QUELLA VOCE FORTE COME UN TUONO

di Sergio Givone in dialogo con Severino Saccardi

I tre preti «di frontiera» dei quali qui si parla (Balducci, Turoldo e Milani) – ma anche altri (come Ferdinando Tartaglia) – hanno in comune un elemento religioso costituito dalla loro fedeltà al Dio dell’universalmente umano, cioè il Dio incarnato, ma anche un tratto politico, costituito dall’essere, più o meno consapevolmente, gli eredi di quel cattolicesimo liberale giobertiano che aveva cercato di superare i nazionalismi, per affacciarsi a una visione universale dell’uomo nella sua appartenenza alla «comunità mondo». L’esaltazione del valore della parola da parte di don Milani, la cultura «planetaria» di Balducci, l’antropologia umanistica di Turoldo sono echi di messaggi che, giungendoci da lontano, risultano essenziali soprattutto oggi, in un mondo che sembra aver perduto la capacità di guardarsi dal suo aldilà.

 

«Preti cattolici» (una qualifica da non rimuovere)

Saccardi. Inizierei questa nostra conversazione partendo da un elemento legato all’attualità: il papa che va a Barbiana sembra segnare una svolta epocale dell’atteggiamento dei vertici della Chiesa cattolica nei confronti del priore di Barbiana, della storia e della stessa dimensione simbolica che don Milani rappresenta. Come senti, come ti viene di viverlo e da interpretarlo questo passaggio?

Givone. Credo che valga per don Milani quello che vale anche per gli altri preti, preti cattolici, (sottolineo questo elemento di cui parleremo a più riprese): mi riferisco a padre Balducci, mi riferisco a Turoldo, mi riferisco a don Divo Barsotti e a Ferdinando Tartaglia. I grandi preti, che non sono tutti fiorentini (Turoldo non lo era, Tartaglia non lo era), ma che hanno lasciato il segno in questa città, tanto da venire identificati come «i preti di Firenze», i grandi preti di Firenze nell’ultimo scorcio di secolo (salvo Barsotti, che è morto qualche ano fa, in questo secolo), ancora ai nostri occhi oggi, che cosa hanno in comune? In che senso quello che sto per dire di don Milani vale anche per gli altri? Fa da chiave, ci aiuta a capire che cosa è accaduto, questa non resipiscenza del papa (come sarebbe riduttivo dire), ma questo vero e proprio nuovo incontro, questo ritrovamento. Che cosa ha ritrovato il papa tanto da riconciliarsi con l’intera tradizione che queste personalità rappresentano oltre che con don Milani? Ecco, può sembrare paradossale dirlo, ma vi ha ritrovato il prete cattolico; don Milani, come anche tutti gli altri, si è scontrato con le gerarchie, anche con la Chiesa. Tartaglia ad un certo punto ha definito la Chiesa questa «abside morta».

Saccardi. Un’istituzione vuota.

Givone. Tu sai che cosa non ha fatto Balducci per aprire le finestre sul mondo.

Saccardi. Per aprire la Chiesa al mondo.

Givone. Aprire la Chiesa al mondo. Come se la Chiesa non fosse mondo, ma la Chiesa, come sapeva Balducci e come insegnava don Milani, è essa stessa ecclesia universalis, immersa nel mondo, ed è essa stessa mondo (nel senso di un tutto). Non è la parte che sta di fronte e che si contrappone al resto del mondo. È il tutto, almeno tendenzialmente, per vocazione. Questo deve ritrovare la Chiesa, dicevano don Milani e gli altri: il suo universalismo. Allora, l’universalismo della Chiesa è quanto di più cattolico ci sia, è l’essenza vera del cattolicesimo. Il cattolicesimo che poi è scaduto a forma parziale di comprensione del mondo, a ottica separata, prospettiva settaria. Oggi, se chiedi che cos’è un cattolico, il cattolico è quello che non è tutto il resto, è quello che si distingue da, è un settario, è quello che appartiene ad una minoranza detta cattolica; ma cattolicesimo non vuol dire questo, cattolicesimo vuol dire chiesa universale. Nel cuore dell’insegnamento di don Milani, se tu prendi le Esperienze pastorali, trovi questo: la centralità della parola. La parola è quella che permette agli uomini di capirsi e di riconoscere che in ciascuno c’è Dio, c’è l’Uomo con la U maiuscola, c’è il Cristo incarnato.

Saccardi. Don Milani, secondo questa tua interpretazione, sarebbe la quintessenza del prete cattolico.

Givone. Da questo punto di vista sarebbe la quintessenza del prete cattolico. È un paradosso questo, ma lo ha capito bene il cardinale Martini. È uscito in questi giorni un articolo che ti consiglio di vedere su «Vita e pensiero», la rivista dell’Università cattolica che è stata rilanciata, che è diventata un organo non più soltanto accademico; nell’ultimo numero di «Vita e pensiero» esce un inedito di Martini, che risale credo ai primi anni 80, quindi successivo di quasi un quindicennio alla morte di don Milani, dove il cardinale Martini s’interroga su che cos’è il nucleo, il centro del suo insegnamento. Perché la scuola? Perché è così importante la scuola? Perché la centralità della scuola? Perché a scuola si insegna a parlare, perché chi usa lo strumento del linguaggio in maniera appropriata possiede il mondo e chi invece non ha questo strumento resta tagliato fuori. Il parlare e la parola, ne costituiscono il centro più ancora che la scienza o la matematica.

 

Per comunicare gli uni con gli altri.

Saccardi. Qua si potrebbe ricordare che «in principio era il Verbo», che non è solo parola, è logos, cioè principio di comprensione e ragione.

Givone. Ecco quello che diceva il cardinale Martini: quando Milani dice «Io ai miei ragazzi voglio insegnargli a parlare», sta dicendo «Io voglio insegnare che in principio era il verbo», che la centralità dell’essere e dell’uomo è la Parola con la P maiuscola e dice…

Saccardi. È ciò che dà voce allo spirito, poi.

Givone. E lui dice «Io non gli parlo di religione, lo spirito è già lì e sarà – la citazione è del cardinale Martini ma le parole sono di don Milani – un giochetto da ragazzi quando questi ragazzi avranno imparato a parlare», cioè avranno imparato a sapere che cos’è la parola, passare alla dimensione superiore, quella della religione, quella della spiritualità nel senso più ampio, ma intanto va sempre ricordato e tenuto presente che in principio era il Verbo. Il prete cattolico è l’uomo della parola di tutti, quella universale, quella che ci mette l’uno di fronte all’altro su un piano di assoluta ugualità. L’ugualitarismo nasce dal fatto che siamo fatti per capirci, per comunicare gli uni con gli altri.

Saccardi. Don Milani lo scrive a un certo punto in una sua lettera «(…) lavora con questi ragazzi, dai tutta te stessa – rivolgendosi ad una ragazza, mi pare una sua studentessa – e Dio ti verrà dato in fondo come premio», Dio ti verrà dato alla fine come premio. È così?

