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Simone Weil: inattualita’ di un pensiero volto al futuro
di Severino Saccardi

Simone Weil: “inattualità” di un pensiero volto al futuro

di Severino Saccardi

È un percorso originale, “atipico” e inclassificabile, quello di Simone Weil. Il suo pensiero dà voce ad un’esperienza connotata da un’ispirazione fondamentalmente unitaria, pur “abitando la contraddizione” ed ispirandosi contemporaneamente alle istanze mistiche della fede ed alla fedeltà alla “polvere della storia”. L’“inattualità” della sua riflessione ha il segno della fecondità e spinge a volgere lo sguardo al futuro per scorgervi il profilo dell’inedito.

Dal cuore del Novecento

Simone Weil. È una voce che ci giunge dal cuore, e dall’interno delle vicende, del Novecento. Un contesto ed un tempo in cui il pensiero, la forza della testimonianza e il “genio” femminili sono legati, oltreché al suo, a grandi e significativi nomi. Come quelli di Rosa Luxemburg, Hannah Arendt, Maria Zambrano, Edith Stein, Etty Hillesum. Nomi che ricorrono inevitabilmente, qua e là, anche in questo volume interamente monografico, strutturato eccezionalmente a prescindere dalla consueta suddivisione in rubriche, che (avvalendoci della collaborazione e dei contributi di amici, esperti e studiosi di valore e di prestigio) è stato progettato in occasione del centenario della nascita della Weil. E che, pur uscendo con qualche ritardo rispetto alle previsioni, è comunque, nelle intenzioni di chi l’ha pensato, curato e realizzato, molto di più, e di diverso, rispetto ad una sorta di rituale atto dovuto.

Un dato ed una constatazione generalmente e comunemente emergono, nelle diversificate riflessioni che sono venute, incastonandosi fra loro, a comporre l’insieme di questo lavoro: l’esperienza umana, il percorso biografico e l’avventura intellettuale di Simone, pur nella loro eccezionalità e nel loro carattere vistosamente “atipico”, appaiono poco comprensibili al di là ed al di fuori del periodo assolutamente straordinario in cui ebbero ad inserirsi. Una constatazione, del resto, che vale anche per le altre pensatrici e “testimoni del tempo” sopra richiamate.

Simone Weil, come appare da più di un passaggio dei suoi testi e dei suoi pensieri, era consapevole del tempo particolarissimo in cui le fu dato vivere. I brevi, ed intensissimi, 34 anni della sua esistenza si collocano in un’epoca di drammi, violenze, miseria, sogni e speranze. La tragedia è il segno dominante di una transizione storica segnata dalla “grande guerra” e dai suoi problematici esiti, forieri di altri sconvolgimenti e di ulteriori dolori, dalla “guerra civile” europea (di cui il conflitto spagnolo degli anni trenta non sarà che la cruenta esplicitazione) e dal cataclisma bellico che incendierà nuovamente il mondo negli anni quaranta. Un cataclisma di cui la Weil cercherà, fino alla fine dei suoi giorni, di capire febbrilmente la portata e le possibili conseguenze.

Al di là di quel tempo

La riflessione febbrile è, d’altronde, un tratto del suo esistere e del modo di sviluppare il suo pensiero anche in relazione agli altri grandi temi che lo svolgersi della storia andava ponendo all’ordine del giorno: l’industrialismo, il taylorismo, la nuova organizzazione del lavoro, la condizione operaia; l’imperio delle contrapposte (o speculari) ideologie sulla scena internazionale; l’affermazione dei totalitarismi e la crisi della democrazia; la questione della rivoluzione.

Tutte questioni che questa originale pensatrice vivrà, e cercherà di sviscerare nelle loro implicazioni, all’insegna del coinvolgimento emotivo ed esistenziale e della passione culturale ed intellettuale (1).

Non si capisce, insomma, come è del tutto evidente, Simone Weil al di fuori del suo tempo. Ma è certo che la sua elaborazione ha un’originalità, una forza propositiva ed una radicalità che parla, e ci parla, al di là di quel tempo.

Chi era Simone Weil? E qual è l’essenza del suo messaggio? Molto ne è stato detto e scritto. E molto contribuiscono a farci ulteriormente comprendere i testi che gli autorevoli collaboratori di questo numero di “Testimonianze” hanno cortesemente accettato di farci pervenire.

