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“Sfere dell’occulto” e miti della trasparenza
di Fabio Dei

Un’analisi antropologica che si snoda attraverso il racconto della genesi del fenomeno nel sistema del patronage, tipico del nostro Sud e delle realtà economiche e sociali premoderne dove il «favore» è considerato cosa «naturale», per passare a considerare la lotta alla corruzione a livello internazionale in un contesto in cui, a fronte di una rigida normativa basata su un’ideologia che considera la corruzione come limite alla modernizzazione e alla civilizzazione, si riscontrano paradossalmente gravi episodi di frode finanziaria nei punti «alti» del capitalismo e della finanza globalizzata. Non tanto paradossalmente, al culto della trasparenza, che sta alla base della lotta alla corruzione, si contrappone e si congiunge il fiorire di una mentalità cospirativa che tutto spiega in termini di complotto e che è indice inequivocabile dell’opacità dei meccanismi di potere.

 
Con un passo indietro

L’invito di Testimonianze a riflettere sulla corruzione nella prospettiva del mio campo di studi, l’antropologia culturale, mi suggerisce di cominciare con un passo indietro rispetto all’immediata attualità politica. Non sarebbe certo difficile inserirsi in un discorso sulla persistente e dilagante corruzione nell’Italia di oggi. In chiave antropologica, sarebbe anche facile passare dai grandi scandali che occupano le prime pagine dei giornali a tutta una serie di microcomportamenti quotidiani che espongono lo stesso tipo di logica. C’è infatti un qualche tipo di continuità fra le forme esplicite della corruzione politica (il recente caso di Sesto S. Giovanni, ad esempio, o la compravendita dei parlamentari) e le forme più banali della raccomandazione, del favoritismo, del clientelismo e nepotismo più profondamente annidate nel tessuto sociale. E qui l’antropologia si troverebbe su un terreno consueto: l’analisi di una base «culturale» o prepolitica di lunga durata sulla quale si innesterebbero poi le pratiche politiche e i casi più spettacolari di corruzione, così come le forme di gestione mafiosa del territorio.

Appunto, sarebbe fin troppo facile inserirsi in questo tipo di discorso. Ma proprio qui sta il problema – e il passo indietro metodologico che occorre fare. Perché questo discorso critico sulla corruzione che dilaga a tutti i livelli è socialmente diffuso quanto la corruzione stessa. Lo si può ascoltare costantemente e dovunque: dalle chiacchiere da bar ai talk show televisivi, dal gossip familiare alle dichiarazioni delle massime autorità politiche internazionali. Il discorso sulla corruzione sembra far parte del fenomeno stesso che vogliamo comprendere, più che rappresentarne una spiegazione o una descrizione dall’esterno. Voglio dire: perché si parla tanto e così volentieri della corruzione, e di tutti quei comportamenti sociali in cui l’interesse privato o l’appoggio familistico, amicale, politico si sovrappone all’etica della sfera pubblica, alla trasparenza anonima dei sistemi di regole?

Si dirà: si parla tanto di corruzione proprio perché la corruzione è così diffusa; dunque, come reazione e denuncia a un fenomeno che è percepito come immorale e dannoso. D’accordo, ma non è solo questo. Il fatto che vi sia una forte predisposizione a parlare non solo di casi concreti, ma anche di sospetti di corruzione, di un immaginario della corruzione; che le narrazioni incentrate sulla corruzione siano un genere di grande attrazione e successo, nella vita reale come nelle news televisive e nella fiction, tutto questo indica che siamo di fronte a qualcosa che sta al cuore della nostra vita sociale e delle rappresentazioni che ce ne diamo. Raccontarci storie sulla corruzione – i grandi scandali pubblici da un lato, le piccole e sordide conoscenze quotidiane dall’altro – è un modo cruciale attraverso il quale interpretiamo l’ambiente morale nel quale viviamo (v. Gupta 1995). Si potrebbe anche pensare che, nel determinare un clima o una cultura della corruzione, le storie si intrecciano e si confondono in modo inestricabile con la realtà. Il che, in fondo, è ciò che ha fatto il successo di Gomorra di Saviano, né romanzo né report fattuale, ma interprete di un senso della cultura violenta e corrotta della camorra che era facile riconoscere – repertorio esemplare di storie.