Givone. Non devi essere tu a preoccuparti di inculcarlo, verrà da sé perché è già lì, perché il Dio di cui stiamo parlando è l’universalmente umano, cioè è il Dio incarnato. Pensa che io don Milani non l’ho mai conosciuto. Quando sono arrivato a Firenze (scusami se parlo anche di me, in un modo o nell’altro, indirettamente, alcuni di questi preti li ho conosciuti, altri molto direttamente come Tartaglia, di cui credo sono stato l’ultimo amico e ti dirò poi quando ci vedevamo e che cosa ci dicevamo) io, di don Milani ho incominciato a parlare, a occuparmi, nel 68, al Vingone, dove – lui era appena morto e alla fine del 67 era uscito Lettera a una professoressa – si parlava di questo libro. Nel 68, al Vingone, don Masi…

Saccardi. Don Fabio Masi, che conosco bene e che è ancora attivo…

Givone. Io allora avevo conosciuto i Lorimer, in Piemonte, e poi li frequentavo, (è stato il mio primo contatto con Firenze, con il mondo della Chiesa fiorentina) e don Masi faceva, al suo gruppo di ragazzi, la scuola serale all’insegna del messaggio di don Milani, cioè aveva colto di nuovo l’essenziale. L’essenziale che cos’è? La scuola. In questo senso non si era capito esattamente che cosa fosse per don Milani la scuola, quando qualcuno, in polemica, diceva «Io sto dalla parte della professoressa perché la scuola è…».

Saccardi. C’è anche un certo «milanismo» deteriore e malinteso, non sempre all’altezza del lascito del priore di Barbiana, come sai. Non bisogna ignorarlo.

Givone. Sì, certo, c’è anche un milanismo deteriore, ma lui la sua scuola non la considerava, come dire, semplicemente una specie di ricreazione o di libera uscita da contrapporre alla scuola tradizionale. Anzi. La scuola è la cosa più seria, come imparare a parlare. Semmai, ecco un altro aspetto importante di don Milani e che ci aiuta a non cadere in quel milanismo deteriore di cui dicevamo: egli intendeva la parola non solo come lo strumento della comunicazione tra gli uomini ma come lo strumento critico per la comprensione della realtà, ed è questo il senso della polemica con la professoressa. Non è che lui disprezzasse la scuola, la scuola tradizionale, con i suoi metodi di insegnamento ecc…

Saccardi. A Barbiana si insegnava anche la grammatica, non va dimenticato!

Givone. Certo, si insegnava la grammatica, perché come egli diceva «La grammatica è il fondamento della logica» e la logica è il logos e il logos è la parola che comprende il mondo e ci permette di comprenderci. Quello che rimproverava alla scuola era di non riconoscere che c’è logos e logos: cioè c’è il logos capace di costruire degli apparati ideologici che nascondono anziché rivelare la verità, che occultano, per esempio, lo stato di fatto, l’oppressione, il fatto che ci siano i ricchi e ci siano i poveri, che un conto è avere in casa gli strumenti per andare avanti negli studi e un conto è non averli. Ecco, il logos è un’arma terribilmente doppia, è un coltello che serve, è vero, a disoccultare i rapporti di classe, le ideologie, ma serve anche a costruirle, può essere una retorica tremenda. La scuola tradizionale, questo don Milani lo sapeva dall’esperienza del ventennio, era una grande scuola, ma era una scuola ideologica, in funzione di qualcosa e del mantenimento di un certo status quo. Il liceo classico era una bellissima scuola, non è che don Milani dicesse che il liceo classico era una schifezza; il liceo classico era la scuola per eccellenza che si contrapponeva alle scuole professionali, agli istituti tecnici fin dal ginnasio. Quello che noi chiamiamo prima media è la prima ginnasio, perché il ginnasio poi parte dopo la terza media in realtà (quarta e quinta ginnasio), ma dalla prima ginnasio c’è già la separazione tra scuole di avviamento professionale e scuole classiche. Questo vuol dire che la scuola, che può essere anche una bellissima scuola, può essere però una scuola non critica, non capace di rivolgere anche verso di sé, cioè verso l’organizzazione della scuola, gli strumenti della critica, verso il fatto che la scuola è scuola per i ricchi e scuola per i poveri, scuola per le classi dirigenti e per le classi subalterne. La scuola deve rivolgere su di sé questo strumento critico e disoccultare questa ideologia della separazione tra le classi dirigenti e le classi subalterne: questo ha detto don Milani quando ha criticato la scuola, e non gli si può dire «Ah, ma lui criticava la scuola» in modo distruttivo. Egli criticava la scuola che non era all’altezza di se stessa.

Saccardi. C’è qualcosa di socratico in questo. D’altronde, Milani faceva leggere l’Apologia di Socrate a questi ragazzi e in questo c’è una curiosa analogia con Simone Weil che pensava che i classici greci fossero adatti alla classe operaia. Di questa grande letteratura, di questi grandi riferimenti, anzi, ella sosteneva, proprio chi è nella sventura della vita può intenderne questo messaggio e l’idea di fondo. Il metodo socratico di Milani consisteva, mi pare, nel tirare fuori dai ragazzi il meglio di se stessi.

Givone. E invece, cosa accadeva a scuola? Che i classici erano per le classi dirigenti e non per le classi subalterne.

 

Il rapporto fra autorità e libertà.

Saccardi. E questa è una grande operazione. C’è un aspetto che mi ha sempre incuriosito dell’esperienza milaniana, di don Milani medesimo, e che ho l’impressione che a volte venga banalizzato e frainteso: quello (e su questo mi piacerebbe sentire cosa ne pensi) del rapporto tra autorità e libertà. Il messaggio milaniano è stato inteso, non a torto, in senso classista. C’è, in esso, questo senso classista, di derivazione evangelica. Ma il messaggio di don Milani, talora, è interpretato anche in senso «libertario», nel senso di antiistituzionale. Qui mi par che sia possibile un grosso fraintendimento perché (almeno io questo credo di aver capito e su questo vorrei, appunto, confrontarmi con te) il priore di Barbiana vuole, certo, educare alla libertà, ma lo fa esercitando una forte autorità come maestro. Dice ai ragazzi «Tu stai lì per 365 giorni l’anno, perché io so che è il tuo bene; io so qual è il tuo bene. Mi assumo la responsabilità di indicarti una strada». Quindi, da questo punto di vista, il rapporto tra autorità e libertà, che oggi sembra impossibile anche da pensare, a volte, in un tempo in cui sembra sia saltato ogni rapporto di verticalità (e quasi quasi la pensabiltà di un decente e credibile rapporto di verticalità) fra chi educa e chi viene educato, appare assai più complesso di come talora viene rappresentato. Don Milani, seppur declinandolo in maniera rivoluzionaria e alternativa, mi pare che avesse ben presente questo tema.

Givone. Don Milani sapeva bene che la libertà, l’esercizio della libertà, non avviene nel vuoto. L’esercizio della libertà è innanzi tutto un esercizio di liberazione. Tu la libertà, insomma, in altre parole, la conosci, ne fai esperienza, capisci veramente che cos’è nel momento in cui riconosci di non essere affatto libero e rompi le catene, che poi non sono necessariamente le catene dello schiavo ma sono gli apparati, le strutture, i condizionamenti culturali, i condizionamenti di classe, le possibilità reali che ti vengono date fin dalla nascita e così via. Tutto questo è ciò da cui ci si deve liberare, la libertà non esiste se non come liberazione, non che sia solo questo, perché poi la libertà, una volta che ti sei liberato, fatto libero, la devi esercitare conquistando l’autonomia, cioè dando a te stesso la legge del tuo operare, del tuo fare, non aspettando che te la diano altri, perché non c’è legge di libertà che non sia quella che tu dai a te stesso. Non c’è libertà che non abbia legge. Diceva don Milani «Una libertà senza legge scade immediatamente ad arbitrio».

