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Vedere alla voce “amore”
di Fabio Dei

L’amore «romantico», che caratterizza l’immaginario delle società occidentali, ma che si è diffuso capillarmente a livello planetario con la pop culture, si basa sull’affermarsi della soggettività sulle forme tradizionali di controllo sociale, dando luogo anche a nuove modalità di legame affettivo che superano il matrimonio eterosessuale, e si configura come una delle principali sfere dell’esperienza sociale con cui entriamo oggi in rapporto con il sacro.

L’amore è una cosa meravigliosa

Coloro che per avventura cominciassero a leggere questo articolo, probabilmente avranno alle spalle le più disparate esperienze amorose, affettive e sessuali; ma sicuramente condivideranno un modello culturale che potremmo chiamare quello dell’amore romantico. È, infatti, un modello diffuso in modo capillare e pervasi-

vo nella cultura occidentale contemporanea, e in realtà esportato sul piano globale attraverso i media. È il contenuto esplicito o implicito di tanta arte e letteratura, di centinaia di film che abbiamo visto e di canzoni che abbiamo sentito, di programmi televisivi, siti Web e social network e, cosa ancora più importante, del gossip e di quella che potremmo chiamare la discorsività sociale. Impariamo fin da piccoli, prima ancora di poterne avere una immaginazione concreta, che l’amore è una cosa meravigliosa, che è l’obiettivo principale di realizzazione e felicità nella nostra vita, che l’anima gemella ci si rivela attraverso il cuore e non attraverso la ragione. E fin da piccoli ci divengono familiari linguaggi di idealizzazione e pratiche di culto della persona amata, l’idea che «tu sei tutto per me», che «vivo per te», «non posso stare senza di te». Secondo il modello romantico l’amore si rivolge verso una particolare ed esclusiva persona la cui affinità si svela fatalmente attraverso colpi del destino (una persona dell’altro sesso, ma non necessariamente: la sessualità LGBT – lesbica, gay, bisessuale e transgender – cerca spesso legittimazione proprio nell’adesione alla visione romantica, e rappresenta per certi versi il compimento della libertà di scelta assoluta che quest’ultima implica). Ci sembra del tutto naturale che in un simile rapporto la dimensione della idealizzazione o devozione romantica, quella dell’intesa sessuale e quella istituzionale del matrimonio (o forme equivalenti di convivenza esclusiva) coincidano. L’eventuale non coincidenza crea forme imperfette

cariche di tensione, generative di infinite possibili storie drammatiche. La sessualità senza l’amore, ad esempio, è disprezzata e considerata vacua e immorale; il matrimonio senza sesso è giudicato innaturale, patetico, ipocrita, e quello senza amore appare come una istituzione opprimente. Infine, un legame di «vero amore » che contrasti con quello matrimoniale è il tratto preferito dei plot romantici: una realtà più profonda e autentica che emerge al di sotto di quella istituzionale, innescando tensioni e dinamiche volte a ristabilire

un equilibrio, cioè un nuovo matrimonio («ho scoperto chi amavo davvero», «ho seguito il mio cuore», etc.).

Sentimento universale o culturalmente determinato?