In questo articolo vorrei esaminare due di queste narrazioni riguardanti la corruzione, radicate in ambienti tanto diversi ma in fondo con alcuni tratti comuni: un paese della Basilicata da un lato, le istituzioni dell’economia globale dall’altro. Il senso della comparazione è esprimere un certo scetticismo riguardo ai richiami alla trasparenza sui quali si incentra l’odierno discorso anti-corruzione delle organizzazioni internazionali. Concluderò con alcune osservazioni sulla poetica della segretezza o della cospirazione che sembra permeare il nostro modo di immaginare quello che viene chiamato il «nuovo ordine mondiale».

Mondi locali: dal patronage alla raccomandazione

L’Italia del Sud è uno dei luoghi classici della cultura della raccomandazione e della corruzione, e in quanto tale è stata studiata da una consistente letteratura sociologica e antropologica. Soprattutto nei primi decenni del secondo dopoguerra, diversi studiosi hanno cercato di capire le «basi morali di una società arretrata», come suona il titolo di un celebre libro del sociologo americano Edward Banfield (1976, ed. orig. 1958). Queste basi erano riconosciute in una struttura dei rapporti sociali basata sul sistema delpatronage. Usato in riferimento a molte culture dell’area mediterranea, il termine patronage si applica a una struttura economica basata sulla grande proprietà agraria e su differenze di classe stabili e radicali. Qui i ceti popolari, in prevalenza contadini, dipendono interamente dagli agrari per le loro esigenze materiali, per l’ottenimento di servizi e per i rapporti con le autorità statali. Si stabilisce dunque una stretta relazione di dipendenza con i «patroni», i quali ricevono beni, prestazioni lavorative e fedeltà in senso lato politica in cambio di una protezione e di un aiuto (che in realtà dovrebbero esser garantiti ai cittadini dallo stato). Una volta esaurito il modello latifondista, il patronage classico si disgrega ma non lascia facilmente il passo a un sistema moderno e razionale basato sul rapporto diretto dei cittadini con lo stato e col mercato. La logica del patronage resiste e si incarna in una serie di fenomeni anche molto diversi fra loro: il clientelismo politico, la cultura della raccomandazione, le organizzazioni mafiose (che secondo un’autorevole tesi nascono proprio come istituti di mediazione tra le masse contadine e un ceto agrario di «patroni» che per lo più non vivono sul territorio). Anche il «familismo amorale», che lo stesso Banfield diagnosticava come principale problema del Mezzogiorno italiano, rientra in questa categoria di patologie sociali. Si tratterebbe di elementi di inerzia culturale che sopravvivono al modello economico che li ha creati, impedendo così il pieno sviluppo della modernizzazione.

Anche i decenni di potere democristiano sono stati spesso letti in questa chiave: un intero ceto politico ha gestito la distribuzione clientelare delle risorse statali, in specie quelle stanziate per sostenere l’economia meridionale, creandosi così solide reti di appoggio (con il ben noto paradosso per cui le politiche volte allo «sviluppo» hanno di fatto alimentato un sistema che tale sviluppo impediva). Con «Mani Pulite» e la cosiddetta «seconda repubblica» le condizioni sono di nuovo cambiate, ma ancora una volta il vecchio sistema di valori ha saputo resistere e riarticolarsi. Gli studi per questo periodo sono meno numerosi (anche perché, nel frattempo, patronage e clientelismo sono per vari motivi usciti dall’agenda principale delle scienze sociali). Per gli anni Novanta, un lavoro etnografico di ottimo spessore è quello pubblicato da Dorothy L. Zinn (2001), antropologa statunitense che vive da molto in Italia ed ha studiato le forme della «raccomandazione» nella cittadina lucana di Bernalda. L’immagine che il suo resoconto restituisce è quella – come ci saremmo aspettati – di una vita quotidiana in cui la raccomandazione è diffusa in modo pervasivo, è il modo naturale di affrontare sia il mercato sia la burocrazia e l’amministrazione pubblica. Non perché non li si possa affrontare in altro modo. L’analisi di Zinn è di estremo interesse perché mostra che non sono motivi utilitaristici quelli che in fondo muovono la pratica della raccomandazione: piuttosto si tratta di uno stile relazionale. Agire in altro modo – senza cercare e concedere appoggi e contatti personali – è percepito come inappropriato, in definitiva offensivo verso gli altri.

