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Abbattare i muri, costruire i ponti
Intervista a Mario Primicerio

Firenze come ponte verso il Nord dell’Europa e verso il Mediterraneo. Un’idea lapiriana che conserva, intatta, la sua attuale validità. Ma oggi, Firenze, sia per quel che riguarda il suo ruolo internazionale sia in relazione ai suoi interni nodi problematici (decoro urbano, mobilità, infrastrutture), deve interrogarsi ed avere il coraggio di rinnovarsi per poter essere una «città del mondo» all’altezza delle sfide degli anni 2000.

 

D. (Saccardi) Iniziamo chiedendo a Mario Primicerio un suo parere sull’iniziativa che il sindaco Nardella ha assunto in occasione dell’anniversario del convegno di Giorgio La Pira con i sindaci del mondo: si terrà a novembre un convegno di ispirazione lapiriana con alcuni sindaci delle città del mondo. Che analogie vedi? Quali differenze con l’evento di 60 anni fa? Perché, evidentemente, quando La Pira convocava i sindaci del mondo c’era la Guerra fredda e allora convocare il sindaco di Mosca o di Pechino aveva una importanza epocale; ma oggi il mondo è cambiato. Hanno ancora un senso questo tipo di iniziative? Possono essere ancora produttive o rischiano di essere puramente celebrative?

R. Il rischio di una deriva celebrativa c’è sempre. E certamente il mondo è cambiato e non si può riproporre un convegno di sindaci come mezzo di dialogo tra soggetti che non si parlano, perché oggi ci si parla molto, forse si comunica un po’ meno: occasioni e canali per scambiarsi opinioni ve ne sono molti. Però un convegno del genere, se serve a riportare l’attenzione dei partecipanti, ma anche di chi vi assiste, sul fatto che la diplomazia e i rapporti fra le comunità sono cose troppo serie per lasciarle solo agli Stati e alle cancellerie, allora è un fatto importante. Riprendere un’idea, che di fatto è totalmente scomparsa dalla cultura politica esistente almeno in Europa (gli Stati Uniti sono una realtà diversa, che si è considerata da sempre talmente importante che non aveva bisogno di rapportarsi con l’esterno se non in termini di rapporti di forza), che l’interesse all’altro, cioè la politica estera, è qualcosa che interessa tutti e, dunque, non vi è più una vera differenza fra politica interna e politica estera. Questo lo vediamo anche in quei giornali europei, tra i migliori, che erano abituati a dedicare grande spazio alla politica estera e che oggi invece lo hanno quasi eliminato. Non vi sono più inviati, i grandi studiosi dei fatti internazionali, ma ci si limita alle agenzie che con un po’ di copia-incolla da Internet compongono le notizie. Quindi non c’è più una riflessione, un tentativo di comprendere come i rapporti internazionali stanno cambiando. Ora, non vogliamo pretendere troppo da questo convegno, che comunque ha le sue difficoltà, però se riesce a riportare l’attenzione sul fatto che in fondo siamo una piccola cosa nel mondo e quindi abbiamo bisogno di rapportarci con gli altri e interessarci del nostro futuro comune, senza delegare questo interamente a chi ne ha le competenze istituzionali, questo sarà comunque un bel risultato.

D. (Siliani) Matulli ha scritto su questo nostro volume una riflessione che parte proprio dal convegno lapiriano del 1955 e legge la vicenda sotto il profilo della cultura della città. All’epoca, dice Matulli, quel convegno e ciò che attorno all’esperienza lapiriana si muoveva, non senza contrasti, informava di sé l’identità della città. Oggi invece l’identità è essenzialmente la rendita (la Disneyland del Rinascimento). Ecco, forse, il convegno di oggi è meno legato all’identità della città, riflette meno un pensiero attorno al ruolo effettivo di Firenze.