Saccardi. E nell’assenza di pensiero critico. Da questo punto di vista ti ricorderai la lettera a Pipetta, che è un vero esercizio di coscienza critica. Dice il prete Milani al comunista Pipetta «Insieme abbatteremo la cancellata del ricco, ma quel giorno io ti tradirò»…

Givone. «(…) e quando l’avremo abbattuta io andrò dal mio Cristo (…) perché tu ti sarai costruita una casa, un nuovo potere e io farò un passo indietro. Un passo indietro o un passo avanti verso una più profonda e più radicale libertà». Perché non basta, noi non conosciamo la libertà se non come liberazione da qualcosa, ma una volta che ci liberiamo comincia il difficile.

 

Per il papa andare a Barbiana equivale ad andare a Canossa?

Saccardi. Secondo te, Sergio, da un certo punto di vista, il papa che va a Barbiana, rappresenta la Chiesa che va a Canossa, rispetto alla storia di don Milani?

Givone. Guarda, secondo me no, nel senso che questi preti emarginati, emarginati è la parola giusta, cioè mandati via da dove erano – come lo è stato don Milani, lo è stato Balducci e lo è stato a maggior ragione Turoldo –, hanno dovuto tutti fare l’esperienza dell’allontanamento, però sono rimasti preti, cioè sono rimasti preti cattolici.

Saccardi. Don Milani forse più di tutti.

Givone. E forse don Milani, quando alla fine muore e dice «Vedi che alla fine il cammello passa per la cuna dell’ago», si riferiva proprio a tutta la sua vita, alla vita di un borghese per il quale, a sua volta, è stato difficile liberarsi, ma è accaduto come? Riconoscendosi alla fine come don Milani fa, il prete cattolico che sta con gli ultimi, perché questo è il compito, il dovere. Non è che loro hanno considerato, come altri, l’essere prete semplicemente come un accessorio, come un trampolino. C’era già la chiave, in quel cattolicesimo che contestavano, ciò che loro cercavano e che costituiva la sostanza stessa della loro vita, e lì, nel modo cristiano, e anzi addirittura cattolico di essere.

Saccardi. È un mistero che esperienze di questo tipo siano potute germinare e germogliare dentro una Chiesa che aveva ancora, tutto sommato, un impianto tridentino. C’è qualcosa di profondamente nuovo che stava per avvenire o stava avvenendo già allora, in quel passaggio che da esperienze come quelle di Balducci, Turoldo, Milani ed altri è stato così profondamente contrassegnato.

Givone. Non avrebbero potuto germinare se queste forze non fossero state interne, in qualche modo, alla Chiesa stessa; altrimenti, li avrebbero soffocati. Se il mondo cattolico, cioè se quello che chiamiamo Chiesa, ma Chiesa militante, cioè la Chiesa cattolica, non avesse avuto in sé queste potenzialità, anche se conculcate e nascoste quanto vuoi, marginalizzate certo, non avremmo avuto don Milani. Egli sarebbe andato altrove, la sua storia sarebbe stata diversa e così la storia degli altri. Vogliamo parlare di Tartaglia? L’esempio di un modo ancora più emblematico, quello di questo scomunicato «vitando».

Saccardi. La forma più grave di scomunica, per cui non solo una persona viene messo fuori dalla Chiesa ma deve anche essere evitato dagli altri. Ne parliamo fra un attimo, ora volevo chiederti ancora qualcosa, tornando all’attualità, di cui mi piacerebbe sentire la tua parola. L’andata del papa a Barbiana cambia un po’ il contesto e la natura stessa, a livello simbolico, della percezione e della ricezione della storia e dell’esperienza di don Milani. Tutto questo naturalmente va benissimo, ma con due avvertenze: che bisognerà fare attenzione, come talora in casi del genere accade, a non trasformare don Milani in un santino e Barbiana in un luogo destinato a perdere il suo carattere incontaminato. È chiaro che ci sarà un afflusso nuovo di persone, che si entra in una dimensione diversa e più ampia, ancora più universale, ma questo luogo simbolo che ai tempi di don Milani era soprattutto caratterizzato dal suo isolamento, così sperduto in mezzo ai boschi, questo poggio battuto dal vento, che oggi ha anche una sua bellezza,non va in qualche modo preservato? O la sua incontaminatezza è destinata a perdersi, con l’inizio di questa nuova storia cui la visita di papa Bergoglio dà, in qualche misura, inizio?

Givone. Sono possibili sia l’una che l’altra cosa; forse è più possibile la trasformazione, la canonizzazione, lo dice la parola stessa, la trasformazione di don Milani in un santino, e cioè è possibile che la riconciliazione finisca col farci perdere di vista che cosa davvero ha significato l’esperienza di Barbiana anche rispetto alla rottura di quanto nella Chiesa c’era di spento, di morto. È possibile. Però è anche possibile che l’attenzione che si è riportata su Barbiana aiuti a conservare l’essenziale; cioè proprio perché c’è più attenzione sarà più difficile edificare delle strutture, non so se di accoglienza o che altro siano, che rischiano non solo di deturpare la bellezza e la purezza del luogo, ma proprio di nascondercelo. L’attenzione potrebbe essere la forza che ci impegna tutti a conservare ed a preservare ciò che deve essere preservato, perché se c’è un luogo dove l’essenziale deve essere conservato è proprio Barbina. Barbiana è il luogo del ritrovamento dell’essenziale, della parola vera, perché questo è l’essenziale, della parola di verità, della parola che è in principio. «Io non voglio fare altro di insegnargli a parlare», diceva.

 

L’incidenza delle radici ebraiche di Milani

Saccardi. Rimanendo per un attimo su don Milani, volevo sentire la tua impressione, il tuo parere, su un aspetto, di cui non sono mai riuscito a capire bene l’incidenza, cioè quello relativo alla questione dell’origine ebraica di don Milani. Ora, in realtà, la famiglia di don Milani era una famiglia agnostica, non praticante, non religiosa e quindi può darsi che tale elemento abbia avuto un’importanza relativa, però colpisce (e può darsi che sia una coincidenza ma anche che non lo sia) che nel cristianesimo professato e messo in pratica da don Milani, che certo è cristianesimo evangelico, che certo è cattolicesimo inteso nel senso che tu dicevi, ci sia anche questa fedeltà alla terra e alla storia che ricorda da vicino messaggi come quello «veterotestamentario» dell’Esodo. C’è in lui una forte impronta, in qualche modo, che sembra di stampo ebraico, non credi? Può essere solo un’impressione o non c’è davvero qualche memoria di questa modalità di approccio alle vicende del mondo, insomma al rapporto fra la trascendenza e la storia che rimanda alla cultura e alla visione ebraica del mondo?