 

La raccomandazione: “un’ideologia”

Zinn chiama questo aspetto «ideologia» della raccomandazione: intendendo questo termine non come una sorta di falsa coscienza, ma, nell’accezione gramsciana, come un insieme di elementi culturali che sostengono un certo tipo di rapporti sociali. Si tratta fra l’altro di una ideologia molto complessa, che investe una gamma – un continuum, potremmo dire – di pratiche diverse. A un estremo di questa gamma ci sono episodi di corruzione vera e propria, in cui si offrono dei soldi per ottenere favori (ciò che di solito si chiama «bustarella» o «tangente»). All’altro estremo ci sono le più innocue pratiche di presentarsi a nome o come amico di qualcuno – nei negozi, nelle strutture e nei servizi pubblici – per ottenere trattamenti di favore. Nel mezzo, modalità più o meno esplicite di ricerca di favori e privilegi (primo fra tutti un posto di lavoro) attraverso il sostegno di persone «potenti», ricompensate attraverso doni e attraverso varie forme di «fedeltà», incluso l’appoggio politico. Da notare anche che questi rapporti si sovrappongono in parte a quelli che rubricheremmo sotto le voci «dono» e «reciprocità». Dono e corruzione sono in teoria pratiche dal valore morale diametralmente opposto. Tuttavia nella pratica si incrociano, essendo entrambe estranee alla logica dei rapporti formali e anonimi che lo stato e il mercato definiscono. La reciprocità nello scambio di doni, tramite cui si stringono e si alimentano i rapporti sociali, si mischia spesso con le relazioni clientelari e di raccomandazione.

Nella realtà di Bernalda, le persone sono costantemente impegnate a valutare la natura morale di questi scambi, a distinguere i favori «naturali» dalle forme più vistose di corruzione, il vero dono dal pagamento o dal ricatto, e così via. La raccomandazione è una cosa di cui si parla. Non solo essa consiste in parole, cioè in qualcosa che si enuncia, ancor prima che in scambio di beni materiali; ma l’intero discorso sociale sembra percorso da queste valutazioni e discussioni, dalle voci, dalle critiche o dagli apprezzamenti. Da notare che la gente è consapevole – non da ultimo attraverso i media – del discorso egemone contro la corruzione, e lo condivide in buona parte. Le discussioni di Zinn con i suoi interlocutori locali sono incentrate appunto attorno alla distinzione tra ciò che è davvero comportamento disonesto e la sfera delle consuetudini e delle regole di comportamento locali, che se non giuste appaiono almeno «naturali» («si fa così», «è sempre stato così» etc.). Soprattutto i membri delle classi sociali più alte hanno bisogno di un compromesso tra l’adesione a una ideologia locale e quella al discorso «civilizzato» ed egemonico contro la corruzione: e lo trovano nell’ambigua nozione di una «identità meridionale», quella che fa dire a uno degli interlocutori di Zinn: «Non siamo l’Uganda, ma quasi». È una ironica autocritica ma al contempo anche un’autodifesa, che si appropria di un discorso dominante sugli standard di civiltà tenendosene al contempo fuori.