R. Sì, questo concetto dell’identità della città era particolarmente legato al personaggio La Pira, che aveva una grande attenzione per questo tema e lo poneva al vertice di tutto il resto. A quel tempo le polemiche contro il sindaco sostenevano che era un uomo con la testa fra le nuvole, che non si occupava dell’amministrazione concreta; il che, poi, non era neppure particolarmente vero perché è stata una delle amministrazioni più fattive nel dopoguerra. Però per lui tutto quanto era costruito intorno a questa idea di città ed è incredibile come un siciliano abbia potuto capire meglio di molti fiorentini l’anima di Firenze. Adesso i tempi sono cambiati. Intanto perché i sindaci sono «condannati» ad una routine talmente faticosa che il tempo per riflettere sui gradi destini e sull’idea di città è molto difficile da trovare. Già ai tempi di La Pira, mi ricordo che uno della sinistra laburista inglese, quando lo conobbe, ebbe a dire: «Professore, lei rispetto ai politici che conosco ha una differenza straordinaria: lei è una persona che pensa». Oggi chi fa politica, e specialmente che fa amministrazione, deve fare uno sforzo immane per trovare il tempo di pensare. Io credo che sia comunque una cosa assolutamente necessaria, ma ogni giorno diventa sempre più difficile. Credo che la spinta a costruire un’immagine di questo tipo della città, spetta sì alle amministrazioni, ma anche a chiunque fa cultura in questa città. Ognuno deve assumersi delle responsabilità, anche le persone di cultura. Mentre, tutto sommato, ai tempi di La Pira riflettere sulla grandezza di Firenze non incideva, non era importante per il city marketing; oggi invece significa parlare essenzialmente di questo. E oggi non si può più vivere di rendita: se non la si coltiva, rischia di impoverirsi; anzi, alla fine vivendo di rendita, si vive di quel turismo che, non essendo aiutato a capire la città, finisce per consumarla.

D. (Saccardi) La Pira aveva saputo usare in modo originale l’immagine della città crocevia, della città sul monte, ecc. Ma è anche vero che Firenze, ripensata non nostalgicamente e regressivamente, aveva una consistenza culturale del tutto particolare. Non solo nel mondo cattolico (Elia Dalla Costa, don Milani, don Mazzolari, ecc.), ma anche in altri ambienti culturali (Luporini, Codignola, Enriques Agnoletti). Ora, che cosa è andato irrimediabilmente perduto di quella atmosfera e che cosa può essere oggi riattualizzato? E iniziative come questa servono a far rivivere positivamente e con una prospettiva quel clima e quell’idea di città?

R. Mah, io sono convinto che la nostalgia non aiuti: quando parlo in ambienti cattolici, dico che la speranza è una virtù teologale, mentre la nostalgia no. È difficile perché non so quanto questo impoverimento e questo distacco del mondo della cultura dalla politica della città sia reversibile. Se penso ai livelli culturali che c’erano nelle assemblee istituzionali negli anni 50, ricordo che il fior fiore della cultura della città vi era presente. Le persone di cultura sentivano come un onore e un dovere esserci, mentre adesso si ha un atteggiamento un po’ snobistico verso questi consessi. Viceversa il mondo della politica riteneva allora un privilegio e un onore avere fra le proprie fila e nelle sedi della rappresentanza questi personaggi. Oggi no. Abbiamo attraversato un ventennio in cui è stata sconfitta non solo una certa idea della società progressista, ma prima ancora è stata una sconfitta culturale. Ricucire il distacco che si è determinato fra politica e cultura è davvero faticoso.

La fioritura che si ebbe nel primo dopoguerra in tutti gli ambienti politici (socialista, cattolico progressista, comunista, liberale) è stata una cosa eccezionale: la reazione alla compressione ventennale del fascismo è stata grandiosa. Poi le cose sono andate via via declinando. Il colpo di grazia l’ha dato il ventennio berlusconiano in cui si è teorizzato l’egoismo come valore. Uno dei difetti atavici della nostra storia, quello di voler far fessi gli altri, è stato nobilitato. Tornare indietro da questo non è facile. Però quello che mi aspetto, e che spero possa succedere, è una sorta di New deal fra la cultura e la politica. Eventi come quello che abbiamo citato, sono cose significative; se non se ne fa semplicemente una retorica celebrativa, come io spero, potrebbero spingere in questa direzione.