Givone. Io credo non solo questo, ma credo anche che l’ateismo, l’ateismo della famiglia, sia per l’appunto, com’è stato, ateismo ebraico e non ateismo borghese, della secolarizzazione, così come lo conosciamo, del mondo che per intendersi definiamo borghese. Voglio dire che l’ebreo ateo, non è un ateo qualsiasi: non solo rimane un ebreo, ma rimane un ebreo ateo, cioè rimane l’ebreo che ha rivissuto in qualche modo in sé quella lotta con Dio, magari per distruggerlo, per negarlo, che è la quintessenza dell’ebraismo. L’ebraismo conosce, ancora più che il cristianesimo, la lotta con Dio, che finisce con Auschwitz, con l’ateo che si rivolge a Dio chiedendo «ma dove sei?», chiedendo conto a Dio, per negarlo ma al tempo stesso per affermarlo. Ora, tu dirai: ma nella famiglia di don Milani tutto questo resta sullo sfondo. Sarà pure, non voglio dire che questi fossero dei religiosi diventati atei a seguito di una teologia del silenzio di Dio, della assenza di Dio, non è necessario. Parlavamo proprio di questo l’altra sera con Daniel Vogelmann, che proprio questo dice dell’ateo, dell’ateismo ebraico: non è l’ateismo come esito della secolarizzazione, è l’ateismo teologico di chi con Dio vuole fare i conti, chieder conto al Dio in cui non crede di quello che accade, del senso del mondo. Quindi, anche se è difficile vedere un legame tra questa sua origine ebraica, della sua famiglia, e poi le scelte fatte in seguito, però ne terrei conto. La Terra promessa, il messianismo, l’ebraismo più laico, più laicizzato, più secolarizzato, oltre che più ateizzato, li ha mantenuti, nelle forme che tu dicevi.

Saccardi. C’è chi legge così (e in riferimento a tali radici) anche Marx.

Givone. C’è chi legge così anche i grandi banchieri ebraici. È, come dire, una ricerca dell’assoluto, della Terra promessa, della riconciliazione con il mondo, quel mondo che ti ha tradito, che ti ha inquinato la vita, che ti ha avvelenato la vita. Il riscatto, l’idea della redenzione. Io non ho paura di dire una cosa che è difficile da dire, perché si pensa chissà a quali retropensieri, no, nessun retropensiero: anche il denaro viene inserito nella logica della redenzione. Magari non era una famiglia laica di prima generazione, forse di seconda o terza, ebraica e borghese non importa, la traccia c’è, esiste.

 

«In partibus infidelium»

Saccardi. Anche io ho quest’idea. Distaccandoci per un attimo da don Milani e da Barbiana, che poi possiamo anche riprendere, e andando ad affrontare più in generale il discorso dei «preti di frontiera» (il volume di «Testimonianze» sarà dedicato soprattutto a Turoldo, Balducci e Milani, ma anche il discorso su don Tartaglia va benissimo, perché evidentemente collegato a questo filone –, mi piacerebbe tornare a parlare con te sulla modalità molto particolare di molte di queste personalità di interpretare il modo di essere preti cattolici in una forma che, soprattutto nella percezione del loro mondo di appartenenza, pare rasentare il paradosso. Tu pensa a Balducci. Balducci che ha conservato fino in fondo la sua appartenenza alle istituzioni (sia pure in una sua collocazione «di confine» fatta rimarcare dal cardinale Piovanelli, che pure lo accolse in Duomo per celebrarne il funerale, quando parlò di una testimonianza resa sul fronte del cosiddetto dissenso cattolico, sul filo dell’ortodossia e «in partibus infidelium») e che è sempre rimasto all’interno di questa dimensione. Balducci, d’altra parte nell’Uomo planetario (e questo rende forse più difficile fare per Balducci, per le gerarchie ecclesiastiche, un’operazione analoga a quella portata oggi a compimento con la riconsiderazione di don Milani, arriva a dire che in questa esaltazione della universale dignità dell’umano, che in fondo in qualche modo è la manifestazione del divino nel mondo, tutto quello che è vecchia appartenenza confessionale, manifestazione storica delle religioni «edite» come egli le chiama, è destinato a saltare, a ridefinirsi per una nuova fratellanza, e per una nuova idea della dimensione religiosa stessa: una prospettiva che per la Chiesa cattolica, sia pure nella sua accezione più «universale», ecumenica ed aperta, in un certo modo è difficile da accettare e da digerire. È stato notato anche quando il card. Betori ha parlato allo stadio di Firenze, in occasione della visita del papa: l’elenco dei riabilitati si è spinto fino al nome di don Milani, lì si è fermato. Qui c’è un ostacolo che ancora è difficile da rimuovere. Come vedi questo aspetto?

Givone. Vedi, io credo che ci sia un tratto non solo religioso che lega questi preti, oltre appunto all’universalismo cattolico, anche se poi questa nozione presenta i problemi e si presta agli equivoci cui hai fatto riferimento. Il tratto che accomuna questi preti è quello religioso ma anche quello politico. Dove vedo l’elemento politico? Nel loro essere «gli eredi», non so quanto consapevolmente, del cattolicesimo liberale.

Saccardi. Chi li denigra dice che erano tutti preti «rossi».

Givone. Ecco, preti rossi, ma è un po’ troppo facile dire che erano preti rossi, perché prima di essere preti rossi, loro erano preti cattolici, e venivano dal quel cattolicesimo liberale che è, e appare sempre di più in tutta la sua forza, l’unico vero movimento che ha cercato di superare i nazionalismi. Il cattolicesimo liberale, quello che nientemeno viene fuori da Gioberti, Rosmini, passa attraverso il cattolicesimo liberale novecentesco e sfocia proprio in Balducci con la sua idea dell’uomo planetario. Che cos’è l’uomo planetario? L’uomo planetario è l’uomo la cui essenza non è nell’appartenenza a un popolo, a un’etnia, a un paese, ad una nazione ma è nella sua appartenenza al genere umano.

Saccardi. Essere cittadino del mondo: questa era la prospettiva di Ernesto Balducci. E questa era, forse, la sintesi ultima del suo pensiero.

Givone. Da dove viene questa idea che sopra le nazioni c’è l’umanità e che l’umanità è la vera cittadinanza, e che tutti siamo cittadini del mondo? Viene da Gioberti. Noi oggi deriviamo da Gioberti, che aveva proposto le nazioni unite, però presiedute dal papa. Noi leggiamo questo in forma di teocrazia, ma non è così. Gioberti si appellava a un principio spirituale di ordine superiore che finalmente superasse i nazionalismi, i particolarismi statali, nazionali; questo voleva. Allora, il tema è quello dell’universalismo. Balducci lo aveva capito perfettamente, l’universalismo cattolico non è quello che fa della Chiesa cattolica la sola vera Chiesa e che pretende che le altre stiano al loro posto. Balducci aveva infatti capito che l’universalismo non è tanto della Chiesa, ma dell’uomo, dell’uomo planetario, che è il vero custode di questa vocazione. Cosa è accaduto? È accaduto che, piaccia o non piaccia, a tenere alta la bandiera dell’universalismo siano stati i comunisti. Può spiacere, ma nel Novecento è il comunismo che ha voluto l’internazionalismo, non il comunismo staliniano intendiamoci…

Saccardi. Infatti, c’è anche l’internazionalismo dei carri armati di Praga e a Budapest, che era un modo singolare di intendere questa istanza.