Resta il fatto che il suo profilo, la sua vicenda, il suo pensiero continuano (al di là della forza penetrante e persuasiva dei suoi scritti e delle accurate ricostruzione biografiche del suo cammino) a sembrare talora avvolte da un alone suggestivamente enigmatico.

Era ebrea di origine, Simone Weil. Ma, come ricorda puntualmente Bruno Di Porto, non amò l’ebraismo. Sembrò non comprenderne la fecondità delle radici né valutarne appieno la drammaticità della vicenda storica, dall’Antico Testamento fino alla “diaspora”. Come Di Porto fa drasticamente rilevare, nemmeno la sua divorante passione per gli “ultimi” la portò, ancora nei primi anni della seconda guerra mondiale e con la persecuzione antisemita in pieno corso, a comprendere veramente e a percepire il destino e la situazione estrema di quegli “ultimi degli ultimi” che erano gli ebrei. L’elemento portante dell’asprezza delle sue posizioni verso la religione e la cultura ebraica e la chiave di volta del fraintendimento della loro più intima natura stavano probabilmente nella ispirazione universalistica della pensatrice francese. Un’ispirazione ed un modo di sentire che, aderendo ad una discutibilissima, ed assai diffusa, chiave di lettura, la portava verosimilmente a condannare “esclusivismo”, separatezza e carattere apparentemente chiuso e autoreferenziale della visione e della tradizione israelitica.

Come il prete Lorenzo Milani

Eppure, non è, forse, del tutto azzardato affermare che vi sia qualcosa di inconsapevolmente e fortemente “ebraico” nel tratto intellettuale di Simone Weil e nella sua modalità di rapporto con la realtà e con la storia. Come fa notare chi sostiene che è proprio di pensatori, autori e personalità provenienti da un ebraismo fortemente “secolarizzato” (come era quello dell’agnostica, aperta e brillante famiglia Weil) mantenere, come un imprinting delle proprie radici, un’istanza forte e radicale di riscatto, di giustizia, di risolutrice palingenesi delle tormentate vicende umane. Qualcosa del genere valeva, in un contesto storico diverso da quello della Weil, per un convertito come il prete Lorenzo Milani. Che nella sue istanze evangeliche, e politico-sociali, di giustizia sembrava riprendere (su temi non distanti da quelli della pensatrice francese) l’ispirazione, o la memoria, di un ancestrale messianismo aderente alla terra e alla storia. Non sono nuove, d’altra parte, le notazioni che tendono a trovare analogie fra l’esperienza del priore di Barbiana e quella di Simone.

Certamente, comune ad entrambi è la convinzione che autenticità umana, riscatto sociale e profondità spirituale siano sinonimi di prossimità agli ultimi, ai diseredati, ai derelitti. Siano essi i montanari di uno sperduto poggio della zona toscana del Mugello o gli operai legati ai ritmi incalzanti della catena produttiva di una grande fabbrica francese degli anni trenta. Quel che colpisce, in entrambi i casi, e nel punto di vista di ambedue le personalità, è che non è di prossimità ideale (o, ancor meno, ideologica) che si discute. È la condivisione giornaliera, la comunanza di esperienza e di destino, fatta di prossimità fisica che è in questione. È quanto mette in atto don Lorenzo nell’impegno quotidiano nella sua scuola per figli di contadini ed è quanto Simone vuole realizzare, testardamente e lottando contro il proprio fisico, facendosi operaia. Sperimentando così l’ottundimento di una realtà e di una condizione che mortificano la dignità della persona e sembrano annullare la forza di pensare.

È propria sia di don Milani sia della Weil la preoccupazione, quasi l’assillo, di (re)suscitare la capacità di pensare ed il senso della dignità in realtà, ed in persone, che, nell’abbrutimento delle condizioni materiali di vita e di lavoro, rischiano di perdere se stesse, vittime come sono di uno sfruttamento che svilisce l’anima prima che il corpo. Aver tenacemente fiducia nella valenza della parola e nella forza rivoluzionaria della cultura è, per tutti e due, un assunto fondamentale.