D. (Siliani) Ecco, ma siamo poi sicuri che gli eventi – per quanto grandi – siano poi capaci di innescare i cambiamenti che si attendono? Mentre l’evento del 1955 poteva essere la manifestazione di un lavoro e di una impostazione che La Pira aveva, nel mondo di oggi l’evento rischia di essere qualcosa di isolato. Mi domando se a far scoccare la scintilla che tu richiamavi per un nuovo rapporto fra politica e cultura non debbano essere piuttosto gli aspetti strutturali di governo di una città. Detta con un’immagine: forse la realizzazione della tramvia a Firenze, che nasce con la tua amministrazione e prosegue con quella Domenici, ha inciso molto di più nel cambiamento della città (forse meno nel rapporto fra politica e intellettuali) che non tanti eventi che pure in quegli anni ci sono stati. Ricordo, per esempio, nel novembre 1999, l’incontro dei leader della sinistra moderna e liberale di allora, guidati da Blair e Clinton, riuniti a Firenze per lanciare il movimento della Terza via, come alternativa pragmatica al liberalismo capitalista classico e alla socialdemocrazia, che non mi pare sia stato poi così decisivo.

R. Oggi l’attenzione è sempre molto catalizzata dagli eventi, da ciò che fa notizia; le cose che vanno sotto traccia si percepiscono con ritardo. Io non escludo che anche gli eventi, questo e altri (ad esempio il ricordo del 50° dell’alluvione nel 2016), trascinati dall’effetto mediatico che essi producono, possano effettivamente incidere. Certo, da soli non bastano. Però, credo che il saper fare debba essere sempre accompagnato dal far sapere e, spesso, per far sapere occorrono anche questi eventi che fanno un po’ di grancassa. Insomma, gli uni e gli altri insieme dovrebbero marciare congiuntamente nella giusta direzione.

D. (Saccardi) Il paradosso che viviamo è che più si va verso al globalizzazione e più la riflessione politico-culturale si provincializza; più ci sarebbe bisogno di questa diplomazia e meno c’è consapevolezza delle dinamiche internazionali. Eppure, potremmo dire che le intuizioni di persone come La Pira e Balducci sul ruolo delle realtà locali nel mondo globale non sono mai state così attuali come oggi. C’è questa crisi dello Stato nazionale, la ridefinizione dei poteri multinazionali, per cui, paradossalmente, il ruolo delle città sarebbe ora decisivo. Non trovi?

R. Assolutamente sì. Se pensiamo all’Uomo planetario, oppure al discorso che La Pira amava fare per paradossi, «gli Stati finiscono, le città rimangono», è un qualcosa che si sta manifestando. Però, per contro, di questa vicinanza con tutto il mondo, quel soggetto che dovrebbe essere l’Uomo planetario tende ad aver paura, a rinchiudersi sempre più in se stesso. Pensiamo ai fenomeni localistici o al dramma della Jugoslavia: tutto tende a dividersi più che ad unirsi. Però sarebbe più al passo con i tempi il concetto di uno Stato multiculturale di quanto non lo siano le piccole comunità che si rinchiudono in se stesse. Il fenomeno della Lega mi pare, in questo senso, tipico: la paura del diverso, la rendita politica sulla paura. Sono diventate le caratteristiche della società moderna, molto più di quello che dovrebbe essere un senso di apertura al mondo. La globalizzazione fa paura. In fondo ciascuno di noi cerca le certezze nella sua piccola cerchia. Io ritengo che i dialetti siano una ricchezza, ma il rinchiudersi in essi è il segno della ricerca di sicurezze nel già noto, che però non può darti alcuna sicurezza reale. L’idea di costruire un muro su un confine, oppure quella di un muro per separare Israele dai palestinesi, sono terribilmente antistoriche, però sono la realtà di oggi. Pochi giorni fa papa Francesco ha detto una frase che La Pira diceva spesso, «abbattere i muri, costruire ponti»; ma oggi si abbattono ponti e si erigono muri. Pensiamo al ponte di Mostar, che era un simbolo del dialogo fra diverse culture, distrutto nella guerra e poi ricostruito. Oggi invece si costruiscono muri per respingere profughi e migranti senza capire che, di fronte ad una pressione così forte per avere parità di diritti e di opportunità di una vita migliore, si possono anche alzare muri ma non si riuscirà mai ad arrestare questa spinta. Questo non può durare: i muri sono destinati a cadere e a sbriciolarsi, presto o tardi.