Givone. Certamente, ma sai, per dire, la Chiesa cattolica è anche la Chiesa degli inquisitori, ma non per questo la Chiesa cattolica non è anche la Chiesa di don Milani. Il comunismo ha, bene o male, (più male che bene perché ci sono state queste deviazioni, Stalin che fa il comunismo in un Paese solo, Breznev e tutto quello che ne è seguito) e nonostante tutto, tenuto in piedi questa bandiera. Allora, ecco perché questi preti hanno guardato con simpatia al movimento comunista, che non è tanto questo o quel movimento comunista, perché non si sono mai lasciati coinvolgere e strumentalizzare, non hanno mai fatto gli utili idioti, anche se qualcuno ha detto che erano anche questo; hanno guardato ad un ideale, l’ideale che i nazionalismi del Novecento – che hanno prodotto tutti i disastri che hanno prodotto, hanno prodotto i nazismi, i fascismi – possono e devono essere superati da una visione internazionale. E loro guardavano con simpatia ai rossi per questo motivo, non per altro.

Saccardi. E questo è giusto, infatti è stato un percorso storico e ideale di grande significato, che ha spostato culturalmente il discorso molto in avanti e che ha prodotto esperienze di vita, importanti. Con un punto debole e con una fragilità di fondo, però, che mi pare di ricordare tu stesso hai sottolineato in un articolo o in un’intervista. Quale era il limite di queste esperienze? Io credo, o così almeno mi pare di aver capito, che La Pira, don Milani, anche se viveva nel poggio di Barbiana (ma ben attento a quel che succedeva nel mondo), e Balducci abbiano puntato su questa ipotesi pensando e sperando, in cuor loro, che il comunismo «reale» fosse un’esperienza riformabile; hanno puntato certamente sul comunismo come interlocutore, pensando che esso avesse in sé il germe possibile della riforma e di una sua «umanizzazione». La Pira che va a Mosca e dice «Sotterrate il cadavere dell’ateismo di stato» esprime questa esigenza. Un’ipotesi, quella dell’autoriforma di quei sistemi, che si è rivelata storicamente infondata: lì è si è toccato il limite di una prospettiva storica di incontro o di dialogo su cui si era puntato. Credo di aver capito, che Balducci, negli ultimi anni, l’abbia vissuto drammaticamente il crollo del Muro, la fine di quelle esperienze, il rivelarsi di una irriformabilità o comunque di una riforma che, pur vagheggiata, non si era poi mai verificata. Lì si è toccato con mano ed è venuto drammaticamente alla luce un elemento di debolezza di un percorso, la cui nobiltà di ideali e di intenti è peraltro, fra noi, fuori discussione. Non so sei d’accordo.

Givone. Indubbiamente. L’unico comunismo che abbiamo conosciuto è stato quello «reale», e il comunismo «reale» non solo non si è riformato ma è imploso. Hanno creduto nella riformabilità del comunismo reale? Può darsi che io abbia dato una risposta diversa in altre occasioni, adesso tendo a dire che il loro sguardo era puntato più sul comunismo ideale. Questo vale sia per Balducci ma anche per La Pira, il quale era un anticomunista da un punto di vista ideologico, ma che nonostante questo riconosceva che nel comunismo, reale o ideale che fosse, ci fosse se non un principio di riformabilità, la memoria di qualche cosa di irrinunciabile, la memoria dell’oltre.

Saccardi: Mi pare di ricordare una battuta, attribuita a La Pira, che una volta disse «Dio quando creò il mondo, lo creò comunista»; è una battuta che rivela tutto un modo di pensare.

Givone. Mi è capitato recentemente di leggere le lettere che si scambiarono La Pira e Betti, il suo maestro, grande studioso di diritto romano, che ha insegnato anche qui prima di andare a La Sapienza. Betti era un fascista e La Pira fin da subito, era poco più di un ragazzo quando lo ha chiamato qui a Firenze a insegnare, non ha ceduto di un niente di fronte al maestro, rispetto al nazionalismo fascista. Lui non faceva che ricordare come il Diritto romano, per sua natura è internazionalista, è il diritto delle genti, al netto del fatto poi che i Romani avessero fatto quello che hanno fatto, piegando il diritto delle genti spesso ad una politica di oppressione.

Saccardi. Il Diritto romano era appaiato anche ad una cultura del dominio.

Givone. Però questo non deve impedirci di vedere, nel cuore di questa meravigliosa costruzione, l’universalismo. La Pira legava il diritto romano all’universalismo, all’universalismo del cattolicesimo. La Chiesa cattolica, per La Pira, non poteva essere altro che Chiesa cattolico-romana, per questa ragione. Di nuovo, siamo di fronte alla dialettica fra movimento ideale e movimento reale e l’Impero romano realmente è stato quello che è stato, ma se noi non vedessimo, e chiudessimo gli occhi di fronte a quello che è l’eredità dell’Impero romano, dell’Impero che ha conservato il diritto, chiuderemmo gli occhi di fronte a ciò che permetteva culturalmente nel 1936-1938 di contestare gli atti in senso nazionalistico del Fascismo e di tutti i nazionalismi dominanti.

 

Tartaglia, il prete eretico

Saccardi. Mi parli di don Tartaglia, per favore? In che senso l’esperienza di questo prete eretico, come fu giudicato e condannato dalla Chiesa cattolica, ha a che vedere con esperienze (come quelle di Balducci e Milani, ma anche Turoldo) più vicine a noi fiorentini?

Givone. Quanto mi sono fatto questa domanda… Che cosa davvero pensava quest’uomo? Tartaglia è morto nell’87, quindi sono 30 anni dalla morte, e non è che io abbia una risposta a questa domanda.

Saccardi. Tra l’altro egli aveva voluto farsi prete contro la volontà del babbo, che lo contrastava nel seguire la sua vocazione…

Givone. La sua storia è, per certi aspetti, simile a quella di don Milani, nel senso che anche egli veniva da una famiglia borghese, da una famiglia con una tradizione colta, il babbo era imprenditore, tra gli antenati c’è quel Tartaglia grande matematico a cui lui si richiama, ma nonostante questo, la famiglia è laica e anzi irreligiosa e anticattolica. Lui, forse anche per reazione, chiede e finalmente ottiene di entrare in seminario dove si fa valere per intelligenza, devozione e spirito religioso, tanto che (su questo però non ho la certezza) prese a ben volerlo nientemeno che quello che sarebbe diventato Pio XII, allora cardinale Pacelli. A questo giovane prete, appena uscito dal seminario, affida degli incarichi importanti in Vaticano, ma lui si lega a Buonaiuti, al modernismo, e questo rappresenta una prima ammonizione. Allora lascia Roma e insieme con Assagioli, Capitini e Pettazzoni, tre perone che più diverse non potrebbero essere, tutte e tre non cristiane o quanto meno non cattoliche, fondò un movimento, nel 1947, al quale partecipano, e questo è già un punto importante, figure le più diverse: un giovanissimo Gozzini, Sergio Quinzio.

