L’ACCORDO DI PARIGI E I SUOI NEMICI

di Simone Siliani

 

L’Accordo di Parigi sul Clima del 2015 è messo fortemente in discussione dalla politica degli Stati Uniti che, dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca, hanno deciso di uscirne. Inoltre, va considerato che la lobby del carbone è assai potente a livello planetario e che l’obiettivo della progressiva decarbonizzazione dell’economia è reso difficile da raggiungere per la grande quantità di investimenti, palesi o occulti, nel settore. Investimenti che pongono in evidenza il ruolo della finanza e delle banche, nonché la scarsa incidenza delle politiche governative, laddove esistenti, nella regolamentazione della materia. Eppure, questo è il nodo strategico da affrontare se si vuole ridurre drasticamente l’emissione di CO2 nell’atmosfera e quindi dare un futuro respirabile al nostro pianeta.

 

America first!

 

«Al fine di adempiere al mio dovere di proteggere l’America e i suoi cittadini, gli Stati Uniti usciranno dall’Accordo di Parigi sul Clima. Ma inizieremo negoziati per rientrare nell’Accordo o per uno completamente nuovo in termini che siano equi per gli interessi economici degli Stati Uniti, per i suoi lavoratori, la sua gente, i suoi contribuenti: quindi usciamo, ma intendiamo riprendere i negoziati per un accordo che sia giusto». Con queste parole il presidente Donald Trump annunciò il primo giugno 2017 l’intenzione degli Stati Uniti di abbandonare il processo avviato con l’Accordo di Parigi del 2015 sui cambiamenti climatici 1. Quell’accordo, sviluppo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC), fu voluto fortemente dal suo predecessore Barack Obama, inteso anche come terreno di una nuova collaborazione con la Cina, che insieme agli USA, è il maggior emettitore di biossido di carbonio (Cina 29,5%, USA 14,3%, nel 2015). E certamente esso si inscriveva in un quadro di nuovo multilateralismo nei rapporti fra gli stati di fronte ad un problema che evidentemente non può essere risolto all’interno dei confini politici dei singoli stati né evitato per il semplice fatto di non partecipare ad un accordo internazionale. La posizione degli Stati Uniti di Trump, coerente con il suo slogan elettorale America first!, è apparsa alla maggior parte degli attori internazionali incongrua e certamente è diventato il centro dell’attenzione della seconda Conferenza delle Parti della Convenzione svoltasi a Bonn nel novembre 2017, sotto la presidenza delle Isole Fiji. La Conferenza ha segnato molti elementi di interesse, fra i quali la posizione quasi schizofrenica degli Stati Uniti (che, con l’annuncio dell’adesione all’Accordo della Siria, rimane l’unico Paese al mondo che ha deciso di uscire dall’Accordo). Infatti, a Bonn la delegazione ufficiale USA – composta per lo più dagli stessi funzionari degli anni di Obama – ha mantenuto un low profile, salvo la presenza (contestata) del consigliere di Trump, George David Banks, che ha dichiarato come la priorità degli USA alla Conferenza fosse contrastare la «differenziazione»  (in alcuni casi chiamata «biforcazione») fra i paesi industrializzati e gli altri. Ma si è altresì palesata una delegazione «alternativa» degli USA, We are still in («Siamo ancora dentro») con un proprio stand, composta da attori non governativi che andavano dall’ex sindaco di New York Michael Bloomberg al Governatore della California Jerry Brown, con l’intento di dimostrare quanto vasto sia su questo punto il fronte anti-Trump. In effetti, vale la pena notare che il nome della delegazione alternativa è alquanto significativo perché, per effetto dell’art. 28 dell’Accordo di Parigi, non è possibile per un singolo Stato denunciare l’Accordo (e i suoi impegni vincolanti) prima di tre anni dall’entrata in vigore dell’Accordo nel Paese; e tale denuncia ha «(…) effetto dopo un anno a decorrere dalla data in cui il Depositario ha ricevuto notifica della denuncia». Ora, l’Accordo di Parigi è entrato in vigore negli Stati Uniti il 4 novembre 2016 2, e l’8 novembre Trump è stato eletto presidente. Gli Stati Uniti avevano firmato l’accordo il 21 aprile 2016 e lo avevano «accettato» attraverso un ordine esecutivo del presidente Obama: ciò è stato possibile in virtù del fatto che l’Accordo di Parigi si era configurato come un «accordo esecutivo» e non come un «trattato vincolante», tanto che gli obiettivi di riduzione delle emissioni venivano negoziati da ogni singolo Stato ed erano ad adesione volontaria. Così l’Accordo non ha avuto bisogno della ratifica da parte del Congresso degli Stati Uniti, all’epoca nelle mani di una maggioranza repubblicana. Il presidente Trump, da sempre contrario all’Accordo in quanto a sua detta lesivo degli interessi dei lavoratori e dell’economia americana 3, aveva sostenuto l’industria del carbone negli swing States, gli Stati che cambiano spesso maggioranza nelle elezioni e che sono stati decisivi per la sua elezione, e nei primi mesi della sua presidenza aveva rovesciato, con un ordine esecutivo, il Clean Power Plan (il Piano per l’energia pulita) di Barack Obama. Nei primi mesi del 2017, oltre ad un appello di 20 europarlamentari di destra (da Alternative für Deutschland a Ukip), Trump era stato pressato da un gruppo di 22 senatori repubblicani, eletti negli Stati la cui strategia energetica dipende da fonti fossili (carbone, petrolio e gas) e che avevano collettivamente ricevuto oltre 10 milioni di Dollari per le proprie campagne elettorali dalle compagnie petrolifere e del carbone nelle ultime tre tornate elettorali. A questa autorevole lobby del carbone si era opposta una lobby a favore dell’Accordo sui cambiamenti climatici con una lettera di un gruppo di 40 senatori democratici che chiedevano che gli USA rimanessero nell’Accordo. Lo stesso Gabinetto di Trump rifletteva su queste divisioni con il segretario di Stato per l’Energia Rick Perry e il segretario di Stato Rex Tillerson, favorevoli a rimanere nell’Accordo, e il direttore dell’EPA (l’Agenzia per l’Ambiente) Scott Pruitt e i consiglieri Steve Bannon e Don McGahn, decisamente contrari. Trump aveva già manifestato la sua contrarietà all’accordo durante il G7 del maggio 2017 (in cui si era registrato l’isolamento degli USA e la crisi nei rapporti con la cancelliera Merkel). Fino all’annuncio dell’1 giugno 2017 e la successiva formale denuncia dell’Accordo del 4 agosto 2017, in base al quale gli Stati Uniti saranno formalmente fuori dal processo di Parigi il 4 novembre 2020, quattro anni dopo l’entrata in vigore dell’Accordo e, significativamente, il giorno dopo l’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti.