Antichi greci e masse popolari

È noto l’amore della Weil per gli antichi greci, per la profondità della loro filosofia e per gli elementi di verità sulla condizione umana trasposti e rappresentati nella loro arte. Nell’arte della tragedia, soprattutto. Che, in maniera incomparabile, dando conto della sventura indotta nelle vicende umane dalla tirannia e dall’oppressione, induce a riflettere sul valore della forza morale e della libertà in opposizione alle prevaricazioni ed alle vessazioni dei potenti. Ebbene, era sua convinzione che tali temi e tali testi potessero, e dovessero, essere “con un vero metodo divulgativo” portati a conoscenza delle masse operaie. A questo mirava un suo “(…) progetto: rendere accessibili alle masse popolari i capolavori della poesia greca” dal momento che “niente più della poesia greca le sembrava vicina al popolo, poiché in questa, a differenza di una poesia moderna, trovava espresso col più alto grado di lucidità, di purezza e di semplicità la condizione umana, sottoposta al duro dominio della forza”(2). Come sottoposti al crudo dominio della forza sono i lavoratori nella fabbrica fordista e taylorista. Del tutto rimarchevole il tentativo della Weil di suscitare bagliori di coscienza nella classe operaia ponendola in rapporto con la conoscenza di grandi classici (come Antigone ed Elettra) anche se la “sua offerta risultò inaccettabile da parte di un padronato terrorizzato all’idea di eccitare negli operai una qualche coscienza di classe”. Sebbene il suo proposito “come cercò di spiegare” fosse, se mai “la possibilità di arrivare a far sì che nell’ambiente di fabbrica gli operai contino qualcosa ed abbiano coscienza di contare qualcosa”(3). Contare qualcosa ed aver l’idea di contare qualcosa. Sarebbe stato con un analogo intendimento nei confronti dei suoi diseredati ragazzi che Lorenzo Dilani – guarda caso – avrebbe, poi, proposto loro la condivisione, apparentemente improbabile, della lettura, del commento e della discussione dell’antica Apologia di Socrate(4). Idea, forse, insolita, ma non peregrina, quella che vuole che la grande letteratura, l’arte e la cultura possano, quasi elettivamente, parlare ai semplici.

Rischiando per un attimo di andare fuori tema, e lasciandomi forse trasportare dalla forza dei ricordi e delle suggestioni, non mi pare fosse del tutto estranea a questa ispirazione l’attività del Collettivo Operaio di Colle Val d’Elsa, un paese della “rossa” provincia toscana(5), cui faceva riferimento don Auro Giubbolini. Parroco di campagna e compagno di seminario di don Lorenzo. Non è forse improprio pensare che in quell’esperienza, caduta nel dimenticatoio, vi fosse qualcosa di weiliano e di milaniano (oltreché di esplicitamente luxemburghiano) in ordine allo sforzo di dare a lavoratori “senzastoria” la passione per la partecipazione e l’apprendimento e di restituir loro la parola. Erano gli anni settanta, è vero, e c’era forse in tutto questo anche un di più di radicalità e di “estremismo” politico. Ma tornando al nostro tema, ed uscendo da una (forse impropria) digressione, radicalità e posizioni estreme non erano caratteristiche, almeno nelle motivazioni iniziali e per un non breve periodo, anche del modo con cui la Weil, con accentuata sensibilità, si accostò alla “questione sociale”?

Certo, in un successivo e più meditato approccio, ella si sarebbe posta il problema di come concretamente far avanzare proposte di trasformazione e di “riforma” delle condizioni di vita e di lavoro all’interno del sistema di fabbrica. Un aspetto (lo ricorda opportunamente Canciani) su cui avrebbe riflettuto, nell’immediato dopoguerra, anche Adriano Olivetti (industriale illuminato, uomo di cultura e fondatore del movimento di Comunità), uno dei primi “lettori” e mediatori dell’opera di Simone Weil in Italia. Ma all’inizio, pur con un approccio libertario e svincolato da strette osservanze partitiche ed ideologiche, l’impegno di Simone in questa direzione era, probabilmente motivato soprattutto da un senso di sdegno e di scandalo per un tempo in cui “ il progresso (…) si trasforma in regresso”(6).