Come molti modelli culturali che ci sono familiari e pervadono la nostra vita, anche quello dell’amore romantico ci appare in una forma naturalizzata. Amiamo così, e così in quanto esseri umani, come gli esseri umani hanno sempre amato e sempre ameranno. Ma cosa dice in proposito la «scienza degli esseri umani», cioè l’antropologia? Questa disciplina dispettosa tende di solito a ricondurre ciò che ci appare naturale o eterno a costruzioni culturali storicamente variabili. Fa così anche con le emozioni, che pure sembrerebbero sgorgare da noi in modo tanto spontaneo da non aver nulla di culturale. E anche con l’amore, per quanto in proposito le tesi universaliste e quelle storiciste o relativiste si scontrino con una certa forza. Queste ultime sostengono che il modello romantico è recente. Quanto recente? Su questo si può discutere. Risalente al Romanticismo, con l’amore paradigmatico di Werther e Lotte. Oppure più indietro: Miranda e Ferdinando che giocano a scacchi nella Tempesta shakespeariana, o persino nel tardo medioevo, con l’amore cortese del Dolce stil novo, o la scena dantesca di Paolo e Francesca che ci stupisce sempre per la sua – appunto – modernità. Ma in ogni caso, si tratterebbe di un prodotto della storia occidentale che viene distillato inizialmente all’interno delle classi dominanti e conosce una diffusione di massa solo in età contemporanea. Per le tesi universaliste, invece, almeno alcuni aspetti dell’amore romantico appartengono a tutte le culture e – dunque – sono radicati in caratteristiche generali della psicologia umana o in fattori evolutivamente adattivi. In un articolo degli anni 90, gli antropologi W. R. Jankowiak e E. F. Fisher si sono presi la briga di incrociare dati riguardanti 166 diverse società in cerca di indicatori dell’amore romantico, come il riconoscimento di sentimenti di desiderio e struggimento diversi dalla pura brama sessuale, la diffusione di canzoni e storie d’amore nel folklore e nella tradizione, e così via. La presenza di almeno alcuni di questi tratti nel novanta per cento dei casi considerati, dimostrerebbe a loro parere la quasi universalità del modello romantico[i]. Personalmente sto dalla parte della comprensione storica e trovo bizzarre sul piano del metodo generalizzazioni quantitative come quella appena citata: le quali possono dimostrare al massimo quel che sappiamo fin dal principio, cioè che l’amore ha degli aspetti elementari, che si trovano dovunque si trovino esseri umani. O che esiste qualcosa che si può chiamare «sentimento», che non è riducibile né all’attrazione sessuale né ai rapporti istituzionali di parentela, anche se si intreccia con essi. Ma il problema è proprio capire in che modo il «sentimento» universalmente umano viene coltivato, modificato, plasmato storicamente. O, per dirla in altri termini, in che modo epoche e culture diverse gestiscono l’inevitabile intreccio tra sesso, amore e matrimonio.

L’amore «illegittimo» degli Umeda

Per rispondere a questa domanda, cominciamo con l’esaminare un caso molto distante da quanto ci è familiare – più distante di Romeo e Giulietta e anche di Paolo e Francesca. Gli Umeda sono un gruppo melanesiano di piccolissime dimensioni (meno di mille persone) che vive nelle foreste della Papua Nuova Guinea – studiato dalla fine degli anni Sessanta da un importante antropologo inglese, Alfred Gell. Il loro numero è così ridotto che tutti si conoscono, vivono in spazi di costante intimità e sanno tutto di tutti. Il loro sistema di parentela prescrive un matrimonio preferenziale, quello tra cugini incrociati. Fin dalla nascita, una

bambina sa che dovrà sposare il figlio della zia paterna, o comunque la persona che nello schema di parentela più si avvicina a quel ruolo; ogni ragazzo conosce da sempre la bambina (di solito più piccola) che appena cresciuta dovrà sposare. In questa piccola società vi sono solo donne sposate o promesse in sposa. È possibile l’amore in questa situazione? Non certo nel senso che intendiamo noi. Non che l’idea dell’innamoramento sia sconosciuta. Gell riferisce che i ragazzi con cui ha parlato hanno fantasie di un tempo passato in cui donne senza marito arrivavano «dall’altra parte del villaggio» innamorandosi degli uomini. E, tra fantasie e realtà, vi sono casi di adulterio, che si consumano negli spazi isolati e nascosti della

foresta, e che implicano una scelta personale. Ma, appunto, l’amore è del tutto scisso rispetto al matrimonio e alla ufficialità istituzionale: è possibile solo in modo nascosto. Di fatto, commenta Gell[ii], l’amore è possibile solo come adulterio; anche le coppie sposate non possono dimostrarlo in pubblico, e l’assenza di spazi e tempi separati le costringe a cercare l’intimità nella foresta. In questa sfera segreta e inconfessata, l’amore si intreccia con l’altra grande forza «occulta» presente nelle piccole società di questo tipo, cioè la stregoneria. Di relazioni illegittime e di stregoneria si parla costantemente nel gossip, nelle voci che circolano: la conoscenza intima che si produce nei rapporti adulteri lascia immaginare attacchi magici lanciati verso i coniugi legittimi, oppure da questi ultimi subiti. In definitiva, fra gli Umeda l’amore sembra esistere come forza emotiva e pulsionale sul piano individuale, ma non è riconosciuto culturalmente. Non esiste spazio

per un discorso sull’amore nella sfera pubblica: tant’è vero che non esiste nel linguaggio nativo una parola per «amore ». L’amore è un fattore extra-strutturale: le istituzioni sociali funzionano senza bisogno di riconoscere l’amore come base delle relazioni formalmente riconosciute. Nel discorso corrente (le voci, non il discorso ufficiale) l’amore compare in costante associazione con il male e con le morti causate dalla stregoneria, i cui attacchi sono appunto causati dalle relazioni «illegittime».

