono dalla maestra, gli insegnò che ogni nuovo libro ci porta in dotazione un nuovo sguardo (altrui, che così diviene nostro), moltiplicando le nostre capacità di capire. Il 15 settembre del 1976 una seconda forte scossa costrinse donne e bambini di Chiusaforte a sfollare sulle coste adriatiche. Quando rientrarono nella primavera del 1977, in un concorso scolastico di composizione sull’idea del Ritorno, fu proprio il suo tema a vincere. In premio, oltre a un assegno, soprattutto un libro sulla storia del volo, la Guida agli aerei di tutto il mondo, mirabilmente illustrata con ogni sorta di modello di velivolo, che aggiunse nuove ali alla sua sete di spazi alti e illimitati. Aveva 10 anni. Dopo la licenza media, scelse l’Istituto Aeronautico a Udine. Nell’estate del 1982, quindicenne, mentre andava a fare il bagno lungo un fiume, il «mezzo bambino» che era ancora in lui lo spinse ad arrampicarsi su un ippocastano. Sistematosi su una sella naturale alla congiunzione fra i rami e il tronco, si abbandonò alla lettura di un grade capolavoro: il Moby Dick di Melville. «In cima a un albero, con un libro in mano, tu sei il nodo in cui si incrociano e si allacciano diverse forme di intimità. (…) In quella pancia di verde sei protetto da una segreta dolcezza: purché tu lo voglia, puoi vedere senza essere visto e le ore che scorrono veloci al di fuori di essa sono trucioli, diventano la segatura dei giorni». Ancora una volta dall’alto, installato nel «suo» cielo, su una macchina volante predisposta dalla natura. A 16 anni, fra le passioni e speranze che ogni ragazzo coltiva, Pierluigi nutriva anche quella della corsa: era un velocista (100 metri in 11 secondi e 4). Ma un pomeriggio accettò un passaggio in moto da un amico, la moto uscì di strada e si schiantò su una roccia. L’amico morì, Pierluigi riportò lesioni gravissime, che hanno trasformato la sua esistenza in un calvario ospedaliero, e l’hanno costretto per sempre su una sedia a rotelle. Il commento del medico accompagna la diagnosi con le parole delle condanne a vita: «Fine pena mai».

 

Un letto divenuto «tappeto volante»

Quando nel letto d’ospedale cominciò a riaffiorare all’esistenza, Pierluigi chiese che gli portassero Moby Dick. Il libro letto e «rivissuto» non molti mesi prima – dal cielo – comodamente seduto a cavalcioni di un ramo nel cuore dell’ippocastano che lo fasciava e cullava. In quel tempo felice e ancora spensierato, il fervore dei lavori di ricostruzione si era mescolato con le manovre navali degli uomini di Achab, che lui contemplava e riviveva dal suo «albero maestro», rievocato nella foto di copertina. In ospedale, ricominciò da lì, e racconta come le posizioni che, leggendo ora a letto, era costretto ad assumere lo aiutarono a riprendere contatto con il suo corpo, con le parti ora rimaste insensibili per i danni riportati. Avrebbe da ora volato solo più con la fantasia: ma ha avuto il coraggio di affermare che, con il tempo, anche il letto è divenuto per lui «un tappeto volante». C’è una delicata foto di quei giorni, che lo ritrae assorto, nel suo letto, con le pagine del libro aperte davanti. È un giovane molto bello, tranquillo, che nessuno – da fuori – direbbe mai che stia vivendo una tra le esperienze più difficili che a un uomo possa avvenire di vivere. Il suo enorme cuore ha saputo «incassare» e trasformare la disgrazia in nuovo valore. Questa maturazione si è poi tradotta in poesia, sempre più nitida e profonda. L’editore Rizzoli ha fatto di lui uno dei propri autori più significativi, e nel suo catalogo oltre al «romanzo» Questa libertà e ai saggi di Il dio del mare, si possono trovare ora tutte le sue poesie «riconosciute»: la silloge che egli stesso curò nel 2013 con il titolo di Azzurro elementare – ancora il cielo, dopo la raccolta intitolata Assetto di volo  – e le ultime poesie che con caparbia volontà ha strappato a condizioni sempre più impervie negli anni scorsi: sono uscite sotto il Natale del 2016 con il titolo Stato di quiete (in appendice, l’accurata bibliografia delle sue opere e degli interventi critici che lo riguardano, curata dalla sempre generosa, splendida Anna De Simone).