Mondi globali: la Banca Mondiale contro la corruzione

Se passiamo dall’ambito ultralocale della Lucania delle «raccomandazioni» a una scala più ampia, incontriamo versioni nazionali e globali del discorso sulla e contro la corruzione. In particolare, a partire dagli anni 90 del Novecento, una decisa battaglia contro la corruzione è stata intrapresa dalle istituzioni internazionali, in particolare dalla Banca Mondiale e da alcune ONG come la potente «Tranparency International». Esiste oggi una convenzione ONU contro la corruzione, una organizzazione istituita dal Consiglio d’Europa che si chiama Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), e non v’è Stato che non abbia il suo osservatorio e la sua commissione per la lotta alla corruzione. Si organizzano convegni internazionali sul tema, si lanciano progetti educativi e di persuasione morale. Le organizzazioni internazionali tentano da un lato di diffondere sensibilità per il problema, dall’altro di imporre ai singoli stati norme e forme di governance in grado di limitare il dilagare della corruzione. In particolare, l’obiettivo è raggiungere una totale trasparenza e accountability in tutte le attività economiche e amministrative (incluse quelle private): nella convinzione che la corruzione prosperi nelle sfere nascoste e opache che si sottraggono alla pubblica visibilità (un punto importante, questo, su cui dovrò tornare oltre).

Anche qui abbiamo a che fare con la costruzione e la circolazione di un ampio discorso, che presuppone una «ideologia» generale della corruzione, del suo rapporto con lo stato, l’economia e la «modernità». Si parte intanto da una definizione generale di corruzione, che si ritiene applicabile a tutti i contesti. «L’abuso di una funzione pubblica per un vantaggio privato» è la definizione della Banca Mondiale, ripresa con poche variazioni su pubblicazioni e siti dedicati al tema. La corruzione è uno tra i sei indicatori che la Banca Mondiale utilizza per stilare la sua classifica della qualità del governo nei paesi di tutto il mondo, e che sarà utile ricordare per capire il contesto culturale-ideologico in cui questo discorso è situato: a) il grado di accountability, collegato ai diritti e alle libertà poltiiche, alla trasparenza nei meccanismi elettorali e nella valutazione dell’operato degli eletti, all’indipendenza dei media; b) il grado di stabilità e di assenza di violenza e terrorismo nella sfera politica; c) il livello di legalità, nel senso della fiducia e del rispetto da parte dei cittadini delle leggi dello stato; d) la percezione della corruzione da parte dei cittadini e le iniziative messe in atto per tenerla sotto controllo; e) l’efficacia del sistema di governo (efficienza nell’erogazione dei servizi pubblici, qualità dei funzionari etc.); f) qualità regolamentativa, relativa all’organizzazione normativa dello stato.

In tutto ciò appare chiaro che la corruzione è vista come un limite della modernizzazione e della razionalizzazione dei sistemi economici e politici, o più precisamente come un residuo di arcaicità che impedisce il pieno dispiegarsi delle potenzialità delle democrazie e del mercato (esattamente come la violenza e la mancanza di trasparenza). In altre parole, si tratta di una visione «primordialista»: la corruzione esiste come irrazionale sopravvivenza di sistemi precedenti, come appunto quello del patronage. È connessa dunque in questo tipo di discorso all’arretratezza, a un difetto di civilizzazione; oppure viene letta in termini di metafore patologiche. Di fatto, essa si definisce in opposizione a un modello ideale di sistema politico ed economico, che l’antropologo Chris Shore definisce come «lo stereotipo weberiano di una burocrazia come forma organizzativa legale-razionale, in cui il comportamento dei funzionari è guidato da regole formali, codificate e trasparenti, il reclutamento è basato sul merito e sulla competenza […] e i rapporti tra funzionari e pubblico sono strettamente impersonali…»[1]. Questa concezione implica già in partenza l’idea che la corruzione caratterizzi in particolare i paesi del Terzo Mondo, che stanno ancora vivendo una imperfetta transizione alla modernità. Il fatto che agli ultimi posti delle graduatorie elaborate dalle organizzazioni internazionali vi siano paesi come l’Afghanistan e la Somalia è più una conferma tautologica della definizione e degli indicatori scelti che non una scoperta empirica.

