«UNA E MOLTEPLICE»: L’EUROPA COME SOGGETTO POLITICO E CULTURALE NEL MONDO DELLA COMPLESSITÀ

di Mauro Ceruti (introduzione e coordinamento di Roberto Mosi)

 

Che cos’è l’Europa? È questa una domanda che ha attraversato la storia europea, che i suoi cittadini, i suoi intellettuali si sono fatti da sempre e che sta alla base anche di questo Convegno. È una riflessione che implica conoscenza e coscienza di due elementi fondativi dell’Europa, unità e molteplicità, identità e diversità, che da sempre la caratterizzano, che la rendono ambivalente e che sono alla base delle oscillazioni periodiche fra civiltà e barbarie che l’hanno attraversata. Un continente senza un territorio determinabile attraverso dei confini; un’entità storica in metamorfosi continua; un «progetto», come essa stessa si è definita dopo il 1945; un’entità politica impegnata nel difficilissimo sforzo di sciogliere la sua ambivalenza costitutiva ricercando i modi per concepire l’identità nella diversità e la diversità nell’identità.

 

Che cosa è Europa?

Roberto Mosi. Una e molteplice. Europa soggetto politico e culturale nel mondo della complessità è il tema che stiamo per affrontare. Si tratta di un tema veramente centrale, date le difficoltà dell’Europa a costituirsi come soggetto politico e culturale coeso e plurale. Lo si affronta nell’ambito di questo Convegno L’Europa che noi amiamo, che prende le mosse dalle parole che nel 1991, in un grande incontro all’Arena di Verona, espresse padre Ernesto Balducci, il fondatore della rivista «Testimonianze». E, come è già stato detto ieri sera dal prof. Paolo Ricca, il tema dell’Europa che amiamo implica un termine forte, «amare», che vuol dire fare propria una cosa, volerla possedere, dialogare. Indica una strada, quella dell’incontro  con un’Europa nella quale credere, che vogliamo fare nostra e per la quale ci vogliamo impegnare. Per affrontare e cogliere al meglio le implicazioni di questo complesso argomento ci affidiamo quindi alle parole del prof. Mauro Ceruti. Mi limiterò a dire che il professore è tra i filosofi protagonisti dell’elaborazione  del pensiero complesso e uno dei pionieri della ricerca contemporanea sui sistemi complessi. Solamente questa definizione è, per me, di grande fascino. La riflessione filosofica di Ceruti si produce nell’intersezione di una pluralità di domini di ricerca: epistemologia, scienze della natura, scienze dell’uomo, scienze dell’organizzazione e del management. Il professore insegna attualmente a Milano, all’istituto IULM (Libera Università di Lingue e Comunicazione); ha insegnato presso l’Università di Palermo, di Milano Bicocca, di Bergamo. È stato senatore della Repubblica. E, lo dico con grande piacere, il prof. Ceruti è fra i maggiori collaboratori della rivista «Testimonianze». Voglio ricordare ai ragazzi qui presenti e che forse non lo sanno che la rivista nacque nel 1958, compirà quindi 60 anni l’anno prossimo, e fu fondata, fra gli altri, da Ernesto Balducci. Durante questo lungo periodo la rivista si è impegnata sui temi dei diritti umani, della pace e del dialogo. La sua sede è ora proprio qui, alle Murate, in questo particolare contesto urbano. Segnalo con piacere l’apertura della nostra Associazione ai giovani, che hanno contribuito ad alcuni numeri della rivista «Testimonianze», forse ci ha partecipato anche qualcuno di voi, fra i quali ricordo quello dedicato all’alluvione  di Firenze  del 1966. I giovani delle scuole superiori, oltre a contribuire con i loro articoli alla redazione della rivista, sono accolti da noi nell’ambito del progetto scuola-lavoro e quindi hanno l’occasione di collaborare anche in altri ambiti della nostra attività. Come dicevo, Mauro Ceruti ha portato il suo patrimonio di conoscenza e di approfondimento nelle varie stagioni della nostra rivista e sui diversi temi che ho citato in precedenza. Mi piace ricordare un suo contributo nel Convegno L’uomo planetario, organizzato da «Testimonianze» nel 2012, dove, in un bel passaggio, dice: «Ernesto Balducci mi consegnava la sua ultima riflessione, pochi giorni prima di morire – quindi siamo nel 1992 –. È una meditazione sull’ambivalenza della nuova condizione umana e sulla fragile coscienza di un uomo planetario che stenta a nascere». Parlava da quella che era la sede originaria  della rivista, alla Badia Fiesolana – a San Domenico, dove attualmente è ospitato l’Istituto universitario europeo –, e offriva una visione magica di Firenze, in cui si coniugano la bellezza della città con la bellezza delle riflessioni sull’uomo planetario: «Dai bastioni della Badia Fiesolana avevamo più volte seguito il nostro sguardo, che come avrebbe poi scritto, discendeva senza intoppi, come ai tempi di Pico e del Poliziano, lungo la collina digradante fin sulla città. Anzi, proprio sul campanile di Giotto e sulla cupola del Brunelleschi». E continua: «Padre Ernesto Balducci ci ha insegnato a non credere ai cantori delle magnifiche sorti e progressive, ma nemmeno ai profeti di sventura. Ci ha mostrato come cercare tra le ombre del tramonto i segni di un’alba nuova». Fra i moltissimi libri di Mauro Ceruti che potrebbero essere citati, mi soffermo su un libro centrale, La nostra Europa, scritto insieme con Edgar Morin. In questo saggio – faccio solamente un accenno – dove si delineano i tratti della nostra Europa, della sua storia ambivalente, intrecciata di civiltà e barbarie, gli autori si chiedono come sia possibile scongiurare il rischio di paralisi e di disgregazione,  mostrando come le ragioni della speranza si annidano paradossalmente nelle ragioni della disperazione. È un vero appello, un manifesto, per una rinascita della cultura e della politica europee nel tempo della globalizzazione. Lascio quindi la parola a Mauro Ceruti.