Saccardi. Quinzio ha anche pubblicato qualcosa con Tartaglia (che avrà una sua attività editoriale): un suo libro, mi pare…

Givone. Dunque, Quinzio ha pubblicato quasi tutte le sue cose da Adelfi e ha fatto da mediatore con Adelfi, con Calasso, per la pubblicazione di alcuni scritti di Tartaglia, che sono soprattutto due: Esercizi di verbo, guarda caso, che sono aforismi e poesie dette con un certo understatement esercizi di verbo, ma il verbo è precisamente quel verbo a cui sempre si ritorna, la centralità della parola, e un altro scritto intitolato La fine

del problema di Dio, o qualche cosa del genere, Tesi per la fine del problema di Dio, che è stato pubblicato recentemente, 7 o10 anni fa. Tartaglia era morto ormai da anni, ma Quinzio aveva fatto da mediatore con Calasso, prendendo dall’archivio, che contiene una quantità inverosimile di appunti e di scritti, quelli che tra l’altro si sono salvati dalla distruzione, perché Tartaglia come mi diceva «Faccio come Penelope, la notte tesso la mia tela e di giorno la distruggo». Comunque sia, andiamo con ordine. Tartaglia fonda questo gruppo, che si chiama «Movimento di religione», che però dura poco, si rompono i rapporti tra di loro, e lui tre anni dopo – nel frattempo Quinzio, Gozzini ed altri avevano continuato a seguirlo, soprattutto Giulio Cattaneo che scrisse il primo libro su Tartaglia, L’uomo della novità, una specie di biografia – e lui, nel frattempo viene scomunicato «vitando», fonda questo centro in Via di Ponte a Ema, una villa che gli era stata regalata da qualcuno a lui legato, il «Centro per la Realtà Nuova». Che cosa facesse? Io ne ho parlato con Quinzio, ho letto il libricino di Cattaneo, bello peraltro, nessuno che sia venuto a capo di quello che sia il nodo di fondo.

Saccardi. Quali erano le tesi di fondo?

Givone. Bella domanda. Io, naturalmente, andavo da lui ripromettendomi di trovare una risposta: che cosa pensa davvero quest’uomo? La risposta non me la sono data allora, te la do ora, avendoci pensato a lungo, sulla base dei libri che nel frattempo sono usciti e di quello che lui mi diceva in quegli incontri che avevano qualcosa di surreale. Io l’avevo conosciuto grazie a Quinzio che l’aveva invitato, e lui aveva accettato, a cena a casa mia, a Fiesole, nella chiesa di padre Turoldo che mi aveva affidato lasciandomi libero di fare una comunità, neanche proprio una comunità, un centro di cultura. Turoldo conosceva Tartaglia e quando gli parlai di lui era contentissimo che Tartaglia fosse uscito da quella specie di clausura dove si era rintanato, perché nel frattempo si era poi sposato, ma la moglie era andata a vivere a Parigi e lui viveva lì solo, lavorando di notte, scrivendo, tessendo questa tela e di giorno distruggendola. Io ricorderò sempre quella cena: avevo davanti un uomo che era ormai, come dire, partito per la tangente verso i cieli della metafisica più nascosta, più mistica e che allo stesso tempo sapeva essere amichevole come nessun’altra persona al mondo. Ricordo di una volta nella quale parlò della differenza, che sta tutta nel modo di pronunciare la zeta, fra le varie forme di zampone, e dietro questa z c’erano mondi: il zampone di Parma, il zampone di Reggio, il zampone di Bologna e son tutti mondi incredibili, lui che viveva di pane e acqua, perché realmente viveva così. Però il mondo delle cose concrete lo affascinava infinitamente. Nacque una certa amicizia. Mi invitò ad andare a trovarlo. «Vieni a trovarmi – a un certo punto lui mi dava del tu e io gli ho sempre dato del lei – però, ti prego, dammi un colpo di telefono. Io non rispondo, ma tu fallo squillare tre volte e se dopo tre volte che ha squillato tu senti che qualcuno alza e mette giù, ecco, vuol dire che io ho ricevuto il messaggio e che tu puoi venire». Una volta al mese chiamavo e andavo a trovarlo e lui mi riceveva in una grande stanza dove lavorava e dove non c’erano tanti libri, pochi libri su una scrivania, alcuni messi un po’ da parte e altri conservati altrove. Faceva delle domande e poi cominciava a parlare. E di cosa parlava soprattutto? Ecco, parlava delle cose ultime, parlava dei «Novissimi», parlava di ciò che era un po’ uscito dall’agenda della teologia della Chiesa, che si occupava di altre cose, o perlomeno sembrava occuparsi di altre cose.

Saccardi. E cosa diceva dei Novissimi?

Givone. Inferno, Purgatorio, Paradiso, il Giudizio universale, tutto ruotava intorno al problema della separazione assoluta del bene e del male, perché il bene e il male che noi conosciamo sono comunque intrecciati, mescolati, impossibili da separare, ma allora se non c’è un paradigma assoluto che li separi, allora, alla fine quello che si crede cattivo in realtà può essere anche buono, quello che è buono in realtà è cattivo, e invece no, invece bisogna tenerlo fermo questo paradigma. Il Giudizio universale, quello che alla fine separa i peccatori e i santi, i sommersi e i salvati, il Giudizio è l’asse intorno a cui ruota tutto il mondo, il senso del mondo, ma se così stanno le cose, se il Giudizio è la cosa ultima, allora hanno un che di ultimo anche il Paradiso e l’Inferno. E la Creazione, l’opera della Creazione che per sempre resta, per così dire, ferita dall’Inferno, dove sono i dannati, può dirsi davvero una creazione riuscita? O non invece una creazione fallita? Un Dio che presiede l’Eterno, dopo il Giudizio universale, un eterno in cui c’è l’Inferno può ancora dirsi un Dio misericordioso? Ecco, lui di fronte ai Novissimi arrivava a prospettare l’idea di dover rinunciare a Dio, perché Dio ci mette in difficoltà, perché Dio ci costringe a pensare a una redenzione mancata, a un’opera della creazione zoppa.

Saccardi. «L’Inferno esiste ma è vuoto», mi pare dicesse Von Balthasar.

Givone. L’Inferno esiste ma è vuoto, non sarà più vero il contrario: che l’inferno non esiste ma è pieno? Guardati intorno, nessuno è pronto a credere che ci sia l’Inferno però tutti se lo costruiscono nella loro anima, nel loro cuore.

Saccardi. Questa è un’osservazione molto interessante.

Givone. Sì, ma lui si involveva in questi pensieri senza fine. Erano proiettati in un universo aperto dove non c’è punto d’arrivo, non c’è neanche origine, dove non si può neanche dire forse in principio era la Parola, perché alla fine la Parola si perde nel nonsenso se persino il Giudizio universale la distrugge, distrugge l’idea di redenzione. E ascoltandolo rimanevi senza fiato.

Saccardi. Quindi, mi pare di capire dal racconto che ne fai che al centro dei suoi interessi non fossero i temi sociali, a differenza di Milani, Balducci e di altri.