D. (Saccardi) Ti chiederei di tornare a qualche episodio della esperienza internazionale della Firenze di La Pira. In questi giorni, mentre parliamo, si rievoca il viaggio di La Pira in Vietnam. Ecco, come erano possibili allora queste cose? Con quali tessiture sotterranee venivano realizzate?

R. Da una parte, la situazione concreta del conflitto del Vietnam era tale per cui la ricerca di una soluzione di negoziato non si poteva realizzare per i canali ufficiali, né per iniziative di partito. Perciò era indispensabile che lo sforzo per arrivare ad un incontro avvenisse per canali non ufficiali. Era questa una caratteristica di un po’ tutto il periodo, in cui le comunicazioni erano veramente scarse. Troviamo questa stessa esigenza durante la crisi dei missili a Cuba: anche in quel caso la crisi fu risolta per l’importante opera di mediazione svolta da una persona che non era un professionista della diplomazia. Il secondo aspetto è che non tutti possono svolgere questo ruolo: vengono ricercate persone di cui potersi fidare. Proprio in preparazione alla celebrazione dell’anniversario di quel viaggio, ho cercato e riletto molta documentazione che abbiamo alla Fondazione La Pira: ho trovato che, fino dal 1955, cioè poco dopo gli accordi di Ginevra che avevano diviso in due il Vietnam e in presenza di una forte polemica dei cattolici conservatori che spingevano per spaventare i cattolici del Vietnam del Nord e indurli ad emigrare nel Vietnam del Sud, in quel periodo, Ho Chi Minh mandò un suo amico personale, cattolico, che era stato suo ministro durante il primo governo, dopo gli accordi di Fontainebleau, ancora prima della lotta anticoloniale, a parlare con La Pira, attraverso la mediazione di padre Daniélou. Gli chiese di andare a visitare – in quanto cattolico – sia Hanoi che Saigon, per far vedere che, in fondo, erano due realtà che avevano tanti tratti comuni di cultura e di storia e che era una cosa non reale paventare le persecuzioni di cattolici al Nord per incitare all’esodo al Sud e quanto fosse artificiale pensare di dividere in due il Paese solo perché si ricorreva ancora alla politica dei cordoni sanitari per contrastare il temuto espansionismo cinese. Quindi, non fu un caso che, dopo le iniziative di La Pira, arrivasse una lettera da Ho Chi Minh che lo invitava in Vietnam per rendersi conto della situazione ed affidargli una missione così delicata. Teniamo conto che, pochi mesi prima, una missione del Commonwealth non era stata accettata ad Hanoi semplicemente perché non era il canale considerato opportuno per questo genere di trattativa.

D. (Saccardi) Concluderei con una riflessione sull’oggi. Firenze, per adempiere la sua missione nel mondo, deve affrontare i suoi nodi strutturali e deve saper contrastare una doppia riduzione: da una parte a città provinciale nonostante la sua grande memoria, dall’altra a città Disneyland, puro oggetto del desiderio di consumo. E per far questo occorre una visione culturale alta e adeguata, ma anche saper risolvere le questioni aperte, per essere una vera città moderna degli anni 2000. Secondo te, che sei stato anche sindaco di Firenze, quali sono i nodi cruciali oggi sul tappeto?