L’affermarsi della soggettività

Questo degli Umeda della Nuova Guinea è certo un caso limite per le dimensioni del gruppo sociale e il suo relativo isolamento. Tuttavia alcuni elementi della loro esperienza sociale sono tutt’altro che unici, e li ritroviamo anche nella gran parte delle epoche storiche e dei contesti etnografici. Ciò vale in particolare per i matrimoni combinati fin dall’infanzia: una pratica che ci sembra oggi illibertaria e mostruosa perché la guardiamo dalla prospettiva del paradigma dell’amore romantico e dei concetti di persona e di scelta che esso implica. Il matrimonio combinato segnala semplicemente il prevalere dell’organizzazione strutturale della parentela sulla scelta individuale; una situazione che separa in modo abbastanza netto amore, sessualità e matrimonio. Li separa, per la verità, soprattutto per i maschi: poiché in molte società tradizionali, ad

esempio quelle mediterranee basate sul sistema «onore e vergogna», la posizione delle donne è molto più compressa. Come ha mostrato Pierre Bourdieu nel suo importante studio sul dominio maschile, il sistema strutturale della parentela, delle alleanze e del potere si incentra proprio sul controllo della sessualità e dei sentimenti femminili[iii]. In ogni caso i matrimoni combinati, la separazione tra matrimonio e amore e l’assenza di un discorso pubblico che esalta e legittima l’amore come base della famiglia e della società – tutto questo è la regola più che l’eccezione in un’ottica storica e comparativa. Anche nel processo di

modernizzazione dell’Europa, il discorso sull’amore e il paradigma romantico si sviluppano lentamente e solo in riferimento ai ceti sociali più alti. L’amore cortese, la passione di Paolo e Francesca o di Romeo

e Giulietta e tutti gli altri modelli romantici, fino a Werther e Lotte, hanno a che fare con le classi superiori e intellettuali, non certo con il mondo contadino e popolare. Anzi, questo tipo di amore distingue in profondità gli «animi alti» – appare cioè come un titolo di nobiltà spirituale, tanto più importante quanto il potere

materiale e politico della nobiltà di sangue si attenua. In definitiva, dunque, la tesi di una origine storica recente dell’amore romantico è pienamente rivendicata. Non perché alcuni dei suoi ingredienti non si ritrovino in altre epoche o culture (o in tutte, se proprio si ha la mania dell’universalità); ma perché è solo con la cultura di massa, in età contemporanea, che il modello romantico si afferma in modo capillare e

pervasivo, divenendo un fondamento cruciale così della struttura sociale come delle singole psicologie o soggettività. La principale condizione di questa affermazione, come descritto da un’ampia letteratura

rappresentata ad esempio dal libro di Anthony Giddens sulle trasformazioni dell’intimità[iv], consiste nel processo di individualizzazione. Le opportunità economiche della società industriale e di mercato indeboliscono i legami delle persone con i gruppi di parentela e la dipendenza dai vincoli comunitari. Fidanzamento e matrimonio divengono un «contratto » liberamente scelto da soggetti che stanno sullo stesso piano, e devono essere supportati da un «sentimento» autentico, da una relazione pura, libera da costrizioni

materiali e istituzionali (è l’incorporazione profonda di questo modello che ci fa apparire «barbaro» il matrimonio combinato). Da notare che la tendenziale parità all’interno della coppia è il presupposto dei movimenti di emancipazione femminile, più che il contrario. Le suffragette percepiscono una contraddizione

tra l’assenza di diritti politici e il ruolo che ricoprono all’interno della famiglia: non sognano un’utopia, chiedono l’adeguamento della sfera pubblica a ciò che in quella privata, almeno nella loro classe sociale, è già accaduto. Ed è ovvio che anche istituzioni come il divorzio non derivano semplicemente da una sorta di

progresso delle coscienze: come ben comprendeva Pier Paolo Pasolini nell’Italia degli anni 70, si tratta della inevitabile conseguenza di un mutamento irreversibile delle strutture di base dell’economia e della

socialità.