Mauro Ceruti. Buon pomeriggio e grazie per questa accoglienza, grazie per l’invito e grazie agli amici di «Testimonianze» per questo dialogo ormai pluridecennale. Quando mi ha invitato, Severino mi ha detto: «Facciamo un convegno sull’Europa, all’interno di un festival sull’Europa, nel quale mi piacerebbe che tu facessi una lezione sul tuo modo di vedere l’Europa». Ed è quello che farò. In queste mie riflessioni mi rivolgerò soprattutto ai ragazzi, che sono anche qui numerosi, e che sono stati origine della scrittura, da parte mia e di Edgar Morin, di questo appello per l’Europa, di questo piccolo libro sull’Europa, sulla nostra Europa, sull’Europa che noi amiamo. Vi esporrò alcune riflessioni, molto semplici. Prima avete avuto l’opportunità di ricevere tanta conoscenza dal prof. Livi Bacci, e anche tanta coscienza. La conoscenza è una cosa molto importante per l’Europa. E non c’è Europa senza la riflessione sulla coscienza europea. Questo dunque può essere lo spunto iniziale: ciò che più è caratteristico dell’Europa è che in essa, ricorrentemente, attraverso i suoi cittadini, i suoi intellettuali, troviamo posta la domanda: che cosa è l’Europa? Questo domandarsi sempre chi siamo, che cosa è Europa, è tipicamente europeo. Ed è una condizione altrettanto ricorrentemente europea la condizione di crisi. Anche oggi ci troviamo in una condizione di crisi, profonda, della nostra Europa. E oggi, ancora una volta, la probabilità va nella direzione di una disgregazione dell’Europa. Così noi ci ritroviamo qui a chiederci, ancora una volta, che cosa è questa nostra Europa. Anche questo è molto europeo… Allora, parto proprio da questa domanda, che è la domanda che da sempre si sono fatti gli uomini e le donne di questo strano continente, dalle prime volte che si è nominata la parola Europa – penso che il primo sia stato Euripide che parlava delle figlie di Ilio, le donne troiane sconfitte e fatte prigioniere, e che diceva «vanno verso Europa», un orizzonte non ben definito, esperico… Ma non era chiaro cosa fosse Europa… Allora, che cosa è Europa? Quando ci facciamo domande l’enfasi va sempre sull’ultima parola prima del punto di domanda. In questo caso Europa. E lasciamo impensato ciò che c’è di più interessante nelle nostre interrogazioni, che invece sta sempre in ciò che viene prima, cioè nel modo di formulare la domanda. Quindi che «cosa» è Europa? Questa domanda dà per scontato che Europa sia una «cosa» che si può definire. Bene, lasciatemi solo per un minuto giocare con le parole. Europa non è una «cosa». Anzi, possiamo senz’altro dire che Europa, perfino, «non è». Nel semplice senso che tutte le volte che si è parlato della nostra Europa, la si è sempre pensata al futuro… Europa è sempre stata qualcosa che ha ancora da essere, non qualche cosa di già compiuto. Cioè Europa è sempre incompiuta, come un progetto da realizzare. Edmund Husserl tenne due straordinarie conferenze, nel 1935, in due grandi capitali europee, Vienna e Praga. Contenevano il nucleo del suo testamento filosofico. Erano anche quelli anni di crisi per l’Europa, fra le due guerre mondiali, le due grandi guerre civili europee, e anche lui si domandava, in queste due conferenze, che cosa è Europa. Tra le altre cose, osservò: «È un orizzonte infinito di compiti», qualcosa che dobbiamo sempre reinventare, progettare. Quindi, se Europa non è una «cosa», che cos’è? Europa è un’entità storica in metamorfosi continua. Il fatto di essere un’entità storica in metamorfosi continua la differenzia dalle grandi altre entità continentali che conoscono stabilità di civiltà che attraversano i secoli, addirittura i millenni. Europa ha metamorfosi, cambiamenti continui. Ma con che cosa ha a che fare questo cambiamento? È un cambiamento che affronta sempre, in forme nuove, una tensione ricorrente. Fra cosa? Ecco: fra unità e molteplicità, fra identità e diversità, che sono i fantasmi che stanno dilaniando la nostra Europa anche in questi nostri anni. Così, la definizione che vi do di Europa è questa: Europa è la storia della continua sperimentazione di questa tensione fra unità e molteplicità, fra identità e diversità. E questa storia, attraverso l’Europa, è diventata l’esperienza cruciale di tutta la condizione umana nell’età globale. Perché l’Europa ha mondializzato se stessa, e con ciò ha creato, nel bene e nel male, questa ecumene globale, planetaria. E l’embrione di quella che Ernesto Balducci chiamava, la coscienza di un uomo planetario.