Tutta intera, una scelta di vita

È possibile, certamente, come molti studiosi ci hanno sapientemente insegnato, distinguere diverse fasi nel pensiero, e nella riflessione culturale e teorica, di una pensatrice multiforme e complessa come Simone Weil. Ma quel che è certo, ed è quanto risalta sia dal suo indefesso impegno sulle tematiche sociali che dal suo appassionato interrogarsi sui meccanismi dell’interiorità e sul mistero della trascendenza, vi è un filo unitario che connota, tutta intera, una scelta di vita. Una scelta di vita che (come gli interventi dei nostri autori concordemente sottolineano) ha nella dimensione del pensiero, vissuta non come ricerca di rarefatte astrazioni, ma come purificata e dolente espressione della riflessione sui destini del mondo e della condivisione dei dolori dell’uomo, la sua cifra più evidente e riconoscibile. Molti sono i temi che concorrono a comporre il mosaico delle meditazioni di carattere filosofico, etico e religioso che trovano spazio nei recessi della sua mente e che danno una riconoscibile connotazione alle più elevate intuizioni del suo pensiero.

Ne danno conto i nostri autori. Che rimandano a significativi concetti-chiave: giustizia e diritto (Greco), dovere e obbligo (Mancini), immaginazione, realtà e loro reciproche relazioni (Floris), forza, potere e senso del limite (Belliti), mistica e rapporto con Dio (Grassi). C’è forse, come talora viene notato, un elemento di fondo che fa da connessione e da elemento unificante rispetto ad una multiforme trama questioni. È quello che si condensa attorno al tema (ai temi) della libertà. Simone Weil è pensatrice della libertà. Di cui ha una concezione esigente e rigorosa (e che è aliena dall’intendere come istanza rivendicativa o come dimensione di carattere individualistico).

Che cos’è la libertà? Dice, in un significativo passaggio, la Weil: “Si può intendere per libertà qualcosa di diverso dalla possibilità di ottenere senza sforzo ciò che piace (…). La libertà autentica non è definita da un rapporto fra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto fra il pensiero e l’azione; sarebbe completamente libero l’uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio finale concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine. (…) E disporre delle proprie azioni non significa affatto agire arbitrariamente; le azioni arbitrarie (….) non possono essere chiamate libere”(7).

È caratteristica peculiare del pensiero weiliano tendere a declinare il tema della libertà in stretta, e vincolante, seppur problematica, relazione con il tema della verità. Deriva da lì il rapporto di stretta derivazione ideale che la pensatrice francese tende a stabilire con l’insegnamento platonico relativo ai diversi piani della realtà ed alla necessità di purificazione dalle fuorvianti ombre dell’effimero e dell’apparenza. Che portano a fraintendere la vera essenza dell’uomo, del tempo e del mondo.

Di passaggio, sia consentito notare come di Platone e della sua grande lezione Simone sembri cogliere quasi esclusivamente gli aspetti relativi all’ontologia e ad una visione della vita tendente ad esaltare l’amore e la bellezza come via privilegiata d’accesso alla verità ed al bene e sembri ignorarne la problematica curvatura totalizzante che, in relazione alla dimensione pedagogico-politica, sarà fatta oggetto della distruttiva critica di Karl Popper(8). Il teorico liberale della “società aperta” che, criticandone le impostazioni, giudicate chiuse e dogmatiche, sarebbe giunto a parlare di un “Platone totalitario”. Un aspetto, e un problema, comunque li si voglia inquadrare, che la “libertaria” pensatrice francese, ispirata dalla luminosità del pensiero greco (quello di Platone, ma anche quello dei pitagorici, con la loro concezione dell’“armonia”, e quello della “dialettica” concezione di Eraclito), sembra non aver affatto considerato o intravisto.

Temi del pensiero e temi della vita

Verità, unità del mondo ed unitarietà dell’esperienza umana (pur vissuta e inquadrata nel segno della contraddizione ed aliena da facili sintesi di carattere materialistico o idealistico) sono insieme, nel bruciante percorso della giovane pensatrice, d’altra parte, temi del pensiero e temi della vita.

C’è probabilmente un’unità, ed un riconoscibile carattere unitario, in fondo, nello stesso, concreto e specifico, percorso biografico, e culturale, della Weil medesima.