Liberazione sessuale o «invenzione» della sessualità?

Ho appena citato La trasformazione dell’intimità di Anthony Giddens, un libro del 1992 che forse più di ogni altro ha posto l’accento sulla centralità del complesso romantico nella genealogia delle moderne concezioni dell’amore e della sessualità – per non dire della soggettività moderna tout court. La posizione di Giddens si differenzia anzi dalle più note analisi di Michel Foucault proprio su questo punto. Mi soffermo un istante su questo aspetto, molto importante. Nei sui lavori sulla storia della sessualità, il filosofo francese aveva smontato e rovesciato un luogo comune della cultura sessantottesca; l’idea cioè che il mondo contemporaneo stesse vivendo una fase di liberazione sessuale, dopo una lunghissima vicenda di repressione imposta dalle società e dalle culture europee, culminata con la leggendaria sessuofobia dell’età vittoriana. Per Foucault, ciò che accade tra la fine del Settecento e oggi è al contrario una sorta di «invenzione» della sessualità. Pratiche, desideri e sentimenti che in precedenza erano lasciati alla sfera privata sono progressivamente presi in carico dalle istituzioni sociali, che li rivestono di tutta una serie di discorsi specialistici, scientifici, etici; e che al contempo li legano a regole di comportamento e di amministrazione, a diagnosi di devianza, a sanzioni morali e penali. Il sesso si trova così ad essere al centro di dispositivi di sapere-potere. La stessa «repressione» vittoriana non è che l’altra faccia della medaglia di un diffuso interesse sociale e istituzionale per il sesso: «(…) quel che è caratteristico delle società moderne non è che abbiano condannato il sesso a restare nell’ombra, ma che siano condannate a parlarne sempre, facendolo

passare per il segreto»[v]. Discipline come la sessuologia o la psicoanalisi, che pretendono di aver portato

in superficie e di aver reso esplicita una dimensione prima socialmente indicibile e tabù, sono in realtà consentite proprio da questo mutamento. Mutamento che, nella prospettiva foucaultiana, è uno dei grandi passaggi attraverso i quali l’impersonale potere delle società moderne riesce a plasmare in modo sempre più ravvicinato e profondo le soggettività dei cittadini – imponendosi non attraverso una coazione esterna e violenta, come nell’antico regime, ma per mezzo di pratiche «disciplinari» che non tanto reprimono quanto, piuttosto, governano i corpi e le menti. Ora, Giddens non nega del tutto questa ricostruzione: critica però la concezione foucaultiana di un potere anonimo e misterioso che emerge dalle forme del discorso, negando una idea di «storia come prodotto dell’attività concreta dei soggetti umani». Proprio per questo, «(…) tace sui legami fra la sessualità e l’amore romantico, che a sua volta è un fenomeno strettamente legato ai cambiamenti nella famiglia»[vi]. In altre parole, Giddens vede come prioritaria la diffusione di un modello

culturale strettamente connesso alle forme sociologiche della modernizzazione (individualizzazione prodotta dai mutamenti delle strutture economiche e sociali): fattori che sembrano dissolversi nella microfisica del potere di Foucault, concentrata esclusivamente sul rapporto tra corpi e discorsi.

 

«Relazioni pure» e «amore convergente»

Pur senza l’affascinante profondità dello strutturalismo foucaultiano, la teoria di Giddens articola in modo ampio e complesso le esperienze della sessualità e dell’amore con i mutamenti delle forme di legame

sociale e con le moderne configurazioni del Sé. Ciò gli consente di mettere a fuoco ulteriori e più recenti passaggi all’interno del paradigma romantico: in particolare, l’affermazione di una nozione di amore come «relazione pura», che nelle società occidentali si diffonde largamente negli ultimi decenni del Novecento[vii]. Cosa significa «relazione pura»? Si tratta della libera decisione di costruire un rapporto (una «storia» o una «relazione », appunto, termini di uso assai recente) al di fuori di ogni ruolo costituito e di ogni obbligo di continuità, semplicemente in virtù dei «benefici» che entrambe le parti ritengono di trarne; dunque, con la possibilità e anzi l’imperativo morale di interrompere il rapporto quando tali condizioni non siano più percepite. La relazione pura si colloca nel solco dell’amore romantico, ma ne supera alcune caratteristiche. Il romanticismo classico implica ad esempio una dimensione di devozione eterna, l’idea che la passione e l’idealizzazione dell’altro debbano «naturalmente » sfociare nel matrimonio; fa riferimento dunque in modo esclusivo a relazioni eterosessuali, e mantiene rigidamente divisi il ruolo maschile e quello femminile. Ancora per buona parte del Novecento, almeno nei ceti medi e popolari, per le donne il coronamento della