Dunque, il discorso e l’ampio apparato anti-corruzione delle organizzazioni globali si rivela basato su una interpretazione fortemente ideologica e idealizzata del sistema economico e politico di quello che si chiamava una volta «Primo Mondo». Non solo si può discutere sul piano teorico il cruciale etnocentrismo di questa impostazione; non solo si può contestare l’utilità di affermare una definizione unitaria di «corruzione» che si impone a contesti nei quali il dibattito etico e giuridico si può porre in termini diversi. Queste critiche, peraltro, investono molti aspetti del discorso moralizzatore che domina oggi le organizzazioni internazionali, ad esempio nel caso dei diritti umani e dei progetti di cooperazione (Dei 2008, Maher 2011). Ma soprattutto, ciò che appare oggi chiaro è che questa autorappresentazione è stata smentita clamorosamente dai fatti, proprio negli anni in cui la sua propaganda si è intensificata. Negli anni 2000 il mondo dell’economia globale è stato caratterizzato da macroscopici fenomeni di frode, falsificazione, corruzione, esplosi all’inizio del decennio con la bancarotta di Enron e WorldCom, proseguiti con gli scandali dei fondi di investimento gonfiati, il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e una serie costante di comportamenti scorretti del mondo finanziario che hanno contribuito in misura consistente a determinare la profonda crisi di oggi. Questi eventi hanno avuto l’epicentro negli Stati Uniti, nel cuore dell’estabilishment economico-finanziario globale – proprio quello che si era rappresentato fino ad allora immune dalla corruzione in virtù di solide istituzioni di controllo nonché di una ferrea etica pubblica.

Ora, le indagini sia giornalistiche sia accademiche su queste vicende hanno mostrato al di là di ogni dubbio che non si è trattato di casi isolati attribuibili a individui o singole imprese «devianti», ma del frutto di comportamenti spregiudicati, fraudolenti e collusivi che erano (e sono?) la norma in quegli ambienti economici e finanziari. Da qui il coinvolgimento a cascata di tutti i soggetti che avrebbero dovuto costituire un solido sistema di controllo e di equilibri: società di certificazione dei bilanci, agenzie di rating, banche, autorità della Borsa, esponenti della pubblica amministrazione. Soggetti accomunati da un’appartenenza di classe e da una spiccata cultura corporativa. Negli stessi anni, un altro caposaldo dell’integrità e della trasparenza amministrativa, la Commissione dell’Unione Europea, doveva affrontare casi di corruzione e nepotismo, di cui lo «scandalo» Cresson, che portò nel 1999 alle dimissioni della Commissione guidata da Jacques Santer (prima della presidenza Prodi), è solo l’esempio più noto. Dal punto di vista degli studi socio-antropologici sulla corruzione, queste vicende cambiano radicalmente scenari e agenda di ricerca rispetto alle vecchie questioni del clientelismo e del patronage «meridionali». Com’è stato efficacemente sintetizzato in un dibattito sulla rivista Social Analysis, ne emerge con chiarezza che: «Primo: la corruzione non è affatto confinata ai paesi del Terzo Mondo, ma è presente, sia pure in forme diverse, negli Stati Uniti e nell’Unione Europea. Secondo: c’è una storia del capitalismo americano, legata alla globalizzazione del capitale, che crea un contesto favorevole alla corruzione. Terzo: tra le élite economico-finanziarie sono diffuse pratiche non così diverse da quelle delle famiglie mafiose siciliane»[2].

Trasparenza e segretezza del potere

La cultura corporativa delle élite economiche globali deve ancora esser studiata etnograficamente – almeno, con la stessa profondità con cui l’antropologia ha studiato quella dei ceti popolari nei villaggi del Mezzogiorno italiano (Marcus 1993, Shore, Nugent 2002, Abeles 2002; Abeles 1992 e Shore 2000 per studi etnografici sulla burocrazia del Parlamento e della Commissione Europea). Anche in essa troviamo comunque un rapporto ambiguo e complesso con la pratica e l’ideologia della corruzione. Nelle inchieste sui crac Enron o Lehman Brothers è emerso quel tessuto di «si è sempre fatto così», di giustificazioni, di negoziati morali, di compromesso fra una certa pratica e una certa auto-rappresentazione di sé – in fondo non lontano da quello che Dorothy Zinn ci ha mostrato in Basilicata.