Ho l’impressione, pur parlandone con la doverosa cautela del non specialista, che abbia ragione chi sostiene (come fa l’amico Lodovico Grassi in questo volume, alla cura del quale ha fornito un così valido contributo) che sia un inquadramento un po’ esteriore e “di superficie”, pur nel carattere vistoso delle “svolte” o nella diversificazione dei temi via via messi a fuoco e delle “passioni” gradatamente maturate, quello che tende a demarcare rigidamente fasi e contenuti distinti della vita e dell’impegno di Simone.

Impegno storico e attenzione alla “questione sociale”, partecipazione ai problemi ed ai conflitti del tempo e tensione mistica e religiosa tendono verosimilmente a fare un tutt’uno. Unica è, alfine, la finalità, o, per meglio dire, l’“intenzione”, che anima quel cammino. Quella di andare al cuore e al fondo della verità delle cose.

Non è, dopotutto, una “convertita”, Simone Weil. Non solo per la sua determinazione a rimanere, pur nel fervore mistico di una fede intensamente sentita e vissuta, sulla soglia della Chiesa-istituzione. Ma anche perché (rimarcando il tema, di valore universale e “trasversale”, rispetto al tempo della storia ed alla diversità delle culture, della “fede implicita”) rivendica di essere, in fondo, sempre stata cristiana. È quanto afferma espressamente, sottolineando, in una sua lettera, come sia questo il motivo per cui “(….) nonostante la mia ripugnanza alle cose personali (…) ho tracciato un lungo abbozzo della mia autobiografia personale con una precisa intenzione (…) per (…) constatare con un esempio concreto e certo (…) fin dove può giungere la fede implicita.” È quanto soggiunge, rivolgendosi al religioso suo interlocutore: “Dal momento che lei ritiene che io sia cristiana (…) può credermi sulla parola se le assicuro che per tutto il periodo in cui non credevo in Dio lo sono stata veramente. Non in senso metaforico, bensì in modo affatto rigoroso, in modo rigoroso come quello di tutti coloro che sono membri fedeli e assidui della Chiesa, e si comunicano ogni giorno ma non hanno avuto il contatto con Dio da persona a persona”(9).

È un tema, quello della “fede implicita”, al di là del riferimento (auto)biografico alla vicenda spirituale della Weil, che ha evidente e grande rilevanza. Vi è sottontitesa una sostanziale richiesta di cambiamento e di “conversione” rivolta alla Chiesa medesima. Cui va il pressante invito, al di là dei pur incontestati riferimenti dogmatici e dell’indiscussa configurazione istituzionale, ad essere realmente “cattolica”. Cioè, universale. E, dunque, capace di aprirsi davvero alle sollecitazioni dello Spirito che “soffia dove vuole” e di una fede che, al di là delle epoche, delle appartenenze culturali, e finanche delle religioni, ha la caratteristica di manifestarsi ovunque. Come un seme gettato, e accolto, nei terreni più diversi. O come il lievito, indistinguibile dalla pasta.

L’immensa e sventurata massa dei non credenti

Sono i temi, si dirà, che nella Chiesa avranno spazio e cittadinanza, qualche decennio dopo, con la svolta conciliare e con il nuovo rapporto che si verrà sviluppando, in seno al cattolicesimo, con le sfide della modernità e con i temi della mondialità. Ma sarebbe, probabilmente, riduttivo vedere le tematiche religiose ed universalistiche di Simone come una sorta di manifestazione ante-litteram di quello che sarà, poi, lo spirito del Concilio Vaticano II. Ancora una volta, sembra esserci nel suo pensiero un di più di radicalità e di incisività che – su questo punto – va ben al di là di un semplice irenismo o del pur importante rinnovamento metodologico, e di contenuto, implicito nel dialogo interreligioso. La sua impostazione, di credente, ancora una volta, “atipica” eppur così convinta e così ferma, allude ad una ridefinizione dei modi di intendere verticalmente il rapporto con il divino e con la trascendenza e, orizzontalmente, con gli uomini e le donne di appartenenza religiosa e culturale diversa, che ancora sorprende e interpella la coscienze.