ricerca romantica dell’amore resta comunque una definizione in termini di ruoli (moglie, madre), e richiede l’accettazione di una immagine di castità, purezza, sottomissione domestica. Nell’ambito della relazione pura questi ruoli e questa asimmetria di genere vengono tendenzialmente superati (pur con una certa forza di resistenza o inerzia dei vecchi ruoli e stereotipi sessisti). Sotto la spinta dell’emancipazione femminile – sociale e sessuale – gli ideali e le retoriche romantiche si frammentano: non scompaiono ma sono semmai ricomprese all’interno di narrazioni personali e non convenzionali. Ciò apre a una forma di amore che Giddens definisce «convergente». «L’amore convergente è amore attivo, contingente e quindi non fa rima con i “per sempre” e gli “unico e solo” tipici del paradigma dell’amore romantico. La società “separante” e “divorziante” di oggi diventa la conseguenza piuttosto che la causa della nascita dell’amore convergente»[viii].

Infatti, mentre fino a qualche decennio fa la stabilità del legame familiare appariva decisamente più importante dei «capricci» sentimentali, oggi troviamo moralmente ingiusto subordinare la purezza e «sacralità » del sentimento a qualsivoglia costrizione esterna. Fra le conseguenze di tutto questo vi è lo sviluppo di una dimensione allargata o più «duttile» della sessualità, che ad esempio supera la distinzione tra

donne «rispettabili» e di «facili costumi», valorizzando piuttosto (entro certi limiti) l’acquisizione di una pluralità di esperienze sessuali, e include a pieno titolo le relazioni omosessuali. Inoltre si trasformano progressivamente le retoriche che circondano questo tipo di amore, i racconti con cui se ne parla. Il linguaggio romantico classico oggi appare per lo più ridicolo ed eccessivo: la narrazione dell’incontro fatale con l’amore eterno è sostituita da quella di una ricerca, magari lunga e tortuosa, della «relazione giusta». E in questa ricerca le affinità tra i partner sono descritte attraverso un lessico che non è più incentrato sulla idealizzazione e sulla devozione, ma sulla introspezione psicologica, sulla realizzazione e sulla «apertura di sé», su quello che lo stesso Foucault aveva chiamato il «culto californiano dell’io».

 

La potenza educativa della pop culture

Il che mi porta a due ultimi punti che mi pare importante toccare in queste riflessioni sulle esperienze contemporanee dell’amore: le retoriche e i linguaggi narrativi e il culto, o il sacro. Torniamo per un attimo ai nostri Umeda: sanno da sempre e conoscono perfettamente chi dovranno sposare, non hanno particolari ansie in proposito e non devono calcolare vantaggi e svantaggi di una certa scelta. I giovani occidentali di oggi devono invece selezionare tra numerosissimi partner potenziali, che inizialmente conoscono troppo poco perché la scelta non sia in qualche modo arbitraria. Il riferimento a una forza irrazionale, magica e fatale come l’«amore », che tesse le sue trame per misteriosi motivi, si colloca nello spazio di questa incertezza di fronte a infinite (teoricamente) possibilità. Ma la magia ha poi bisogno di parole, di concetti e di storie in grado di far diventare quella scelta, in sé arbitraria, significativa e persino necessaria; di incastonarla

all’interno della propria biografia, del proprio stesso Sé. C’è bisogno dunque di modelli narrativi che diano senso a quella particolare relazione in modi pubblicamente riconoscibili e legittimati: in altre parole,