Givone. Erano i temi metafisici, della mistica. Lui ha un’immagine bellissima: «Io nelle notti insonni ho un’immagine che mi perseguita, l’immagine della redenzione come una cometa che attraversa il cielo, sfiora il nostro pianeta, sfiora appena la Terra e, per un attimo, sembra che la redenzione sia davvero cosa fatta, ma la sfiora soltanto la Terra e poi si inabissa nel nulla eterno». Ecco, Tartaglia, quando parla della fine del problema di Dio, oppure della realtà al di là della realtà, del fatto che tutto qui e ora è preda del Maligno, citando San Paolo, tutto è negativo, tutto è negatività, ma la negatività si rovescia nella doppia negatività che diventa positività, ma anche la positività così pensata è negativa, evocava una logica che non è logica, è dialettica, ma una dialettica che è più che dialettica, una dialettica paradossale, fatta di continui capovolgimenti. Citava Pascal «Le renversement continuelle de pour ou contre – e continuava lui – il rovesciamento continuo dell’argomento a favore e dell’argomento contro è senza fine». Ecco, questo faceva pensare a una forma di ipervittimismo, ma non è così. Tornando alla tua domanda: ma davvero allora Tartaglia, abbandonando i temi sociali, dedicandosi completamente a questa metafisica si è affacciato a un orizzonte ultravittimistico (la cometa che si inabissa), del non senso. La risposta che ti do è che questa non è l’ultima parola di Tartaglia, c’è in lui qualcos’altro. Ma che cosa? Qualcosa che è ancora più lontano dal nostro orizzonte di quanto non sia il Giudizio universale o i Novissimi, di quanto non siano le cose ultime. E che cos’è questa parola al di là di ogni parola? È quella che i padri della Chiesa, che lui leggeva, a cui era tornato, chiamavano la palingenesi, l’apocatastasi…

Saccardi. La salvazione finale del tutto…

Givone. Anche dell’Inferno…

Saccardi. Anche degli angeli perduti…

Givone. Anche degli angeli perduti, nonché di tutte le forme di negatività che restano o che sembrerebbero restare nell’eterno. C’è un eterno più eterno dell’eterno. Come si fa a pensare l’eterno più eterno dell’eterno, c’è da impazzire, ma lui pensava questo. E non lo pensava perché gli era venuta questa idea al limite, la pensava perché aveva trovato nella tradizione di quel cattolicesimo a cui nonostante tutto apparteneva, aveva trovato l’idea di palingenesi, l’idea di apocatastasi, l’idea di rigenerazione totale di tutte le cose. Questo era Tartaglia. Io non conosco un altro, parlo di preti o di teologi, filosofi o pensatori che abbia osato tanto. Tu dici, ma i risultati? Se io vado a vedere che cosa ha lasciato, quel poco che ho visto io, quel tanto che altri hanno visto e che è comunque depositato nell’archivio che spero che qualcuno prima o poi veda e studi, ma sulla base di quello che ho potuto accertare io i risultati sono deludenti. Perché lui evoca l’«apocatastasi», un po’ come il mago che usa la parola magica, ma poi dirti che lui abbia davvero pensato, portato alla luce con una qualche razionalità un concetto come quello, io non lo so. Magari qualcuno andrà a studiare l’archivio che, come sai c’è, è conservato ciò che si è salvato, perché lui molto ha distrutto e che sta a Ponte a Ema, dove c’è un uomo, il figlio della signora che lo ha accudito negli ultimi anni, che credo possegga la chiave di questo archivio e al quale credo sia possibile rivolgersi. Io però rendo testimonianza di un’avventura spirituale grandiosa, ma anche, per forza di cose, improduttiva, perché non so dove è andato a parare quest’uomo. Quello che so è che negli ultimi anni lui si è avvicinato non soltanto ai Padri della Chiesa, e tieni presente che negli anni tra il 50 e l’80 lui ha lavorato al superamento di ogni realtà, anche della realtà del cristianesimo. Il cristianesimo gli appariva nient’altro che un’abside morta, però alla fine della sua vita ha ritrovato i padri della Chiesa…

Saccardi. Negli ultimi tempi mi pare si sia riavvicinato alla Chiesa cattolica.

Givone. Negli ultimissimi tempi andava a Messa, si fermava negli ultimi banchi, restava lì per delle ore in chiesa, la domenica, durante le funzioni, poi si allontanava. Un altro tratto: andava nei negozi di antiquariato e comprava le pissidi, le acquasantiere, addirittura i turiboli, cioè tutti quegli oggetti che facevano parte in qualche modo della sua storia. Sai cosa faceva? Faceva delle buche nel giardino e li nascondeva perché nessuno si sognasse più di usarli ad uso profano nelle case borghesi.

 

Una generazione «atea»?

Saccardi. Per andare verso la conclusione. Quello che emerge da tutto questo percorso, sia da quello dei tre preti «di frontiera» che abbiamo citato e a cui dedichiamo il volume, sia da un’esperienza come questa, che ha una sua particolarità, è il filone di un cristianesimo rinnovato, di una rigenerazione dell’esperienza di fede o religiosa, una ricerca che ha una sua complessità, una sua storia. Cosa rimane e cosa è possibile trasmettere di tali esperienze alle generazioni nuove in un mondo così mutato? Si dice che quella di oggi (anche se le definizioni valgono quello che valgono), sia la prima «generazione atea» della storia, come se non ci fosse più memoria di tutto questo e come se una storia di questo tipo fosse difficile da consegnare ai giovani degli anni Duemila. Certo, c’è la novità rappresenta da un papa come Bergoglio, papa Francesco, che però sembra vivere in solitudine anche dentro l’universo cattolico medesimo. Qui c’è una domanda cruciale che forse va posta: il papa che va a Barbiana ha con sé la Chiesa che lo accompagna?

Givone. Forse è Barbiana che diventa Chiesa, che si autoafferma e dice «Francesco, Barbiana c’è». Ma veniamo alla tua domanda. Se il mondo nel quale viviamo è quello a cui tu hai fatto cenno, quello della prima generazione atea, secolarizzato, tutto orizzontale, beh, in questo mondo alla metafisica di Tartaglia o ai Novissimi non ci pensa più nessuno. L’uomo planetario di Balducci, nel mondo dove trionfa il populismo, sembrerebbe di nuovo emarginato, ma anche il neoumanesimo di Turoldo, del quale abbiamo parlato poco. Turoldo si è laureato con Bontadini, con una tesi sull’uomo, sull’umanità dell’uomo, e ha intitolato la sua prima rivista, nel 1943/44, quella che ha raccolto intorno a sé un gruppo di persone che poi hanno aderito alla Resistenza, «L’uomo ». Il neoumanesimo, potremmo chiamarlo così, che è il tema di fondo di Turoldo, anche questo neoumanesimo, l’uomo, a questo nostro mondo così profondamente antiumanistico da tutti i punti di vista non dice più nulla, l’uomo della tradizione umanistica, incarnazione di Dio, ecco, altro tema che sembra non dire più nulla.