 

«Decarbonizzare» è possibile?

 

Ora, il punto centrale del cambio di politica degli Stati Uniti nei riguardi dei cambiamenti climatici e che, in fondo, ci porta al cuore stesso della sfida che essi pongono all’umanità, risiede nelle fonti energetiche su cui si intende poggiare lo sviluppo stesso del pianeta. E ancora più precisamente il punto decisivo (eppure controverso) dell’Accordo di Parigi non è tanto il sostegno e lo sviluppo delle energie rinnovabili (che sta seguendo una sua evoluzione positiva, spinta anche dall’andamento dei costi sempre più competitivi degli impianti e degli approvvigionamenti) e forse neppure le strategie di mitigazione e adeguamento (che pure assorbono molta parte degli articoli dell’Accordo e degli impegni assunti in tale sede), bensì la strategia di «decarbonizzazione», cioè di uscita e di disinvestimento da questo settore. Che non è soltanto strettamente energetico, ma che riguarda il settore dei trasporti, una filiera assai complessa e ramificata e che riguarda una fetta assai rilevante della finanza mondiale. Inoltre, questo settore produttivo investe la questione dei rapporti fra paesi sviluppati (che dipendono ancora molto da questa fonte energetica e che hanno le maggiori responsabilità in termini di emissioni di gas serra) e paesi in via di sviluppo (che detengono nel proprio sottosuolo la gran parte delle riserve di carbone, gas e petrolio, il cui sfruttamento determina conflitti sociali, danni ambientali e corruzione della classe politica 4), su cui molto si è concentrato l’Accordo di Parigi e le successive conferenze di implementazione (COP22 in Marocco nel 2016 e COP23 a Bonn nel 2017).

Non che le energie da fonti rinnovabili (solare, eolica, geotermica, idroelettrica, marina, biomasse) non siano in grado di dare un contributo importante alla lotta ai cambiamenti climatici. Al contrario, il contributo che da queste energie, in vorticoso sviluppo negli ultimi anni, sta venendo è di assoluto rilievo. Una coalizione sostenuta dal programma nelle Nazioni Unite per l’Ambiente e dal governo norvegese, The 1 Gigaton Coalition,  ha recentemente reso pubblico il suo terzo Rapporto Renewable Energy and Energy Efficiency in Developing Countries: Contributions to Reducing Global Emissions 5, mette in evidenza come progetti su energie rinnovabili ed efficientamento energetico nei paesi in via di sviluppo, supportati da finanziamenti internazionali  fra il 2005 e il 2016, possano portare ad una riduzione di 0,6 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio equivalente immesse nell’atmosfera, rispetto a quanto previsto per il 2020. L’utilizzo di specifici fondi internazionali, come il Green Climate Fund 6, potrebbe far salire tale quota a 1,4 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2. Pensiamo che una Gigatonnellata di CO2 è quanto emette in un anno l’intero sistema di trasporti (inclusa l’aviazione) dell’Unione Europea. Dunque, una riduzione fra 0,6 e 1,4 grazie alle energie rinnovabili e all’efficientamento energetico non sono affatto numeri insignificanti, se pensiamo che il recente Rapporto delle Nazioni Unite sul gap di emissioni in atmosfera (Environment’s Emissions Gap Report 2017) prevede che siano necessari tagli fra gli 11 e i 13,5 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti entro il 2030 per poter stare dentro l’obiettivo di contenimento entro i 2°C dell’aumento di temperatura media globale rispetto ai livelli pre-industriali stabilito dall’Accordo di Parigi. Senza contare che le energie rinnovabili e l’efficientamento energetico portano anche altri benefici in termini di miglioramento delle condizioni ambientali e della salute umana, di stimoli economici e di creazione di nuovi posti di lavoro, di crescita di autonomia energetica delle comunità locali e dunque di integrazione sociale nei paesi in via di sviluppo. È anche vero che lo sviluppo delle energie rinnovabili rappresenta un contributo alla più complessiva «decarbonizzazione» della società, in quanto libera risorse e qualifica l’ambiente in aree critiche.