l’amore romantico ha bisogno di una fiction romantica. Fra i due c’è fin dall’inizio un rapporto inscindibile e strutturale. Il romance non è solo una rappresentazione idealizzata di qualcosa che esiste indipendentemente da esso: rappresenta piuttosto un repertorio di storie, personaggi, nuclei drammatici fondamentali nel creare la realtà e la concretezza sociale delle relazioni pure. Torniamo così all’osservazione iniziale di questo articolo: il fatto di vivere all’interno di una cultura popolare densamente popolata di romanzi e poesie, giornali, film, canzoni, soap-opera e programmi televisivi, pubblicità, un intero flusso comunicativo incentrato attorno ai miti e alle figure dell’amore romantico. Si tratta di una pop culture differenziata al proprio interno secondo livelli di «serietà» o impegno, per il fatto di rivolgersi a un pubblico più femminile o più maschile, più adulto o adolescenziale, con diversi livelli di capitale economico e culturale (Beautiful

a un estremo, diciamo, e Scene da un matrimonio di Bergman all’altro); per tendere più al dramma o alla commedia, evocare una sessualità convenzionale oppure «duttile», e così via. Ma nel complesso si tratta di un potentissimo ambito di educazione sentimentale, originato nei grandi centri di produzione dell’industria

culturale occidentale, che con la globalizzazione si è però diffuso in modo capillare, mischiandosi in interessanti sincretismi con culture locali o organizzazioni sociali tradizionali[ix]. Gli Umeda non hanno storie d’amore, afferma Gell, perché hanno forti e stabili genealogie. Per le società di massa contemporanee, le fiction romantiche sono l’equivalente delle genealogie e delle rigide regole matrimoniali: rappresentano cioè «(…) i mezzi di produzione delle relazioni dalle quali dipende la vita sociale». La fiction «(…) è una gigantesca simulazione, un processo di pensiero esterno volto a fornire agli individui i copioni che sono loro indispensabili, e che l’esperienza reale non può offrire (…). Rivissuta come vita reale, la fiction produce

le storie su cui si fondano le relazioni e la società nel suo complesso»[x]. Il che dice molto sull’importanza di questo genere di prodotti della cultura di massa, di solito dismessi dagli studi in quanto futili, commerciali e d’evasione. Si tratta di discorsi che sostengono strutturalmente le pratiche dell’amore e della sessualità, dentro i quali vanno ricercate importanti radici della soggettività contemporanea.

L’amore sacro e l’amor profano

Per finire, il riferimento a un punto che più strettamente si collega al tema posto da questo numero di «Testimonianze», cioè il rapporto tra eros e agape. Si tratta di due forze che il pensiero occidentale ha spesso

contrapposto. La prima passionale, mondana, centrata sul desiderio e per certi versi asociale, poiché chiusa in una relazione amorosa che esclude il resto del mondo. La seconda razionale, trascendente, eminentemente sociale, in quanto centrata sull’essere-per-l’altro. Dunque, la prima profana e la seconda sacra. L’amore

di Dio per gli umani, e la devozione degli umani verso Dio, appartengono all’ambito dell’agape, la quale, incorporandosi in una religione, ha bisogno di tenere sotto controllo l’eros. Che ne è oggi di questa dicotomia? L’amore romantico, fin dai suoi inizi, si è espresso attraverso un linguaggio quasi religioso: verso la persona amata vi è devozione, attrazione fatale, culto, sacrificio di sé, implorazione e preghiera. La persona amata è divina, le cose che tocca si caricano di carisma, l’innamorato è «fuori di sé», si trova in uno stato non ordinario di coscienza non lontano dall’esperienza di incontro con il sacro. Il «fascino» è per

l’appunto in origine l’attrazione che spinge verso l’epifania del divino. La religione mette a disposizione un ampio lessico per esprimere il nuovo paradigma. Ma non si tratta solo di metafore. Lo sviluppo dell’amore

romantico coincide con un accentuato processo di secolarizzazione delle società europee: in queste, progressivamente, lo Stato e le istituzioni giungono a non sostenere più una particolare visione religiosa, e le esperienze di vita individuali e sociali non sono più lette nei termini di un ben definito cosmo sacro cui