Per questo piccolo libro di stupefacente nitidezza – in cui spiccano testi come il ricordato Colore, che potrebbero essere rubricati fra le più belle poesie della letteratura italiana – vorrei ripetere le parole che lui stesso mi scrisse nell’aprile 2002 a proposito del precedente Dentro Gerico (anch’esso ora riassorbito in Azzurro elementare), in una delle prime lettere che mi indirizzò dopo che, come scrive in un’altra sua lettera (del giugno di quell’anno), «ci eravamo riconosciuti»: «(…) vedrai, è un libro necessario: aria strappata centimetro per centimetro al vuoto».

 

Fra movimento e immobilità

Lodevole impresa, quella di Francesca Archibugi, aver voluto a sua volta salvare questa vicenda con i mezzi del cinema nel suo film del 2013 (in commercio come DVD) Parole povere. Fra le testimonianze di vari amici di Pierluigi, il poeta Gianmario Villalta racconta di avergli più volte sentito affermare di sentirsi fortunato, che alla fine quell’incidente poteva considerarsi anche una provvida sventura: e che, nonostante il molto tempo investito nel puro e semplice tentativo di sopravvivere, era riuscito a combinare comunque qualcosa.

A presentarmi Pierluigi è stato, in qualche modo, il poeta tardolatino che ha dirottato sui classici il mio viaggio personale: Rutilio Namaziano. Dopo una conferenza sul suo poemetto Il ritorno, il giovane studioso Maurizio Zuliani mi segnalò che un poeta friulano aveva scritto un acrostico su Rutilio. Infatti, nella sua raccolta La misura dell’erba, Pierluigi studia già il tema (poi cruciale nelle sue poesie, e forse non sempre in piena consapevolezza) del conflitto fra movimento e immobilità, scegliendo a suoi campioni Rutilio Namaziano, cioè un poeta che «parte» e vorrebbe restare, e Umberto Saba, che invece è un poeta che «resta», con nostalgia e quasi ansia del partire. Così cercai un contatto, e conobbi sia Pierluigi (all’epoca ricoverato per una lunga degenza nell’ennesimo dei suoi tanti ospedali), sia Anna De Simone, l’autentico angelo che lo ha seguito e aiutato in tutti questi anni nel suo itinerario di artista. Dei molti momenti che ci hanno legato vorrei ricordare qui quello forse più toccante, quello in cui ho potuto vedere «in diretta» l’amico nell’istante in cui si accendeva una delle sue più grandi felicità. Nell’agosto del 2010 Pierluigi figurava nella cinquina finale del Premio Viareggio con la bellissima silloge pubblicata nelle eleganti edizioni del nobile amico Nicola Crocetti Mandate a dire all’imperatore. Anche questa era stata una raccolta d’«aria strappata centimetro per centimetro al vuoto». Pierluigi viveva allora a Tricesimo in una delle baracche di legno offerte dal governo austriaco ai terremotati. I suoi più cari amici sanno bene come, di tanto in tanto, lui telefonasse a ognuno di loro per leggergli una nuova poesia di quelle che, centimetro per centimetro, conquistavano lo spazio di una nuova silloge. Durante una di queste telefonate di pura poesia, mi confidò che ormai la sua vecchia casetta imbarcava acqua e spifferi, ed era esposta agli attacchi dei topi. Ma di tentare cambiamenti non se ne parlava: ora non poteva provvedere perché – se si fosse distratto per occuparsi di quei pochi «metri crudi» –, avrebbe, lo sentiva, «perso il libro».

La Commissione giudicatrice per l’edizione 2010 del «Premio Viareggio» si sarebbe riunita a designare il «supervincitore» di ciascuna sezione solo il 26 agosto, cioè il giorno immediatamente precedente a quello in cui l’esito sarebbe stato reso noto in conferenza stampa, e si sarebbe tenuta quindi, in serata, la Premiazione. Le condizioni di salute di Pierluigi non gli permettevano quasi di affrontare alcun viaggio, figuriamoci un viaggio tanto lungo come quello da Tricesimo, dove viveva, a Viareggio. Non era quasi pensabile tentarlo, nemmeno in caso di definitiva vittoria, e comunque non in un’unica soluzione. Avventurarsi comunque, pur senza alcuna incertezza? Pierluigi decise di rischiare e di suddividere la spedizione in due tappe. Con l’aiuto di una squadra di amici generosi, organizzò una sorta di ambulanza, in cui viaggiava sdraiato, e, quella famosa vigilia, fece tappa in un Motel sull’autostrada, nei pressi di Bologna. Se lì avesse appreso la notizia della vittoria, l’intera compagnia avrebbe proseguito la mattina seguente per Viareggio. Altrimenti, sarebbero rientrati tutti a Tricesimo. Da Siena, dove vivo, io lo raggiunsi in quel Motel. E quando uno dei giurati telefonò – era Mario Graziano Parri, che si era molto battuto per lui, ed era particolarmente in ansia, sapendo di un simile viaggio –, capitò proprio a me di ricevere la chiamata e di vivere con Pierluigi quel momento (che ho potuto fermare in una fotografia che lo coglie stanco e provato in un letto). Il giorno dopo eravamo a Viareggio.