 

Una penisoletta del continente eurasiatico

L’Europa, innanzitutto, che cosa non è? Non è un territorio. Spesso vado nelle scuole, soprattutto con i bambini, in questi anni, e chiedo loro: «Avete sentito parlare di Europa?», «Sì», «Allora, l’Europa che cos’è?», «È uno dei cinque continenti, ce l’ha insegnato l’insegnate di geografia, la maestra nell’ora di geografia…», «Sì, è vero, l’insegnante ha sempre ragione… Però, provate a guardare l’atlante – che peraltro spesso è disegnato a vantaggio nostro, perché l’Europa come l’Italia sono disegnate un po’ più grandi, in proporzione, di quello che sono, altrimenti sarebbero troppo piccole. Vedete che ci sono i grandi continenti: le Americhe, l’Africa, l’Australia. Questi sono ben definiti geograficamente, di ampie dimensioni, al contrario dell’Europa. L’Europa è una piccola penisoletta, molto piccola, del grande continente euroasiatico». Come è dunque potuto accadere che questa piccola penisola del continente euroasiatico abbia avuto questa forza, non solo di farsi riconoscere intellettualmente e politicamente, ma addirittura percettivamente come un continente? Europa non ha confini, non è definibile e determinabile con dei confini precisi con l’Asia. È appunto una sua penisola molto piccola, e i suoi confini si sono spostati fra Occidente e Oriente tante volte. L’Europa non può definirsi geograficamente  neanche con dei confini con le Americhe. Beh, direte, c’è l’oceano Atlantico. Sì, però l’Atlantico è diventato il luogo dello sviluppo, dei commerci, delle politiche europee. Ci sono gli studi esemplari del professor Livi Bacci. Sul suolo americano, gruppi e popoli europei si sono rimescolati in molte forme e hanno dato origine a quelli che sono stati definiti i nuovi mondi, le nuove Europe. E nuove Europe sono state definite anche l’Australia e la Nuova Zelanda, che sono letteralmente agli antipodi dell’Europa. Allora sorge anche la domanda: dov’è Europa? Europa trascende sempre se stessa. Non è mai là, solo là, dove viene definita. Guardate, sembrano discorsi astratti, ma fanno parte proprio di quello  che  siamo,  corrispondono  alla «realtà» della nostra Europa… Infine, ed è quello che è più importante per chiudere questa scena, Europa non può definirsi neppure attraverso una frontiera con l’Africa. Fin dai tempi più remoti, il mare Mediterraneo è stato percorso da scambi, da aggregazioni tra popolazioni di tutte le sue coste. E il Mediterraneo – che è un mare piccolino – è stato, per tutti i tempi dell’Impero romano, una sorta di lago interno all’Europa… Il Mediterraneo è un mare trinitario, tricontinentale, appunto un mare che è uno ma anche molteplice, un mare che è stato sede degli incontri più fecondi e anche delle rotture più tragiche, fra l’Est e l’Ovest, il Nord e il Sud. Il Mediterraneo è stato definito da Fernand Braudel come la più straordinaria mescolanza di razze, di religioni, di costumi, di civiltà che la terra abbia mai conosciuto. In questo spazio ristrettissimo, sono accadute più migrazioni, più mescolanze che non in altri enormi spazi continentali. Ragazzi, spero che voi facciate esperienza della filosofia. Eraclito, che era un filosofo presocratico, sapete che esortava a «unire ciò che discorda e ciò che concorda». E il Mediterraneo è da sempre un luogo di concordia e di discordia… Il Mediterraneo è insomma una matrice, un luogo matriciale, un luogo che è stato fecondo, proprio perché è stato generatore di diversità e anche di unità. Possiamo dire che il conflitto, ciò che concorda e ciò che discorda, come matrice dell’Europa, è potuto essere integrato in una maniera creativa in ciò che caratterizza l’origine d’Europa, la democrazia e la filosofia.