Saccardi. Oggi c’è l’«uomo tecnologico»…

Givone. Oggi c’è l’uomo tecnologico, oggi c’è l’uomo estetico, tutto meno che l’uomo. Allora, se la parola di quei preti si caratterizza, in maniera anche molto diversa in quel modo lì, sembra una parola lontana, che ben pochi sono disposti ad ascoltare. Ma io qui mi chiedo se davvero le cose stanno proprio così, anzi se proprio perché parola altra, parola non accordata al rumore di fondo di oggi, secolarismo, orizzontalismo, tecnologismo, nichilismo, proprio perché parola che viene dall’aldilà di tutto ciò, che viene da una profondità o da una lontananza che vogliono davvero fare un passo coraggioso aldilà di questa palude nella quale versiamo, allora è parola preziosa proprio per questo, proprio perché parola che viene da lontano, dal profondo, dall’aldilà della palude in cui versiamo. E questo vale per Tartaglia. Ma parliamo di un altro che aveva ben poco interesse alla dimensione sociale, che si avvicina a Tartaglia, Divo Barsotti, la sua teologia della presenza. Divo Barsotti dice qualcosa che all’uomo contemporaneo sembra, non dico una bestemmia, ma un’assurdità. Egli dice «Dio è presenza». E come diceva questo? Lo diceva proprio perché il mondo è la negazione di Dio. Com’è che noi percepiamo questa negatività? Proprio perché disponiamo di un paradigma che è Dio. Pensavo al passo di Primo Levi, un ateo dichiarato, il passo in cui descrive, e descrive è la parola giusta perché ne rende conto nel suo diario, l’uccisione di un bambino. E che cosa dice nel punto culminante? Questa uccisione è preceduta da una banda di prigionieri che sono costretti a suonare musiche patriottiche. Tu immagina. E che cosa sente? Il silenzio di Dio? No, «La voce forte come un tuono del Dio in cui non credo». Cioè in questa totale negazione di ogni dignità e quindi di ogni divinità dell’uomo, quello che si sente è il «no» forte come un tuono di chi dice «Così non è, così non deve essere». Un «no» tremendo. Cosa sto dicendo? Sto dicendo che questo mondo così alieno da riconoscere la presenza della dignità dell’uomo, che l’uomo è pronto a farne strage come ne fa in tutti i modi, questo mondo è abitato da una presenza, che è un paradigma evocato proprio da ciò che nega questo paradigma. Qual è la cosa più tremenda? Il neanche rendersi conto del niente in cui versiamo, del niente in cui siamo caduti. Se ce ne rendiamo conto, è in forza di un principio che contrasta questo niente. Questo principio Divo Barsotti lo chiamava «La presenza di Dio in quello che apparentemente è il suo più totale disconoscimento». Stranamente quell’uomo, il credente Divo Barsotti, si collegava all’ateo Primo Levi. Pensa che Divo Barsotti aveva scritto un saggio su Leopardi, altro ateo, intitolato La religione di Giacomo Leopardi, dove si dimostra che proprio il senso di caduta, di perdita, di smarrimento dell’uomo nel mondo, a cui Leopardi dà voce, proprio questo sentimento evoca il suo contrario.

Saccardi. Non c’è dubbio.

Givone. Non si può essere così consapevoli del nulla in cui versiamo se non alla luce di un principio, che si può anche non chiamare Dio, ma che è il suo contrario. Ecco, ti dico questo. Io in quegli anni vedevo ogni tanto – abitava qui di fronte – Sebastiano Timpanaro, il quale aveva letto Leopardi in ben altra chiave: il Leopardi che fa dell’ateismo il punto di forza per credere in un futuro possibile dell’uomo.

Saccardi. Una lettura marxista.

Givone. Una lettura marxista di Leopardi. L’uomo liberato dalla superstizione. L’illuminismo di Leopardi. Ecco, io in quegli anni avevo dato il mio saggio su Leopardi a Timpanaro. Ci incontravamo la mattina presto, comprando il giornale, e scambiavamo due parole. In una di quelle occasioni Timpanaro, sorridendo mi dice «Ah, mi sembra…» e ha evocato Divo Barsotti. Il marxista Timpanaro che legge in una chiave illuministica Leopardi, però sapeva di Barsotti e in un mio scritto rivede ciò e poi cita anche un’altra persona, George Steiner, l’autore di Vere presenze. Le vere presenze sono le presenze di queste voci, di queste realtà metafisiche, che non sappiamo che cosa siano, che non possiamo identificare, a cui neanche possiamo dare nome, ma che ci servono per misurare il nulla in cui versiamo. Un ateo che parlava di Vere presenze. Ora, con questi autori inizia a costituirsi qui una costellazione. Davvero non hanno nulla da dirci? A me sembrano invece molto preziosi.

Saccardi. È una sorta di inattualità che ci raggiunge e che ci parla.

Givone. Essi ci obbligano a prestare orecchio a ciò che, ahimè, troppo a lungo abbiamo messo a tacere, non abbiamo più ascoltato: Vere presenze, la religione in Leopardi, l’uomo incarnato, oppure i Novissimi di Tartaglia. Devi gettare sul mondo uno sguardo che non sia prigioniero del mondo. La libertà come liberazione di cui parlava Milani, l’uomo come Dio incarnato, come Cristo, in ogni uomo c’è il Dio incarnato e questa è una forma di vera presenza, non è una forma di metafisica? Lo è perché in Turoldo, la sua antropologia umanistica, che ha però la sua radice in quella Bontadiniana, è quella metafisica. Allora, tutte queste cose sono inutili? Non ci servono? E non sono forse la cosa più utile e più necessaria oggi? In una parola: la capacità di guardare il mondo dal suo aldilà.

Saccardi. Poi ci sarebbe anche da dire che tutti quelli citati hanno avuto questa estrema fedeltà all’uomo, questa immersione nella storia, ma avevano anche un’altra caratteristica, (Balducci, sicuramente, ma non solo; ricordo di aver parlato con lui personalmente di questo tema, ed egli ne ha d’altronde scritto): quella di coltivare la fede in un oltre, nell’idea della Resurrezione. Balducci era, dal punto di vista culturale, radicalmente «mondanizzato», evocava una prospettiva di orizzontalità e di immersione nella «polvere della storia». Ma sul tema di fondo della Resurrezione, come chiave per la lettura del destino umano, egli era chiarissimo nel non leggerla come una semplice metafora.

Givone. Arriviamo sempre lì, che poi questi preti, o non so se chiamarli profeti (il cardinale Martini li ha chiamati così, mi pare sempre in questo articolo che ho citato prima: egli sul letto di morte di Turoldo gli abbia detto «Caro padre David, noi ti abbiamo dimenticato o addirittura disconosciuto, ma il destino dei profeti è di essere disconosciuti». Può darsi che sia il destino dei profeti e che questo destino sia proprio quello che noi dobbiamo oggi far trionfare. Sono disconosciuti, appaiono da una lontananza, ma non è proprio questa la loro forza? Ti racconto, per chiudere, questo episodio a proposito di profeti, anche se io uso mal volentieri questo termine.

Saccardi. Sì, «profezia» è un termine impegnativo e, a volte, ha un suono anche un po’ troppo totalizzante.

Givone. Usiamola con un po’ di ironia, come appunto in questo caso. Nell’88 io ero tornato a Torino, nella mia sede, come accade nel gioco universitario, che doveva essere quella definitiva, e ho incontrato a un convegno padre Balducci. Sono andato verso di lui e lui lì per lì non mi ha riconosciuto. «Padre, sono Sergio…» «Ah, ma che faccia ti è venuta! – mi fa – sai, non ti riconoscevo, una faccia da torinese! E cosa ci fai qui a Torino?» «Sai, sono tornato qui a Torino ormai da cinque anni, è la mia città». «No, no, no, non va bene, tu devi tornare a Firenze». Come si dice, una battuta, ma nel 91/92, quando lui è morto io sono tornato a Firenze, sperando che non mi sia venuta più la faccia da torinese!