 

The Emissions Gap Report 2017

 

Tuttavia, appare evidente come la grande partita per tentare di raggiungere gli obiettivi di contenimento della crescita media delle temperature globali, si gioca sul terreno della riduzione dell’utilizzo dei combustibili fossili, dell’intera e complessa filiera del carbone prima di tutto, i maggiori responsabili dell’immissione di gas serra in atmosfera. Si evidenzia così il legame stretto che esiste fra la qualità dell’aria e lo sfruttamento del suolo e del sottosuolo, sotteso al titolo stesso del dossier di questo volume di «Testimonianze». The Emissions Gap Report 2017 del programma Ambiente delle Nazioni Unite, il cui obiettivo generale è di ridurre l’impronta del carbone sul pianeta, presenta dei dati scoraggianti circa i progressi fatti (o non fatti) fin qui dalla lotta ai cambiamenti climatici, ma allo stesso tempo individua chiaramente gli obiettivi e i punti critici da affrontare, con urgenza, nei prossimi anni.

Gli strumenti privilegiati attraverso cui l’Accordo di Parigi si proponeva di raggiungere gli obiettivi di contenimento degli incrementi della temperatura in un range fra 1,5°C e 2°C rispetto ai livelli preindustriali erano i National Determined Contribution (NDC), cioè i contributi determinati a livello nazionale di emissioni negoziati fra i singoli stati e il Segretariato, e dagli stati volontariamente perseguiti. Per raggiungere questi obiettivi, i singoli stati devono perseguire delle misure di mitigazione (art. 4 par. 2); gli stati sviluppati devono prefissare degli obiettivi assoluti di riduzione delle emissioni in tutti i settori dell’economia (art. 4 par. 4) e devono comunicarli ogni cinque anni (art. 4 par. 9), in modo chiaro, trasparente e comprensibile, conformemente alle modalità e decisioni assunte dalla Conferenza delle Parti (art. 4 par. 8). Ebbene, il Rapporto 2017 dimostra che questi contributi, determinati a livello nazionale, coprono soltanto un terzo delle riduzioni delle emissioni necessarie per stare dentro all’obiettivo di 1,5/2°C: questo gap fra le riduzioni necessarie e gli impegni assunti dagli stati è troppo alto. Se questo gap non sarà coperto entro il 2030 sarà altamente improbabile raggiungere l’obiettivo. E se anche tutti gli obiettivi degli NDC fossero raggiunti, l’80% del budget carbonio per tenere le temperature medie globali sotto i 2°C sarà esaurito entro il 2030. Il gap potrebbe essere chiuso entro il 2030, dice il Rapporto, riducendo fra i 30 e i 40 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti all’anno, con costi al di sotto dei 100 $ per tonnellata di CO2 equivalente. La maggior parte di queste riduzioni possono provenire da 6 settori, in cui le tecnologie sono disponibili e altamente standardizzate: energia solare ed eolica, efficientamento delle apparecchiature, efficientamento delle auto, forestazione e fine della deforestazione. Questi 6 settori combinati possono portare ad una riduzione di 22 miliardi di tonnellate di CO2 per anno. Una riduzione fra i 4 e i 12 miliardi di tonnellate potrebbe provenire da nuove tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 già immessa in atmosfera, attraverso la gestione del suolo (che, quindi, non dovrebbe essere né cementificato né destinato all’allevamento intensivo, come attualmente avviene). Altri contributi possono venire dalla riduzione di inquinanti atmosferici di breve durata che agiscono sul riscaldamento a breve termine che, tuttavia, combinato con la CO2 può avere un ruolo non banale.