 

Unità nella diversità

Ora facciamo una lunga e rapidissima cavalcata attraverso la storia d’Europa, guidati dal filo conduttore della tensione fra identità e diversità. Nel Mediterraneo sono nati gli universalismi, a partire dal dio che adoravano gli egizi, poi attraverso l’Antico Testamento, poi attraverso Caracalla, la nascita del diritto, ecc…. E attraverso la visione degli umanisti, del Rinascimento. Siamo qui, siamo a casa. È la storia che racconta in modo mirabile Ernesto Balducci in questo libro che vi consiglio di leggere, scritto 25 anni fa, ma di una attualità straordi-aria: La terra del tramonto. Gli umanisti del Rinascimento, dunque, alla domanda (siamo sempre lì, nel cuore del problema…) «che cosa è Europa?» rispondevano con un’immagine particolare. Perché, vedete, quando noi ci chiediamo qual è l’identità di qualcuno o qualcosa, o qual è la nostra identità, tendiamo a rispondere in un modo che riporti all’«uno», al «singolare»… Beh, gli umanisti rispondevano alla domanda «qual è l’identità d’Europa?» con un’immagine «plurale». Europa, osservavano, è un edificio che poggia su quattro colonne. Non su una sola colonna fondamentale, ma su quattro colonne. E quali erano per loro le quattro colonne costitutive dell’identità multipla, multiculturale, di Europa? Le tre colonne delle tre grandi tradizioni culturali monoteiste: l’ebraica, la cristiana, l’islamica; e la quarta colonna era la sapienza degli antichi, della civiltà classica latina e greca, che allora gli umanisti riscoprivano. E, badiamo bene, riscoprivano questa quarta colonna, che sarà potentemente alla base dell’Europa moderna, della nostra Europa, attraverso la traduzione celtica e poi araba, attraverso cioè la mediazione della fioritura araba del secolo d’oro del califfato e anche dell’islam della Spagna medievale. L’immagine dell’Europa come un edificio che poggia su quattro colonne è un’immagine di «unità nella diversità e di diversità nell’unità». Bene, adesso però seguiamo il pendolo, il pendolo che porta ad atteggiamenti opposti nell’interpretare, nell’affrontare, attraverso forme culturali, istituzionali, politiche, la tensione fra unità e molteplicità, fra identità e diversità. Anche l’Europa dell’Umanesimo  è stata un’Europa quanto mai ambivalente. Lo mostrano le avventure globali dell’Europa, le avventure che hanno inizio con l’anno fatidico 1492. A partire dal 1492, l’Europa unifica il mondo. Il mondo, per gli europei, era un mondo europeo, stretto fra Gibilterra, le steppe asiatiche e le coste occidentali dell’Africa. E improvvisamente, come in un Big Bang, esplode. Quella che si definisce la scoperta dell’America è in effetti la scoperta della terra. La scoperta dell’America per gli europei è la scoperta della terra nel suo insieme, per tutti i popoli della terra. Il mondo europeo entrò nella nostra età, che definiamo moderna, attraverso proprio l’esperienza delle diversità, dell’alterità. Entrando in contatto con questi nuovi mondi, il mondo europeo subisce uno shock, uno shock culturale: l’esperienza della diversità. Una diversità inedita, inaudita, non confrontabile con la diversità e l’alterità che pure l’uomo europeo aveva conosciuto, non solo dentro di sé, ma sulle coste africane e viaggiando attraverso il continente asiatico. Improvvisamente si posero problemi gravi, inquietanti, per esempio con la domanda: «Ma questi uomini, queste donne, così diversi da noi sono uomini e donne come noi?». Nel 1526, se non ricordo male, pochi anni dopo l’incontro colombiano, papa Paolo III raccolse questa drammatica domanda: «Chi sono loro, chi siamo noi? Siamo tutti uomini, tutti della famiglia umana?», e rispose: «Sì, sono veri uomini e proprio per questo possono e devono essere convertiti alla vera civiltà e alla vera religione». Alla cultura più «progredita»… Badate, nasce allora anche l’idea di progresso. Idea inconcepibile per gli uomini prima del Cinquecento… L’idea di progresso è un’invenzione degli europei moderni. E ha a che fare con anche l’esperienza della diversità… Il modo di rendere coerenti le diversità nello spazio e nel tempo è risolto nell’idea di progresso: ciò che viene dopo può essere diverso e migliore di ciò che è venuto prima. E le diversità possono essere lette come tracce del passato nel presente… Insomma, la risposta che l’uomo europeo dà al proprio shock nell’esperienza della diversità è una risposta che fa prevalere l’esigenza di ridurre la diversità, di minimizzarne il significato, di «convertirla» verso la via del progresso. E queste ossessioni dell’esclusione, della conversione e della purificazione avrebbero poi colpito duramente anche gli stessi popoli europei.