Naturalmente, è difficile non mettere in relazione i casi americani con i valori e le caratteristiche del recente capitalismo finanziario e il suo radicale neoliberismo. La corruzione si mostrerebbe così insediata negli avamposti della modernità capitalistica, piuttosto o oltre che nelle sue retroguardie. Certo, categorie così generali non portano molto lontano (se è per questo, è ovvio che la corruzione ha prosperato anche di più nei regimi comunisti); servono almeno ad evitare la riproduzione degli stereotipi orientalisti che vedono frode, corruzione e disonestà come attributi essenziali degli «Altri». Spingono anche a chiedersi qualcosa in più sul discorso globale anti-corruzione della Banca Mondiale o di Transparency International: un discorso che sembra scaturire dagli stessi ambienti e da quella stessa cultura che ha prodotto Enron e tutto il resto. C’è una contraddizione in tutto ciò, oppure una produttiva tensione? Sono le parti migliori e peggiori del capitalismo neoliberista che si scontrano?

Sia chiaro: non intendo affatto suggerire che dietro le istanze democratiche e «civilizzatrici» del discorso anti-corruzione vi sia il volto rapace del capitalismo globale, interessato solo ad eliminare gli attriti che ne rallentano la penetrazione. Tuttavia occorre avere percezione delle difficoltà che implica la proposta di soluzioni liberiste al problema, basate sull’applicazione di un modello ideale che non ha funzionato prima di tutto nel cuore dell’Occidente; e che anzi produce sistematicamente condizioni sociali (come più forti distanze sociali e una forbice crescente fra redditi alti e bassi) che sono sicuro terreno di coltura per la corruzione.