 

Affabile, brillante e allo stesso tempo umile

In una delle foto della conferenza stampa, nel cielo dietro di lui si libra un aquilone. Pierluigi era bello, affabile, brillante, e allo stesso tempo umile – e vero poeta. Fino dalle sue prime prove, la cultura italiana ne ha riconosciuto la statura: fra i vari altri, ha ricevuto i premi «Bagutta», «Montale», «Pisa», il Superpremio San Pellegrino 2007, il Premio Speciale della Giuria «Lagoverde 2010», il «Viareggio-Rèpaci», il Premio «Vittorio De Sica 2012» (consegnatogli dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 6 novembre 2012), il Premio «Maria Teresa Messori Roncaglia ed Eugenio Mari» dell’Accademia dei Lincei, il Premio letterario internazionale «Terzani» ex aequo con Mohsin Hamid (2014). Nel 2013 ha ricevuto dall’Università di Udine la laurea in Lettere honoris causa in Scienze della Formazione (27 settembre), e la cittadinanza onoraria dalle città di Udine (5 dicembre) e di Tarcento (13 dicembre). Così poesia e letteratura hanno ricompensato Cappello per lo spirito quasi religioso con cui si è avvicinato ai loro meravigliosi segreti, per il rispetto con cui trattava anche i libri falliti che gli giungevano in lettura: «(…) dietro questi non-libri, rimane la potenza del gesto di chi li ha scritti; uomini e donne che, come me, magari avranno impiegato anni per mettere insieme cinquanta poesie, che avranno mobilitato l’intero ventaglio delle proprie risorse – non importa quanto inadeguate – nel tentativo di consegnare al mondo l’incantesimo della scrittura riuscita». Una delle tante sue bellissime poesie, (da Mandate a dire all’imperatore) recupera tutta la sua gentile proiezione verso le figure amate, da quella distanza che spesso impone la vita (e tanto più a chi ha conosciuto deprivazioni di libertà quali quelle con cui Pierluigi ha dovuto sempre misurarsi):

 

Da lontano

Qualche volta, piano piano, quando la notte

si raccoglie sulle nostre fronti e si riempie di silenzio

e non c’è più posto per le parole

e a poco a poco ci si raddensa una dolcezza intorno

come una perla intorno al singolo grano di sabbia,

una lettera alla volta pronunciamo un nome amato

per comporre la sua figura; allora la notte diventa cielo

nella nostra bocca, e il nome amato un pane caldo, spezzato.

 

«Io appartenevo al cielo»

I suoi ultimi anni sono stati allietati dalla nascita della nipotina Chiara. Per lei, e quasi a seguito di una giocosa «commissione» della bambina, ha dato vita a una collezione di trentatré poesie per l’infanzia: Ogni goccia balla il tango. Nella loro apparente semplicità, queste liriche aeree fanno leva su tutti i minuscoli segreti dell’arte poetica, dal mettere in posa un qualunque aspetto della vita per ritrarlo con delicatezza sotto un nuovo sguardo, fino alle musiche dei puri intrecci di suoni. Molti sono i ritratti di animali. E una volta di più si tratta, in grande maggioranza, di animali deputati al volo, insetti o uccelli pronti a librarsi da ogni angolo delle pagine. L’ho già ricordato, il destino è fermato in una pagina di Questa libertà: «Io appartenevo al cielo». L’ultima poesia dell’ultima raccolta, Stato di quiete, è una breve lirica separata da un foglio bianco, e presentata senza alcun titolo, in corsivo. In qualche modo racchiude tutta la sua sensibilità: la vicinanza alla natura e ai giochi infantili, la fede nelle parole, e nei loro riti, che fasciano il cuore più intimo e prezioso di ogni nostra realtà:

 

Costruire una capanna

di sassi, rami, foglie

un cuore di parole

qui, lontani dal mondo.