 

Il 1492 e la nascita dell’idea di progresso

Tante cose connesse non vengono messe in relazione, neppure a scuola…. Ma nel 1492 non accaddero solo l’incontro colombiano, la nascita dell’età planetaria e il prevalere di questo atteggiamento volto alla riduzione della diversità «esterna» all’Europa. Ma vediamo… Nel 1492, gli stessi regnanti che sponsorizzano l’avventura globale di Colombo, pongono fine, dopo otto secoli, alla presenza islamica nella Penisola iberica e nell’Europa. Nel 1492 viene anche promossa la prima pulizia etnica contro la comunità ebraica spagnola. E le comunità spagnole ebraiche erano presenti in terra iberica da prima ancora della presenza islamica, almeno dalla diaspora del 70 a.C. Nel volgere di una quindicina d’anni, vengono poi promulgati editti analoghi, volti alla pulizia etnica, cioè all’espulsione degli ebrei, in molti piccoli e grandi stati d’Europa. In certo senso, non solo l’Europa colonizza i nuovi mondi, ma l’Europa colonizza se stessa. L’unità è opposta alla molteplicità, l’identità è opposta alla diversità…

Eppure, altro giro di pendolo, anche in questa età, la cultura rinascimentale è densa di interazioni, di sincretismi fra culture, etnie, religioni. La letteratura europea del Cinquecento e del Seicento racconta tutto ciò. Pensate al Mercante di Venezia di William Shakespeare, oppure al trattato del frate francescano Francesco Giorgi di Venezia, oppure a Bacon che racconta dei modi in cui l’unità della cultura europea è nutrita dai dialoghi e dai conflitti fra cabalisti, cristiani, arabi e ebrei. Le quattro colonne… Ma questo universo, ancora altro giro di pendolo, è messo a dura prova dall’età delle grandi guerre di religione. Si consuma lo scisma con la cristianità ortodossa di Oriente, poi l’espulsione dei musulmani dalla Spagna, l’avanzata dei turchi ottomani nei Balcani, una frattura con la religione islamica. Ma non basta. Nel cuore della stessa Europa, esplodono i tragici conflitti tra le confessioni cristiane. Cattolici, protestanti, calvinisti e anglicani si combattono. La Guerra dei Trent’anni provocò cinque milioni di morti e quasi spopolò il suolo tedesco. Quindi, la storia d’Europa, sempre ambivalente, è fatta di queste vette e di questi abissi che rischiano di affondarla ricorrentemente. L’età delle guerre di religione si compie, come sapete, alla metà del Seicento. L’età delle guerre delle religioni si chiude nel 1648 con un trattato celeberrimo, la pace della Westfalia. Ma perché ve lo cito? Ve lo cito per menzionarvi un’idea, che è l’idea cardine sulla quale si tratta e si fa la pace fra le confessioni religiose, fra le diversità all’interno dell’Europa. E qual è questa idea? Cuius regio, eius religio: a ogni regione la propria religione. Non vi fu più posto per grandi compagini statali a confessioni miste, la molteplicità fu ratificata come una minaccia all’unità delle comunità, quindi da ridurre, da eliminare. La religione, la cultura e la religione professata da un popolo doveva derivare dalla scelta del regnante. Tabula rasa della storia… Vi cito questo perché, di fatto, il principio cuius regio, eius religio parla di noi. Parla dell’Ottocento, parla del Novecento, parla dei sovranismi attuali. La religione di Stato, con cui si pensò che l’unico modo per fare la pace fra le diversità in Europa fosse quella di ridurle e separarle, la religione di Stato, dicevo, fu la premessa su cui si costituì l’idea di Stato nazionale. E l’idea di Stato nazionale è alla base della strategia geopolitica e antropologica per affrontare la tensione fra l’unità e la molteplicità, fra l’identità di Europa e le diversità «in» Europa, in epoca moderna, in particolare nell’Ottocento e nel Novecento.

 

Gli stati nazionali, un’invenzione cardine dell’Europa moderna

Alla base della prospettiva degli stati nazionali ci sono sostanzialmente tre idee. L’idea di territorio come uno spazio sufficientemente vasto per essere una via di mezzo tra il villaggio locale e l’orizzonte universalistico dell’impero. L’idea di confine, lineare e netto, che segna un dentro e un fuori di ogni Stato, «noi» e «gli altri». L’idea di sovranità assoluta, sciolta da ogni condizionamento, degli stati nazionali sul loro territorio. Lo Stato nazionale è un’invenzione cardine dell’Europa moderna. L’Europa moderna poi mondializza questa idea nell’Ottocento e nel Novecento, costruendo, attraverso la mondializzazione di se stessa, un ordine mondiale fondato proprio sull’idea di Stato nazionale. Gli stati nazionali sono stati, nello stesso tempo, integratori di diversità e distruttori di diversità. Hanno proposto e programmato, attraverso le loro istituzioni, compresa quella educativa, un’omogeneizzazione politica e un’omogeneizzazione culturale. Hanno prodotto grandi risultati, soprattutto negli stati dell’Europa occidentale, dove individui e gruppi di origini diverse sono stati integrati in nuove comunità, solide e ampie. Ma la costruzione degli stati nazionali ha avuto anche un lato oscuro. L’integrazione di diverse comunità in una comunità nazionale ampia spesso ha avuto luogo attraverso le migrazioni forzate di minoranze da uno Stato all’altro, la riduzione delle diversità, la purificazione religiosa, la pulizia etnica… Gli stati nazionali, in particolare nell’Ottocento e nel Novecento, sono stati segnati da due malattie, che ne hanno caratterizzato la storia: la purificazione omologatrice all’interno di ciascuno Stato e la sacralizzazione delle frontiere fra uno Stato e l’altro. La storia dell’Europa moderna è così la storia degli stati nazionali che si oppongono gli uni agli altri, fino al parossismo delle due guerre mondiali, che sono due grandi guerre civili europee.