Un sistema cristallino
Ma c’è un paradosso ancora più forte nell’odierno discorso anti-corruzione, col quale vorrei chiudere queste sparse osservazioni.  Mi riferisco al tema della trasparenza. Come abbiamo visto, è il richiamo alla trasparenza la nozione-chiave della lotta globale alla corruzione, quella che ne sintetizza i diversi aspetti. Trasparenza delle procedure politiche, dei meccanismi elettorali, dei bilanci delle imprese, delle strategie di reclutamento dei dirigenti e dei funzionari pubblici, tracciabilità integrale dei flussi di denaro  così come delle catene decisionali nella sfera pubblica (Garsten, De Montoya 2008).  Si auspica un sistema sociale cristallino, in cui tutto si possa vedere e controllare. La corruzione prospera nel sottobosco, nelle zone d’ombra, nelle sfere segrete, nelle relazioni opache e troppo personali:  eliminando queste, le si toglierebbe il terreno da sotto i piedi.
Quanto è realistica l’idea di una modernità integralmente trasparente? Il modello weberiano lo è, d’accordo. Stato e mercato sono immaginati come sistemi totalmente anonimi, in cui tutto avviene di fronte a grandi vetrine. La diffusione dei media ha contribuito ulteriormente a questa impressione. I media entrano dappertutto, vedono dappertutto e portano queste immagini sugli schermi televisivi e sui monitor dei PC di ogni casa. Sono una specie di panopticon globale e democratizzato, che annulla la differenza tra osservatori e osservati. Cancellano il backstage della sfera pubblica, non lasciano nell’ombra neppure gli aspetti più intimi della vita.
E tuttavia, mai come oggi la nostra percezione del potere, cioè delle dinamiche reali che determinano la nostra vita, è  avvolta dal mistero. Con la spersonalizzazione del grande capitale, chi sa dire dove e da chi sono mosse le grandi leve dei meccanismi economici? Con il declino degli stati-nazione e con la colonizzazione dell’opinione pubblica da parte dei media, chi sa dire dove si trovano i centri del potere politico? Chi sono gli amici e chi i nemici? Chi difende i nostri interessi e chi se ne fa invece scudo ideologico per altre non dichiarate finalità? Neppure la verità scientifica rappresenta più un’isola protetta dai sospetti di ideologia, collusione, strumentalità. Di fronte ai rischi di una catastrofe ambientale, quali tesi scientifiche sono veramente neutrali e affidabili?
Investiti da un flusso costante di informazioni, notizie, opinioni autorevoli, non sappiamo a chi credere, di chi fidarci. La realtà ci viene restituita attraverso una moltitudine di storie, di fiction di genere e contenuto diverso, dietro le quali si aprono le sfere del sospetto. Le sfere dell’occulto, si potrebbe quasi dire. Sul recente numero di Testimonianze dedicato all’Africa, Pino Schirripa ci ricordava l’ampia diffusione delle letture «occulte» della modernità capitalistica nell’immaginario diffuso del continente. Dietro le acquisizioni di ricchezze e di potere politico da parte di singoli e gruppi ci sono spesso il sospetto, le voci, le storie di pratiche di stregoneria, di riti cruenti e inconfessabili, di alleanze con potenze nascoste e misteriose. Anche qui, sarebbe un grande errore considerare tutto questo come un residuo primordialista o una sopravvivenza del pensiero magico. L’immaginario occidentale non condivide il lessico della stregoneria, ma condivide di sicuro la disseminazione e la forte presa delle storie sui retroscena nascosti del potere.
In particolare, alla poetica della trasparenza si contrappone in modo sistematico quella della cospirazione. È fin troppo facile trovare esempi di questo in Italia, dove l’intera storia del dopoguerra è stata letta in termini di trame occulte, società segrete, poteri invisibili, influenze sotterranee del Vaticano, dell’Opus Dei, della massoneria, della mafia, della CIA o del KGB e così via (come si capirà, non mi interessa qui distinguere fra le storie che si sono rivelate almeno in parte vere e quelle che sono rimaste non provate dai fatti). L’Italia è gravata da troppi residui di opaca pre-modernità, si dirà. Ma il luogo dove la cultura cospirazionista prospera di più sono proprio gli Stati Uniti, dove, sorrette dalle capacità comunicative della rete, si diffondono teorie su complotti e segreti di tutti i tipi  (West, Sanders 2003; Marcus 1999, Melley 1999, Fenster 1999), che seguono le linee delle divisioni razziali, religiose e politiche e alimentano il senso di risentimento in vasti strati della popolazione. Dagli sforzi della CIA per  nascondere l’esistenza degli alieni, alle trame del Ku Klux Klan per sterilizzare i maschi afroamericani con la manipolazione dei cibi, agli accordi segreti del presidente Obama con i paesi arabi, al governo mondiale della Commissione Trilaterale o dell’ordine degli Illuminati, e così via.
Del resto, basta pensare a come i maggiori eventi della storia più recente siano stati soggetti a interpretazioni alternative di vario tipo in chiave complottista. L’incidente della principessa Diana non poteva essere casuale. Le Torri Gemelle non potevano crollare in quel modo. Gli astronauti americani non sono mai andati davvero sulla Luna. Bin Laden non è stato veramente ucciso, forse non esisteva neppure, o magari gli americani hanno sempre saputo dove si nascondeva. Più siamo consapevoli della capacità dei media e delle forme elettroniche della rappresentazione di manipolare il reale, di confondere verità e finzione, più siamo disposti ad alimentare dubbi e sospetti anche di fronte a quelle che ci vengono presentate come prove inconfutabili.
Ci siamo in apparenza allontanati dalla corruzione. Ma non di tanto, perché, a Bernalda come a Wall Street, è nel clima di cospirazione e complotto, di segretezza e invisibilità del potere, che la corruzione e i suoi correlati germogliano e prosperano. Il nuovo ordine mondiale (come è stato definito il tardo capitalismo di scala globale), mentre pretende di ispirarsi a un modello ideale di trasparenza, sembra invece produrre invisibilità del potere, incontrollabilità delle condizioni economico-politiche locali, sfiducia e indebolimento dei più tradizionali vincoli sociali. Altro che accountability. L’ironia, in tutto questo, è che le stesse critiche a questo stato di cose – ad esempio, lo stesso concetto di «Nuovo Ordine Mondiale», o quello di «Impero» – prendono spesso la forma di storie complottiste e cospirative. Cosicché è difficile trovare la strada della trasparenza, che tanto più si allontana quanto più la si evoca.Riferimenti bibliograficiM. Abeles, La vie quotidienne au Parlament européen, Hachette, 1992,
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