R. Certamente il problema infrastrutturale è quello centrale. Abbiamo un ritardo decennale sulla realizzazione della rete tramviaria. Vediamo come funziona bene, oltre ogni aspettativa, l’unica linea tramviaria che è stata costruita. Io stesso, parlando all’epoca con Leonardo Domenici, ritenevo che una sola linea tramviaria avrebbe anche potuto essere inutile, perché il problema è la rete, la interconnessione con le linee ferroviarie (che sono una ricchezza per Firenze e che invece, per anni, l’hanno strozzata) e una rete opportunamente rimodulata degli autobus. Questo è imprescindibile. Lo è altrettanto il fatto di liberare tutti i binari esistenti di superficie dell’area metropolitana (quella che comprende Prato e Pistoia) per il traffico metropolitano dei pendolari. Il progetto di far passare i treni a lunga percorrenza in sotterranea non è dovuto a un capriccio: nessuno forse vorrebbe doverlo fare, però è essenziale separare – come in tutti i paesi moderni – le linee a lunga percorrenza da quelle locali. Se non si fa, ogni volta che un treno di lunga percorrenza ha un ritardo, blocca a catena tutti i treni a media e breve percorrenza, quelli usati dai pendolari, spinti così a utilizzare l’auto, intasando i canali di accesso alla città. È un fatto assolutamente indispensabile: la cosiddetta «cura del ferro». Altro fatto importante da evitare è l’effetto ciambella, cioè una città che si svuota di funzioni residenziali nel centro e si espande, occupando sempre nuove aree, in periferia. Questo, almeno nell’espressione di volontà, nella bella immagine dei «volumi zero» lanciata a suo tempo dal sindaco Renzi, è un’idea più che giusta. Si tratta di realizzarla favorendo la permanenza nel centro storico della residenza e della vita, perché non sia soltanto il luogo della movida notturna. Io sono affezionato a quella che considero la realizzazione più importante della mia amministrazione, cioè il recupero delle Murate: secondo me è l’esempio di una amministrazione che cerca di riportare e mantenere la vita all’interno del centro cittadino. Il nuovo regolamento urbanistico, con quell’idea di fungibilità tra i vari contenitori, va nella giusta direzione. È il concetto che noi avevamo chiamato della «transumanza», non so quanto sia possibile realizzarlo effettivamente, però è importante: il diritto a costruire, che puoi ottenere, ma puoi trasferirlo da un posto all’altro in funzione delle esigenze di direzione che la politica dava nel regolamento. Si tratta cioè di liberare spazi e compattare altre zone, secondo l’impostazione di Richard Rogers della città che non si può permettere buchi o aree totalmente inutilizzate all’interno.

D. (Siliani) Nell’idea di riportare vita e residenza nel centro, forse la scelta del passaggio della tramvia dal Duomo o comunque dal centro era una questione decisiva, perché avrebbe riconnesso parti distanti della città (Scandicci e Careggi), «funzionalizzando» il centro. Forse, a cinque anni dalla pedonalizzazione di piazza del Duomo, possiamo dire che la qualità della vita dei residenti in centro non ha avuto beneficio da quella scelta.