Eppure troviamo un altro giro di pendolo nella tensione fra unità e molteplicità, fra identità e diversità. Nella stessa età in cui i  nazionalismi contrapposti allontanano gli uni dagli altri gli europei di nazioni diverse, una comune cultura europea emerge come in una specie di vortice, che fa dialogare gli europei. E da questo vortice nascono la scienza, la tecnica, il Razionalismo, l’Illuminismo, il Romanticismo. Nasce cioè uno spazio culturale europeo che è nello stesso tempo unitario e molteplice, condiviso e conflittuale. Qual è il fondo comune di questo spazio? È quello che ci nutre, che ci porta qui, che scorre nei nostri capillari: la filosofia, la scienza, la spiritualità, le idee politiche, la letteratura, i romanzi, la poesia, la musica, la pittura… A tutti gli europei appartengono, pur provenendo da lingue culturali diverse, l’idea di diritto, l’idea di libertà, l’idea di democrazia, e soprattutto Montaigne, Copernico, Keplero, Galileo, Dostoevskij, C˘ ajkovskij, Rossellini, Mahler, Debussy, Verdi, Cartesio, Newton, Michelangelo, Giotto, Kafka, Musil, Shakespeare, Goethe, Rilke… Sono il tessuto fatto di diversi fili di uno spazio comune unitario, che si tesse proprio nello stesso tempo in cui l’ideologia indurita degli stati nazione tende a separare le identità, le diversità. Dunque, l’Europa non è un territorio, non è determinabile attraverso confini, è un’entità storica in metamorfosi continua, volta a sperimentare vari modi per concepire l’identità nella diversità e le diversità nell’identità. E, soprattutto, l’Europa sfugge a ogni definizione semplificatrice. È ambivalente. Se crediamo di individuare un attributo per definire che cosa è Europa, originariamente, autenticamente, trascuriamo subito il suo attributo contrario, che a sua volta è europeo. L’Europa è il diritto, ma l’Europa è anche l’arbitrio. L’Europa è la democrazia, ma è anche l’oppressione, in modi inauditi. L’Europa è la dignità umana e i diritti umani, ma è anche il razzismo, in modi inauditi. Non esiste, insomma, un’Europa chiara, distinta, armoniosa. Se la cerchiamo, facciamo torto a noi stessi e corriamo il pericolo di alimentare la voce dell’Europa che non amiamo, invece che alimentare la voce dell’Europa che amiamo. Che non va idealizzata, come una entità che preceda la sua storia. Civiltà e barbarie si sono intrecciate in tutta la storia di Europa, e oggi, ancora più che mai, continuano a intrecciarsi.

 