Ma il Rapporto si sofferma, in modo dettagliato, su come incentivare la transizione dal carbone, il cuore della strategia di Parigi. Il Rapporto dimostra come la transizione fuori dal carbone potrebbe avvenire abbastanza velocemente, a condizione che una forte volontà politica ed economica la sorregga con dei seri incentivi. Allo stesso tempo offre delle indicazioni per gestire le ricadute sociali ed energetiche della transizione; ma se queste ricadute non saranno affrontate fin dalle fasi iniziali della transizione, i ritardi potranno essere esiziali per l’intero processo. Le politiche dei governi sono di fondamentale importanza non solo per incentivare le innovazioni necessarie alla transizione, ma anche per mitigarne gli effetti avversi e garantirne l’accettabilità politica e sociale.

 

Finché durano i sussidi

 

Tuttavia è qui lo snodo vero per vincere la sfida dei cambiamenti climatici. Le emissioni dai combustibili fossili, dalla produzione di cemento e altri processi industriali alimentati dall’energia derivante dal carbone rappresentano il 70% di tutte le emissioni di gas serra che nel 2016 sono state stimate in 35,8 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti. Secondo il Rapporto queste emissioni sono rimaste più o meno stabili negli ultimi tre anni, invertendo così la tendenza alla crescita. Questo indicherebbe che si sta determinando un disaccoppiamento fra le emissioni di CO2 dovute a processi industriali ed energetici e la crescita economia in questi ultimi tre anni, in cui il PIL globale è cresciuto fra il 2% e il 3% annuo. I driver più importanti di questa tendenza sarebbero la riduzione della crescita del PIL nel settore del carbone dal 2011, soprattutto in Cina e USA, nonché la crescita delle energie rinnovabili, soprattutto in Cina e in India, combinata con una crescita dell’efficienza energetica e i cambiamenti strutturali dell’economia mondiale. Una tendenza, comunque, non assestata e che potrebbe essere rovesciata se il PIL riprenderà a crescere in modo più consistente. Ma, soprattutto – dice il Rapporto dell’ONU – se proseguiranno gli investimenti nelle tecnologie più tradizionali, in particolare quelle alimentate dal carbone. Il Rapporto spiega che, se si vogliono raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, occorre che fra l’80% e il 90% delle risorse carbonifere esistenti restino nel sottosuolo, il che equivale al 35% delle riserve petrolifere e al 50% di quelle di gas. Ma come ottenere questo risultato se una parte ancora così grande delle risorse finanziarie globali vanno ad alimentare la filiera del carbone?

Uno studio del 2013 pubblicato su «Science Direct» 7 mostra come i sussidi e i finanziamenti per i combustibili fossili rappresentano il 6,5% del PIL mondiale, oltre la metà di questi vanno alla filiera del carbone. In termini assoluti questi finanziamenti si concentrano in pochi paesi. Lo studio mostra inoltre come la riforma di questi sussidi e il loro reindirizzamento apporterebbero notevoli guadagni in termini fiscali, ambientali e sociali. 4.900 miliardi di Dollari nel 2013 e 5.300 nel 2015 (appunto il 6,5% del PIL mondiale in entrambi gli anni): il 22% di questi sussidi va a sovraccaricare i conteggi del riscaldamento globale, il 46% nell’inquinamento atmosferico, il 13% in altre esternalità del trasporto, l’11% in costi di servizio e l’8% in tasse dei consumatori. Ma chi sostiene l’industria dei combustibili fossili? La Cina per 1.800 miliardi di Dollari, gli Stati Uniti per 600 miliardi, e poi Russia, Unione Europea e India ciascuno per 300 miliardi. Eliminare questi sussidi avrebbe significato ridurre le emissioni di CO2 nel 2013 del 21% e le morti per inquinamento atmosferico causato da combustibili fossili del 55%; al tempo stesso avrebbe aumentato i ricavi dalle tasse del 4% e la quota di PIL destinato al welfare del 2,2%. Il fatto è che la maggior parte di questi costi correlati ai combustibili fossili sono nascosti, ma non per questo non si tratta di sussidi, cosa che fa dell’industria del carbone la più sostenuta del mondo. E, comunque, sono risorse sottratte ai settori ben più strategici per la lotta ai cambiamenti climatici delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. Perché allora questo sistema di sussidi non è stato cancellato e reindirizzato? In parte perché il pubblico non li percepisce come tali e comunque li considera indolori per la società. Gli autori dello studio citato spiegano correttamente cosa si debba intendere per sussidi: non soltanto dei finanziamenti diretti per i quali i consumatori pagano un prezzo che è inferiore al costo incorporato del prodotto stesso (in questo caso il combustibile fossile), ma anche (e soprattutto, diremmo) i costi ambientali come il riscaldamento globale o i decessi per inquinamento atmosferico e le tasse applicate al consumatore come fiscalità generale connessa. Solo contabilizzando anche questi costi si avrebbe la differenza reale fra il costo al consumatore e il prezzo economicamente efficiente del prodotto e scopriremmo che la filiera dei combustibili fossili è altamente inefficiente anche sotto il profilo finanziario. Proprio applicando questa contabilità, gli autori dello studio giungono alla conclusione di quanto costi al pubblico l’industria del carbone, salendo da uno 0,7% del PIL globale nel 2011 in una concezione ristretta dei sussidi, ad un 5,8% nel 2011 e ad un 6,5% del 2013-2015.