R. Sicuramente il sistema di trasporti urbani a Firenze aveva un carattere di radialità, in cui tutto passava dal centro, che probabilmente era un peso eccessivo per il centro storico. Quindi, qualcosa andava ripensato globalmente. Il tema delle tramvie a questo doveva, deve, servire. Certo, il fatto che gli autobus non passino più dal centro, provoca qualche disagio per i residenti. La tramvia doveva risolvere questi problemi. Io credo che una tramvia opportunamente disegnata e progettata poteva essere compatibile con queste esigenze. Non sono sicuro che, dal punto di vista economico e da quello della fruibilità del sistema, l’idea di interrare la tramvia sia plausibile: i tempi che si risparmiano nel percorso, si ripagano nella discesa e nella salita. Senza contare che i lavori diventano estremamente più invasivi di quelli per la sua realizzazione in superficie. La cosa insopportabile, perché segno di disonestà intellettuale, è che le stesse persone che sostengono il passaggio in sotterranea del tram o delle metropolitane, sono quelle che si oppongono al passaggio in sotterranea del treno. Teniamo presente che le città dove i trasporti pubblici si svolgono necessariamente in sotterranea hanno una distanza media fra una stazione e l’altra di 7-800 metri: se facciamo centro in piazza del Duomo, nel raggio di meno di 1 chilometro si raggiungono i viali di circonvallazione, questo dimostra l’insensatezza di questa idea. Firenze non è abbastanza grande per questa soluzione. Quindi io penso che l’attraversamento del centro con la tramvia sia indispensabile. Certamente, l’area di piazza del Duomo pedonalizzata offre oggi al turista e al cittadino uno spettacolo magnifico. Questa città non è stata programmata per i flussi di persone che abbiamo oggi, quindi non è affatto un problema banale da risolvere.

D. (Siliani) Siamo a fare l’intervista in una facoltà scientifica, Matematica. Firenze ha visto realizzarsi il Polo Tecnologico di Sesto Fiorentino, tuttavia non riesce ancora a essere una città attrattiva per gli studiosi: non è una città in cui si viene per studiare.

R. Io non mi rammarico che tanti ragazzi pensino di andare a studiare all’estero: è un fatto e un’esperienza importante. Però mi rammarico che non vi sia un flusso in senso contrario. Questo per diverse ragioni. Intanto perché i nostri istituti superiori non hanno avuto i mezzi e forse anche la lungimiranza di curare l’accoglienza degli studenti stranieri, come invece avviene in molti altri paesi. Poi noi potremmo essere attrattivi anche per le discipline scientifiche e tecniche (non dimentichiamo che il metodo sperimentale è nato in questa terra), però ancora di più per tutte le discipline delle scienze umane. Mi viene naturale citare qui, perché abbiamo fatto cenno al 50° anniversario dell’alluvione, il restauro: il mondo intero vorrebbe venire a Firenze a studiare questa branca della scienza (portando ricchezza e PIL, anche se il PIL da solo non fa la felicità delle nazioni), però noi non siamo stati capaci di sviluppare corsi di studio importanti in questo ambito. Diciamo che le possibilità ci sono. Abbiamo una grandissima ricchezza costituita dall’elevato numero di Università straniere e in particolare americane, che però vivono Firenze come un corpo estraneo e sono considerate a loro volta dei corpi estranei. E c’è anche poca relazione con l’altra grande ricchezza in termini di studi che abbiamo in città, che è l’Istituto Universitario Europeo. Io avevo iniziato a costruire una relazione continuativa con il presidente dell’Università Europea con cui avevo stabilito la consuetudine di un incontro mensile per discutere dei problemi e delle opportunità per entrambi, la città e l’Università. Bisogna fare di più per mettere in comunicazione questi mondi, perché Firenze avrebbe tutte le caratteristiche per essere veramente una città internazionale degli studi. Anche qui, La Pira aveva un’idea diversa di questo istituto europeo: doveva essere una testa di ponte verso il Mediterraneo. Dopo la morte di La Pira fu fatto un tentativo, ai tempi del rettore Ferroni, di fare un Politecnico Mediterraneo «Giorgio La Pira», aperto alle discipline tecnico-scientifiche, che avrebbe dovuto essere sponsorizzato dall’ENI, che però non arrivò in fondo. Ma l’idea era questa: un ponte verso il Nord dell’Europa e uno verso il Mediterraneo.