L’Europa come progetto

Ancora due spunti, e chiudo. L’Europa moderna, l’Europa degli stati nazionali assoluti di cui vi ho dato traccia, ha dovuto morire perché potesse avere luogo una sua prima metamorfosi metanazionale.  Nel 1945, l’Europa moderna era morta, schiacciata dalle proprie rovine. Ma è allora che l’idea europea, una e molteplice, uscì dalle nubi in cui si era eclissata, per rigenerarsi, anche se in modi esitanti. Si trattava di riconoscere il carattere distruttivo della ipertrofia degli stati nazionali, sovrani, assoluti. Questa Europa, oggi nuovamente in crisi, si è definita fin dagli inizi come un progetto e non come un territorio. Si è posta come un’entità politica e non come un’entità geografica. Si è fondata su una nuova prospettiva. Non più l’omologazione, ma la valorizzazione delle diversità. Non più le semplificazioni imposte dalle maggioranze dominanti, ma il rispetto degli intrecci etnici, linguistici, culturali e religiosi. Non più la compressione delle molteplici identità individuali e collettive, ma il loro riconoscimento. Questo è un tesoro, un miracolo che è accaduto dopo le macerie del 1945. Certo in forme non compiute, ma è un miracolo questo. Insomma, l’Europa si è impegnata nello sforzo di sciogliere la sua ambivalenza costitutiva proprio nell’età, dopo il 1945, in cui tutte le società del mondo sono diventate sempre più interdipendenti. Oggi, tutti i problemi su cui si è potuta esercitare – nel bene e nel male, ma plausibilmente – la sovranità assoluta degli stati nazionali oltrepassano le competenze degli stati nazionali. Sono problemi transnazionali: i problemi dell’energia, della ricerca scientifica, delle migrazioni, del clima, della tecnologia, del terrorismo, dell’acqua, della guerra, della pace… Eppure, dinanzi a questa consapevolezza, altro giro di pendolo, gli stati nazionali non solo resistono, ma si moltiplicano e si miniaturizzano. Le singole culture si induriscono. E l’Europa rischia, ancora una volta, la decomposizione. L’Europa oggi, la nostra Europa, è in pericolo. I nazionalismi e i localismi la minacciano. Il rischio è quello di una nuova virulenza delle due malattie storiche d’Europa: la purificazione, la pulizia etnica, da una parte, e dall’altra l’assolutizzazione dei confini. Riappaiono in forme nuove due calamità tradizionali: la prima calamità dei nostri giorni è l’unificazione astratta, omogeneizzante, che distrugge le diversità; la seconda calamità è il ripiegamento su se stesse delle singolarità, delle singole identità, che però rischiano di diventare astratte anche loro, perché si separano da ciò che le connette alla complessità, all’unità umana. L’Unione Europea è nata e si è sviluppata proprio nel momento dell’ultimo, definitivo fallimento delle ambizioni europee di controllo del mondo. L’Europa, oggi, non è più dominatrice: è diventata una provincia del mondo, peraltro sempre meno importante per peso demografico, forza militare, risorse energetiche, materie prime. Ma, proprio per questo, il ruolo dell’Europa nel governo dei processi di globalizzazione è unico e irrinunciabile: non più centro del mondo, ma suo