Dunque, sono due i messaggi sostanziali che emergono da questo studio: il primo è che i sussidi per l’industria dei combustibili fossili sono enormi e i costi sono sopportati dall’intera comunità; il secondo è che questi sussidi persistono anche perché noi non siamo in grado di apprezzarne veramente l’entità. Ma vi è un’altra forma attraverso la quale l’intera comunità sostiene l’industria e l’intera filiera dei combustibili fossili e del carbone, così dannosa per l’ambiente e minacciosa verso gli impegni assunti con l’Accordo di Parigi: il sostegno del sistema bancario e finanziario a questa industria, che si alimenta con i risparmi e gli investimenti di noi tutti.

 

Il ruolo della finanza

 

È una riflessione che possiamo trarre anche dall’Emissions Gap Report 2017 delle Nazioni Unite quando esso sottolinea come le 100 maggiori società di emissioni titoli del mondo valgono circa un quarto delle emissioni di gas serra globali. E ancora laddove sottolinea la necessità di evitare la realizzazione di nuovi impianti di produzione di energia alimentati a carbone e di accelerare il phasing out dagli impianti esistenti, naturalmente gestendo con attenzione i problemi occupazionali, gli interessi degli investitori e la stabilità del sistema. Sono oggi in funzione circa 6.683 impianti alimentati a carbone nel mondo, con una capacità complessiva di 1.964 GigaWatt: se questi impianti staranno in funzione fino alla fine della loro vita e non si doteranno di un sistema di cattura e stoccaggio del carbonio, essi emetteranno in atmosfera un accumulo di 190 miliardi di tonnellate di CO2. Agli inizi del 2017 erano in costruzione impianti alimentati a carbone per un’ulteriore potenza di 273 GigaWatt e 570 GigaWatt erano in fase di pre-costruzione: questi nuovi impianti potrebbero portare ad una ulteriore capacità di emissione di 150 miliardi di tonnellate di CO2. Dieci paesi concentrano su di sé circa l’85% dell’intera filiera del carbone: Cina, India, Turchia, Indonesia, Vietnam, Giappone, Egitto, Bangladesh, Pakistan e Corea.

E come pensiamo che le aziende possano costruire impianti così costosi in fase di realizzazione e gestione se non facendo ricorso alla finanza, sia quella diretta attraverso il credito, sia quella che si materializza attraverso i fondi azionari che investono in queste imprese? La finanza si muove con i nostri soldi, ma senza che noi ne siamo del tutto consapevoli.

Un recente studio realizzato da «Rainforest Action Network», «Banktrack», «Sierra Club» e «Oilchange» (fra le maggiori ONG ambientaliste del mondo) ha analizzato l’impatto dell’attività bancaria e finanziaria sulle imprese della filiera del carbone e, dunque, sui cambiamenti climatici 8. Lo studio si concentra sul settore a maggiore intensità di carbone, più finanziariamente rischioso e ambientalmente distruttivo nell’ambito dell’industria dei combustibili fossili: quello del «petrolio estremo» (sabbie bituminose, Artico e petrolio nelle profondità marine), dell’estrazione del carbone, della produzione di energia dal carbone e quello dell’esportazione  del gas naturale liquefatto (LNG). Vengono analizzate le politiche finanziarie verso l’industria dei combustibili fossili di 37 fra le maggiori banche private in Europa, Stati Uniti, Canada, Giappone, Cina e Australia. La figura che ne emerge rappresenta la somma complessiva di quanto le banche finanziano nel settore del «carbone estremo» e delle sue infrastrutture attraverso i loro maggiori clienti. La lista delle imprese di questo settore «estremo» si compone così: le 61 società con oltre 100 milioni di barili di petrolio di riserve nelle sabbie bituminose o estratte nell’Artico, o con oltre 500 milioni di barili di petrolio di riserve estratte nelle profondità marine di tutto il mondo; le 40 maggiori società di estrazioni di carbone calcolate in base all’estrazione annuale; le 10 maggiori società per MegaWatt prodotti in impianti di produzione d’energia alimentati a carbone nelle Americhe, le 10 maggiori in Europa, in Medio Oriente e in Africa, e le 10 maggiori di Asia e Oceania; le 27 maggiori imprese con oltre 1,5 miliardi di piedi cubici al giorno di gas naturale liquefatto di capacità produttiva o programmata esportato in Nord America. Le banche oggetto della ricerca hanno finanziato il settore per 92 miliardi di Dollari nel 2014, per 111 miliardi nel