nessuno può sfuggire. La religione abbandona la sfera dell’immanenza: è il «disincanto del mondo» di cui parlava Max Weber. Al tempo stesso l’individualizzazione conduce a collocare in modo diverso i valori o temi «ultimi», vale a dire i nuclei di socialità verso i quali si rivolge la «devozione» e l’impegno delle persone: dalla sfera pubblica (le istituzioni religiose o politiche) essi si spostano sempre più verso quella privata. Il sociologo Thomas Luckmann, in un testo molto famoso degli anni Sessanta, ha creduto di scorgere in questi processi la base di una trasformazione radicale del sentimento religioso, che lo rende, nella tarda modernità, implicito o «invisibile»: nel senso che l’investimento sacrale o devozionale si rivolge a temi non più esplicitamente religiosi, ma a pratiche e «oggetti» dell’esperienza quotidiana e della sfera privata[xi]. Ora, l’analisi di Luckmann ci porta assai vicini alle riflessioni fin qui sviluppate sull’amore. Infatti per lui i temi ultimi di questa «religione invisibile» sono principalmente rappresentati dal culto dell’individuo, nel senso della ricerca del Sé individuale e della sua «realizzazione», e dalle relazioni nella sfera più intima, in particolare l’amore e la sessualità. Svincolate dal controllo delle istituzioni esterne, queste ultime vengono a giocare «(…) un ruolo senza uguali come fonte di significazione “ultima” per l’individuo che si è ripiegato nella sfera privata»[xii]. Ma quali sono le fonti di un simile immaginario, di questa cosmologia privatizzata

e secolarizzata? Non si tratta più di un corpus compatto di conoscenze dottrinali, dogmatiche e mitologiche, ma di una molteplicità eterogenea e frammentaria di discorsi e forme espressive, che passano per lo più attraverso il consumo della cultura di massa. Luckmann cita ad esempio i prodotti della pop culture come

le canzoni, i giornali, la letteratura «leggera» e così via[xiii]; dunque, proprio quel repertorio lirico e narrativo (per quanto «leggero», inautentico e «industriale ») la cui funzione è messa in luce dagli analisti dell’amore romantico o della «relazione pura». Si può dunque concludere che l’amore è una delle principali sfere dell’esperienza sociale – forse la principale – in cui entriamo oggi in rapporto con il sacro. In una società fortemente individualizzata l’agape, si potrebbe dire, parla prevalentemente il linguaggio dell’eros; o, se si preferisce, l’eros si carica di forti contenuti agapici. Riconoscere questo punto, credo, ci aiuta a capire meglio sia le pratiche sia le rappresentazioni dell’amore nella nostra cultura – in realtà, come detto, sul piano globale, sia pure con configurazioni locali sincretiche che varrebbe la pena studiare attraverso etnografie sistematiche. È una forma di amore profondamente costitutivo delle nostre soggettività: non potremmo mai tornare a qualcosa di pur lontanamente simile alle relazioni degli Umeda. Naturalmente, ci possiamo chiedere a questo punto come sviluppare un tipo di amore che si connetta a valori ultimi relativi al bene comune, a un’economia di condivisione e a una socialità solidale: ma questo è per l’appunto il grande problema del nostro tempo. Ci piaccia o no, dobbiamo affrontarlo a partire dalle aporie, ma anche dalla grande forza di libertà, dell’amore romantico.

 


[i] Jankowiak & Fisher, A cross-cultural perspective on romantic love, «Ethnology», 31, 1992, pp.149-55.

[ii] A. Gell, On love, «Anthropology of this century», 2, 2011 (http://aotcpress.com/articles/love/).

[iii] P. Bourdieu, Il dominio maschile, trad. it., Feltrinelli, Milano 1998.

[iv] A. Giddens, Le trasformazioni dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, trad. it., Il Mulino, Bologna 2008 (ed. orig. 1992).

[v] M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, trad. it., Feltrinelli, Milano 2011, p. 36 (ed. orig. 1976).

[vi]A. Giddens, op. cit., p. 33.

[vii]Ibidem, p. 68.

[viii]Ibidem, p. 72.

[ix] Si veda su questo punto J. S. Hirsch, H. Wardlow, eds., Modern Loves: The Anthropology of Romantic Courtship and Companionate Marriage, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 2006.

[x]A. Gell, On love, cit., p. 8.

[xi] T. Luckmann, La religione invisibile, trad. it., Il Mulino, Bologna 1969, p. 145 (ed. orig. 1967).

[xii]Ibidem, pp. 159-60.

[xiii]Ibidem, p. 147.