laboratorio, volto ad affrontare le difficoltà e le controversie che i processi di globalizzazione comportano, e nella condizione di promuovere soluzioni innovative, attraverso le specificità della sua storia e della sua identità plurale. Proprio per la sua storia, per la sua identità plurale e per la sua attuale condizione di «provincia globale», l’Europa può essere un laboratorio di innovazione istituzionale e culturale, per affrontare le sfide cruciali del «mondo globale». Oggi l’Europa è in una situazione agonica. Ed è un microcosmo che rispecchia l’agonia del mondo intero. Ma cosa significa agonia? Agonia, sapete, significa lotta angosciante, conflitto interiore. Una lotta angosciante. Ogni nascita è agonica, come ogni morte. Ogni alba è un’agonia, come ogni tramonto. E oggi siamo nell’agonia di un’Europa, di un mondo, uno e molteplice, che non riesce a nascere perché siamo nell’agonia di un mondo che oppone l’unità alla diversità, l’identità alla diversità, che non riesce a morire. Oggi l’Europa non è più il centro del mondo. Oggi l’Europa è diventata una provincia del mondo. Ma nonostante questo, e vorrei dire proprio per questo, l’Europa deve portare  dentro di sé la coscienza dei problemi planetari. L’agonia dell’Europa e l’agonia dell’umanità planetaria oggi si congiungono nuovamente in quello che è stato la matrice dell’Europa, il Mediterraneo, in particolare sulle sue coste orientali, meridionali. Oggi la pulizia etnica, nella forma più orrenda del termine, minaccia di annientare, non solo i cristiani di Oriente, ma anche uno straordinario mosaico di diversità religiose e culturali. E per questo stiamo assistendo a un attacco, forse senza precedenti nella storia umana, alla capacità della nostra stirpe di reinventarsi costantemente in un gioco dialogico di unità e di diversità, che invece è la vera ricchezza nella storia profonda umana. L’Europa che noi amiamo non può non avere una reazione, verso se stessa e verso il mondo, alla profondità antropologica della posta in gioco. Non basta la tolleranza, che pure è una grande invenzione dell’Europa che amiamo. Non basta. Dobbiamo ribadire che lo sguardo e l’ascolto dell’altro sono il motore, sono la precondizione del nostro stesso fiorire. La coscienza e la conoscenza saranno indispensabili per salvare l’Europa. E dinanzi a chi asserisce che lo scontro «fra» civiltà è inevitabile, dobbiamo sottolineare fortemente il fatto che lo scontro fra due idee diverse della civiltà attraversa «ogni civiltà». Non c’è un noi e un loro, un Occidente e un islam… Ogni civiltà, ogni tradizione, è attraversata da un confine che oppone coloro che pensano che la convivenza delle diversità, la multiconfessionalità, la multiculturalità, siano conditio sine qua non dell’evoluzione umana e coloro che pensano invece che occorra ridurre le diversità, fare a meno delle diversità…

Sarà un’alba? Sarà un tramonto? Nelle agonie del giorno i colori dell’alba e i colori del tramonto si confondono. Dedicandomi una copia del suo libro, Ernesto Balducci mi scriveva: «A Mauro, che come me cerca nelle ombre del tramonto i colori di un’alba nuova…». Grazie.