2015 e per 87 miliardi nel 2016: oltre 290 miliardi di Dollari di finanziamenti nel settore più negativo per i cambiamenti climatici. Particolarmente attive nel settore del «petrolio estremo» la JPMorgan Chase (48,67 miliardi di Dollari nel petrolio marino) e la Royal Bank of Canada (47,78 miliardi di dollari nelle sabbie bituminose), ma non scherza neppure la Deutsche Bank con 9,1 miliardi di investimenti. Nelle miniere di carbone invece primeggia la Bank of China e le altre tre maggiori banche cinesi, e fra le banche europee sempre in testa la tedesca Deutsche Bank, in un settore che raccoglie 57,92 miliardi in tre anni. Il settore degli impianti energetici a carbone conosce un nuovo revival, nonostante l’impegno dell’ONU e dei paesi membri contro i cambiamenti climatici e raccoglie nel triennio 74,71 miliardi di Dollari di investimenti soprattutto dalle banche cinesi e, di nuovo, dalla JPMorgan Chase. La quale pure la fa da padrona nel settore del gas liquefatto che, comunque, raccoglie 51,61 miliardi di finanziamenti in tre anni. Sono le maggiori banche del mondo, legate ai governi, spesso direttamente o comunque attraverso gli enormi flussi di denaro pubblico che è giunto loro per le operazioni di salvataggio di cui hanno beneficiato nel corso degli anni della crisi; quegli stessi governi che firmavano l’Accordo di Parigi.

D’altra parte è anche vero che non sono pochi gli istituti finanziari che si sono resi protagonisti di operazioni di greenwashing, dichiarando di finanziare fondi sostenibili e in linea con gli obiettivi di Parigi, senza tuttavia darsi una policy complessiva (e non relegata nel solo fondo sostenibile) che escluda il finanziamento dell’intera filiera del carbone o dei combustibili fossili. È il caso della francese BNP Paribas, che pure ha siglato un accordo con le Nazioni Unite e ha dichiarato di voler uscire dal «petrolio estremo», ma che ad oggi figura nel rapporto sopra citato al 15° posto con 7,8 miliardi di finanziamenti nel triennio.

 

La mano sinistra e la mano destra delle banche

 

Tuttavia, si registra una tendenza di alcune banche a porsi, quanto meno, il problema anche se, mentre con la mano sinistra si dichiarano a favore della finanza sostenibile, con la mano destra continuano a finanziare il settore. Che è molto ramificato e complesso da analizzare. Lo ha fatto di recente la tedesca «Urgewald», prestigiosa organizzazione ambientalista, che ha lanciato in occasione della Conferenza COP23 a Bonn, il più completo strumento per il disinvestimento dal carbone ad oggi esistente. Si tratta di una Global Coal Exit List, un database delle società che partecipano alla filiera del «carbone caldo» che copre oltre 770 imprese impegnate nel settore (mentre le precedenti liste per il disinvestimento arrivavano ad analizzare solo fino ad un centinaio di società), dall’estrazione all’esplorazione, dal commercio al trasporto, dalla gestione di impianti di produzione energetica alimentati a carbone alla loro costruzione 9. La lista si configura come uno strumento utile al settore finanziario per decidere di disinvestire veramente dal settore, ma anche come un utile strumento per i cittadini, le ONG e le organizzazioni ambientaliste che vogliono svolgere un’azione di engagement verso le aziende coinvolte nel settore per spingerle ad uscire o per informare i cittadini che investono i loro risparmi nei fondi finanziari che hanno nel loro portafoglio società che fanno parte di questa lista. Le campagne per il disinvestimento dei risparmi dei cittadini o dei fondi delle finanziarie dalle società implicate in qualche maniera in attività che contrastano l’impegno contro i cambiamenti climatici, si sono intensificate negli ultimi anni. In Italia, dove vi è un tradizionale ritardo su questi temi rispetto ad altri paesi del Nord Europa o dell’America, queste campagne stanno conoscendo una fase di sviluppo, anche grazie all’attività dei movimenti di base del mondo cattolico stimolati dalla enciclica di papa Francesco, Laudato si’. Ma anche grazie all’attività ormai pluridecennale di realtà di finanza etica come le MAG prima e poi Banca Popolare Etica ed Etica sgr che, programmaticamente,  adottano quali criteri di esclusione dei propri investimenti proprio il settore del carbone, del petrolio, del gas che contribuiscono, in varia misura, al riscaldamento globale. La Global Coal Exit List di «Urgewald» sarà un ulteriore strumento per affinare ancora di più la policy di questi soggetti e far crescere la consapevolezza dei risparmiatori. I quali possono, con questo tipo di strumenti, chiedere conto alle banche dove depositano i propri risparmi, se e in quale misura esse usino i loro soldi per finanziare asset nel settore del carbone o dei combustibili fossili e, nel caso, disinvestire i propri risparmi. Non si tratta soltanto di questioni etico-morali, ma anche di un oculato impiego del denaro: infatti, i cambiamenti climatici minacciano anche la stabilità e la performance finanziaria dei soldi investiti in queste società, anche per i rischi connessi ai mutamenti della legislazione, delle tecnologie e degli equilibri finanziari di queste imprese, che possono essere facilmente messe fuori mercato dalle politiche che tendono a facilitare un’economia low-carbon. Le banche sono particolarmente esposte a questi rischi per l’ampiezza dello spettro dei loro investimenti, ma anche per la commistione nei fondi da loro gestiti di titoli ad alta intensità di carbone con quelli più low carbon.