Quando “(…) mi figuro concretamente e come qualcosa di imminente l’atto attraverso il quale potrei entrare nella Chiesa, nessun pensiero mi procura tanta pena quanto quello di separarmi dall’immensa e sventurata massa dei non credenti”, scrive Simone, dando voce al “bisogno essenziale, e credo di poter dire la vocazione, di passare fra gli uomini e i diversi ambienti umani fondendomi con essi, assumendone lo stesso colore, almeno nella misura in cui la coscienza non vi si opponesse…”(10). “Diventare cattolici”, d’altra parte, cosa significa? “Santità nuova, originale” è quel che occorre in proposito, a detta della Weil, perché “Dio attende questo sforzo d’invenzione” e bisogna “essere il santo che il momento presente esige”. Occorrono, dunque, “santità e genio” e non “c’è alcuna ragione di non avere del genio, dal momento che per riceverlo si deve soltanto richiederlo a Dio, in nome di Cristo”(11).

Ispirazione mistica e immersione partecipe nella polvere, e nei drammi, della storia sembrano saldarsi indissolubilmente nella cifra purissima della testimonianza di vita, e nel messaggio, di un’inimitabile “donna-genio” (Fiori). Per rendere conto della quale vale quello che ella riferiva alla generalità degli uomini, delle culture e delle civiltà storiche, cioè che “(…) la comparazione soprannaturale non può che essere una partecipazione alla passione di Dio, cioè la Passione”(12).

Va preso atto, d’altronde, che si è di fronte ad un’ispirazione, una ricerca e un cammino affatto particolari nel caso di Simone Weil. Che non sempre è semplice intendere e, tanto meno, accogliere e condividere nella loro interezza.

È quanto confessava, da un’angolatura particolare, un suo ammiratore intellettuale come Franco Fortini, sostenitore di un marxismo eterodosso non privo di punti di contatto con certi aspetti e con taluni “passaggi” dell’esperienza della pensatrice francese. Il quale, rapportandosi alla complessità di quel lascito culturale, ammetteva verso la Weil “un sentimento doppio, di ammirazione grandissima e di resistenza”. Tutta “la tematica anarco-cristiana e la sua polemica antiscientista l’ho ricevuta piuttosto a fondo”, annotava Fortini, il quale sottolineava che ella, sebbene “diversissima è come don Milani (…). Naturalmente, questo non mi impedisce di vedere quel che in lei (…) c’era di sbagliato, di nostalgico dell’anarco-sindacalismo e di un medioevo da canti gregoriani”(13).

Anche senza sottoscriverlo, va colta, credo, l’intuizione, o la “verità interna” che è contenuta nelle parole di Fortini in relazione all’eredità di Simone Weil.

Abitare la contraddizione

Abitare la contraddizione (14) è non solo una condizione del pensiero umano che trova spazio e si riflette ampiamente nelle considerazioni e nell’elaborazione filosofica di Simone. È una dimensione del suo medesimo percorso di vita, al tempo stesso tormentato e limpido, che in niente contrasta con il filo ed il segno fondamentalmente unitario della sua ispirazione, di cui qui si è cercato schematicamente di dar conto. Vivere anche all’insegna, e all’interno, della contraddizione è, dopotutto, il destino dei grandi e degli spiriti non conformisti.

E molti sono gli aspetti contraddittori della personalità e della vicenda di Simone che le ricostruzioni biografiche non mancano di registrare. Riandando per un attimo alla considerazione sui grandi contributi “al femminile” che hanno costellato la storia culturale e lo stesso panorama umano del Novecento, non può non risaltare, al loro interno, la particolarità della figura della Weil.

Che sembra quasi, per un verso, voler rifuggire la proprio femminilità (e che ha verosimilmente un rapporto complesso con i temi del corpo e della stessa sessualità). Ma che evidenzia peraltro, nel suo “tocco”, nel suo stesso approccio tagliente, incisivo e profondo alla realtà e nel darsi oblativamente fino alla consunzione fisica e al sacrificio di sé (con modalità estreme che sembrano evocare quelle di alcune grandi mistiche e sante), una radicale, e dirompente, modalità “femminile” di dare sostanza alla premura per il mondo. Una modalità che, forse, proprio in ragione dei suoi aspetti estremi, “provocatori”, e difficilmente riproponibili, ancora oggi ci inquieta e ci fa riflettere. Non a caso.“Questioni di genere” e di “pensiero della differenza” sono , da anni, al centro di molte riflessioni. Ma sul piano politico e istituzionale quel che ne è derivato è al massimo la proposizione di una politica da “quote rosa” (con esiti e risvolti che molto sarebbero da discutere) e non una vera, e non artefatta, promozione della partecipazione e del protagonismo “al femminile”. Mentre sul piano dei modelli culturali e di costume, spenti i fuochi, e i bagliori estremi, della rivolta femminista (produttrice, comunque, di un’indiscutibile spinta al nuovo), regressione e trionfo di un involgarito senso dell’estetica e dell’esteriorità (quanto di meno weiliano si possa immaginare) vanno per la maggiore. E contribuiscono alla disinvoltura del sentire ed all’apparente inaridimento degli animi che inducono ad inquietanti interrogativi sulle sorti medesime della nostra società.