Per questo alcune banche, anche fra le maggiori, stanno iniziando a diversificare la propria policy di investimenti. Uno studio della inglese «ShareAction» ha messo a confronto le scelte di investimento delle 15 maggiori banche sistemiche europee sotto il profilo della sostenibilità, dal quale la BNP Paribas è risultata la prima per quanto riguarda il suo impegno sui temi dei cambiamenti climatici. In generale le tre banche francesi considerate (Crèdit Agricole e Societé Generale, oltre a BNP) si collocano nelle prime 5 posizioni. UniCredit, l’unica italiana del gruppo, si colloca al penultimo posto 10.

 

Politiche ambigue

 

È interessante notare come tutte le banche oggetto della ricerca abbiano dichiarato di essere consapevoli e di considerare le questioni del cambiamento climatico nelle loro politiche; alcune di loro hanno presentato anche delle buone pratiche rivolte a sostenere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi (prodotti finanziari low-carbon) e altre hanno dichiarato di aver adottato delle policy che limitano l’esposizione della banca ai rischi finanziari derivanti dall’investimento in settori con un impatto ambientale negativo (ad es. l’estrazione di carbone). Le tre banche francesi hanno citato la legislazione francese che le ha spinte ad adottare politiche positive nei confronti dei cambiamenti climatici (in particolare la legge del 2015 per la Transizione Energetica verso una Crescita Verde 11). Il che fa pensare che la nuova SEN (Strategia Energetica Nazionale) del Governo italiano, così come la Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile 2017-2030 o il Piano Nazionale di Adattamento ai cambiamenti climatici, non abbiano avuto per ora lo stesso effetto sulle banche italiane. In ogni caso, lo stesso rapporto di «ShareAction» mostra come tanta strada vi sia ancora da fare nel settore finanziario per incontrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, dal momento che anche la banca risultata prima, BPN Paribas, ottiene solo 107 punti dei 162 disponibili e realizza solo il 66% delle azioni ritenute necessarie per assumere pienamente la questione dei rischi climatici nelle proprie strategie finanziarie e contribuire effettivamente ad una transizione verso un futuro low-carbon. Ancora peggio, la media delle banche analizzate porta a 68,5 punti su 162, circa il 42% delle azioni possibili. Il Rapporto evidenzia tre aree critiche: la mancanza della necessaria trasparenza circa i rischi collegati agli investimenti nel settore ad alta intensità di carbone. Le banche non sono state in grado o non hanno voluto dichiarare la percentuale di investimenti low-carbon sull’insieme degli investimenti. Ad esempio, l’inglese HSBC ha dichiarato di aver dedicato 100 miliardi di Dollari in otto anni ad investimenti lowcarbon, ma un investimento annuale di 12,5 miliardi in questo settore a fronte di un investimento complessivo annuale pari a 2.750 miliardi appare ben poca cosa. Inoltre il Rapporto segnala che le politiche della maggior parte delle banche considerate su carbone, petrolio & gas e forestazione non sono allineate con gli impegni dell’Accordo di Parigi. Per esempio sul carbone, in alcune banche l’esclusione dell’investimento nel settore si riferisce soltanto ai nuovi clienti, a certe intensità di emissioni e in alcuni casi vi erano dei buchi nelle politiche di investimento verso i paesi in via di sviluppo. Ma questo del carbone, soprattutto in Europa, è diventato un settore ad alto rischio di investimento sul quale le banche, per proteggere gli investimenti dei loro clienti, dovrebbero adottare politiche ben più incisive e rapide. Infine, il Rapporto evidenzia che le policies delle banche sono carenti in termini di chiarezza di obiettivi, tempistica e dettagli di fronte alle richieste dei clienti sotto questi profili: non saprebbero (o non vorrebbero) rispondere chiaramente se i clienti facessero le domande necessarie per capire dove e come esse stanno investendo i loro risparmi in relazione agli obiettivi di Parigi. Ma forse qui vi sarebbe spazio per il legislatore, nazionale o europeo (il quale spesso interviene in ordine alla trasparenza bancaria per evitare i rischi di crisi, come ha fatto con il discusso Basilea III, il Basel Committee on Banking Supervision della BIS (LINK) per rafforzare la regolazione, supervisione e gestione dei rischi nel settore bancario e finanziario) per obbligare le banche ad illustrare chiaramente al cliente il proprio impegno rispetto all’obiettivo dell’inferiore ai 2°C nelle proposte di investimento e ai rischi connessi alle questioni climatiche nei prodotti finanziari proposti al cliente. Gli azionisti, gli investitori retail, i clienti dovrebbero chiedere alle proprie banche o società di gestione di fondi di chiarire bene quale sia l’analisi dello scenario di sviluppo dei prodotti proposti, dichiarare in quale percentuale gli investimenti proposti sono da ascriversi al settore low-carbon e quali a quello high-carbon; rafforzare le proprie politiche di esclusione o di limitazione verso il settore del carbone, petrolio & gas; descrivere nei contratti le proprie politiche per contribuire al raggiungimento dell’obiettivo dell’Accordo di Parigi per una crescita del riscaldamento globale al di sotto dei 2°C. È con i nostri soldi, con il recupero di sovranità su di loro e sul loro impiego che deleghiamo, di solito inconsapevolmente, a banche ed istituti finanziari, che possiamo concretamente contribuire ad una efficace lotta contro i cambiamenti climatici che, volenti o nolenti, riguarderanno ciascuno di noi oggi vivente sul pianeta e sui nostri figli e nipoti, ovunque viviamo, senza distinzione di sesso, razza o nazionalità. Siamo noi che possiamo decidere di sottrarre i nostri soldi a finanziamenti dannosi per l’ambiente e rischiosi per le nostre tasse. Siamo noi, cittadini e risparmiatori, che possiamo e dobbiamo usare la leva finanziaria, senza la quale non una centrale a carbone o una miniera di carbone potrebbero essere aperte, per rendere abitabile e vivibile (cioè sostenibile) il pianeta nei prossimi decenni, per rendere l’aria respirabile, il suolo fertile, le risorse naturali ancora sufficienti. Forse, siamo ancora in tempo.