Il punto morto in cui sembra venirsi oggi nuovamente a trovare la riflessione sulla “questione donna” non è, naturalmente che un aspetto e una cartina di tornasole della condizione in cui oggi ci troviamo a vivere. E su cui è bene tornare ad interrogarsi… Viviamo in tempi assai diversi (e, pur nella loro problematicità, fortunatamente assai meno tragici) di quelli in cui ha speso la sua breve esistenza Simone Weil. Ma è inevitabile tornare a porsi la domanda che anche la nostra autrice (allora, in relazione principalmente agli esiti di una civiltà industriale che, in quella forma, è a già alle nostre spalle) si poneva “(…)che cosa morirà e cosa sussisterà della civiltà attuale?”(15).

L’istanza di fondo, la perorazione quasi, che la riflessione di Simone Weil riesce a far giungere fino a noi è, come opportunamente ci è stato ricordato, “quella di un nuovo inizio del pensiero occidentale”(16).

Proporre una rilettura, ai nostri giorni del messaggio di Simone Weil in chiave di una sua semplicistica “attualizzazione” finirebbe per assumere il carattere di una forzatura. Chiedersi se il messaggio weiliano è “attuale” non è forse la domanda giusta. Tutta l’esperienza di una così originale pensatrice, che pure è incomprensibile al di là della contestualizzazione, già richiamata, nelle dinamiche e nei drammi del suo tempo, apparve, se mai, da subito, come non catalogabile ed eccentrica. Una sorta di ineludibile “inattualità” sembra essere inscritta da sempre nei connotati, nei destini del, pur incisivo e pregnante, pensiero della Weil e negli echi da questo suscitati. Ma c’è un’inattualità che è sinonimo d’anacronismo. E ce n’è un’altra, che passa il muro e le barriere del tempo, ha il segno della fecondità e invita al trascendimento dell’esistente. È con questo timbro e con questo segno che l’inusuale accento e l’inconsueto messaggio di una pensatrice, e di una donna, così fragile e così forte ci raggiunge da lontano e ci invita a scorgere con occhi rinnovati il profilo dell’inedito.

1)Le passioni di Simone Weil- politica, cultura, religione era il titolo di un precedente volume che “Testimonianze” (n. 370) ha dedicato, nel 1994, alla pensatrice francese.

2) Giancarlo Gaeta, Prefazione a Il racconto di Antigone e Elettra, di Simone Weil (ed. Il Melangolo, Recco, Ge. 2009), p. 9.

3) Ibidem, p.8.

4) È quanto ricorda, e tematizza, un volumetto del Centro Formazione e Ricerca “Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana” dedicato a Socrate & Don Lorenzo (Tipolitagrafia I.P, Firenze 2008).

5) V. in prop.,Un sessantotto di provincia, di S. Santini e S. Tanzini, nella sezione monotematica dedicata a Ripensare il ’68, “Testimonianze” n.402.

6) Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, ed. Adelphi, Milano 2008, p.29.

7) Ibidem, p.77.

8) V. in prop., Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando editore, Roma 1996.

9) Simone Weil, L’attesa di Dio, ed. Adelphi, Milano 2008, p. 77.

10) Ibidem, p. 9.

11) Ibidem, p.65.

12) Ibidem, p.207.

13) F. Fortini-P. Jacchia, Fortini-leggere e scrivere, Marco Nardi editore, Firenze 1993.

14) V. in prop., A. Danese, G.P. Di Nicola, Simone Weil:abitare la contraddizione (con prefaz. di A. Devaux), ed. Dehoniane, Roma 1991.

15) S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’ oppressione sociale, cit., p.127.

16) Giancarlo Gaeta, Simone Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992.