 

1  Vedi: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Donald-Trump-annuncia-abbandono-Accordo-di-Parigi-sul-clima-75ad208b-b629-48af-a3d06d7b8b3a408a.html.

2  L’art. 20 aveva «(…) aperto alla firma e soggetto a ratifica» l’Accordo presso il quartier generale delle Nazioni Unite dal 22 aprile 2016 al 21 aprile 2017 e l’art. 21 stabiliva che l’Accordo sarebbe entrato in vigore «(…) il trentesimo giorno successivo alla data in cui almeno 55 Parti della Convenzione, che rappresentano almeno uno stimato 55% del totale delle emissioni di gas ad effetto serra globali, hanno depositato i loro strumenti di ratifica, accettazione, approvazione o adesione». All’8 settembre 2017, 160 delle 197 parti della Convenzione avevano depositato presso le Nazioni Unite tali strumenti.

3  Il 6 novembre 2012 Trump aveva twittato che «(…) il concetto del riscaldamento globale è stato creato dai cinesi per rendere la manifattura americana non competitiva».

4  Basti qui fare riferimento al caso dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Nigeria OPL245 in cui è coinvolta l’italiana «ENI» e che porterà i vertici dell’azienda di fronte al tribunale per corruzione internazionale. Vedi: https://www.recommon.org/nigeria-caso-eniopl-245/.

5 Vedi: http://www.1gigatoncoalition.org/news/thirdreport-1-gigaton-coalition-released/.

6  Il Fondo è istituito nell’ambito dell’UNFCCC, con l’obiettivo di assistere i paesi in via di sviluppo nella mitigazione e adeguamento ai cambiamenti climatici; ha sede in Corea del Sud ed è governato da un gruppo di 24 Stati, sotto il segretariato delle Nazioni Unite. Nel discorso del 1° giugno 2017 con cui Trump ha annunciato l’uscita dall’Accordo di Parigi, il presidente ha criticato il Green Climate Fund in quanto sarebbe uno «(…) schema di redistribuzione di benessere dai paesi ricchi ai paesi più poveri». Ad oggi il Fondo ha allocato 2,7 miliardi di dollari, attivandone 6,5 di cofinanziamento, beneficiando 159 milioni di persone e evitando l’emissione di 1 miliardo di tonnellate di CO2. Vedi: http://www.greenclimate.fund/home.

7  D. Coady, I. Parry, L. Sears, B. Shang, How Large are Global Fossil Fuel Subsidies?. Vedi: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S03

05750X16304867.

8  Banking on Climate Change 2017. Fossil Fuel FinanceReport Card 2017. Vedi: https://www.banktrack.org/campaign/banking_on_climate_change_2017_fossil_fuel_finance_report_card.

9  Vedi: http://www.coalexit.org/.

10  Vedi: https://shareaction.org/banking-on-a-low-carbon-future/.

11 Vedi: http://www.gouvernement.fr/en/energy-transition.