nepal  Nepal: una tragedia sconosciuta di Emmanuele Giaccherini

Dal 13 febbraio 1996, in Nepal è in corso una «guerra di popolo» che vede in campo il Partito Comunista di orientamento maoista, contrapposto alle forze militari del re Gyanendra, che dal febbraio 2005 ha destituito completamente il parlamento delle sue funzioni ed ha accentrato tutti i poteri su di sé. Il conflitto, tuttora in corso, tra le due fazioni,  ha ormai già mietuto, più di 12.000 vittime gran parte delle quali sono civili innocenti.

Nel ruolo di documentaristi

Leonardo Ferri ed io – nel ruolo di documentaristi – abbiamo raggiunto nell’agosto 2005 la valle di Kathmandu per filmare questa tragica situazione, concentrando l’attenzione sul problema della violazione dei diritti umani e in particolare sul fenomeno crescente degli «scomparsi» nell’ambito del conflitto.

I dati hanno raggiunto ormai dimensioni veramente allarmanti: secondo INSEC (Informal Sector Service Centre) ci sono stati 12.753 vittime (accertate) dalla parte dello stato e dei maoisti, e almeno 1.232 «scomparsi» dall’inizio del conflitto ad agosto 2005. Senza contare che queste sono solo le cifre censite, ovvero senza tener conto di tutti coloro la cui morte o scomparsa non è stata denunciata per vari motivi. Ad esempio, le donne in Nepal non hanno diritto di cittadinanza alla nascita, «beneficio» del quale possono usufruire solamente su richiesta e «accompagnamento» di un membro maschile della famiglia: ecco che molte donne ufficialmente non esistono. Come spesso accade, purtroppo, sono in gran parte le persone innocenti a risentire degli effetti più devastanti di questi conflitti.

Dalle varie interviste che abbiamo raccolto durante la nostra permanenza (Amnesty International, INSEC, CWIN – Child Workers In Nepal concerned centre -, alcuni giornalisti del principale quotidiano nepalese “Kathmandu Post”, vittime del conflitto sia da parte dell’esercito che dei maoisti) è emerso uno scenario all’interno del quale le due parti in conflitto sono ugualmente responsabili delle atrocità commesse sulla popolazione. Il Nepal è suddiviso in 75 distretti, ma la gran parte della popolazione è concentrata principalmente nella capitale e nella «valle» che la circonda (che si trova comunque a 1500m di altitudine); il resto del paese è costellato di piccoli villaggi per lo più montani, mal collegati tra loro. Dal 1996 ad oggi – con un aggravamento della situazione conflittuale dopo il colpo di stato del 2001- il paese è stato spartito in aree di controllo: l’NRA (National Royal Army) detiene l’egemonia sulla valle e principalmente sulla seconda città del Nepal, Pokhara; il CPN (Communist Party of Nepal) esercita le sue azioni sulla gran parte dei villaggi dei distretti più decentrati.

 Sequestri e detenzioni a tempo indeterminato per dubbie motivazioni, torture, stupri, sparizioni, sono all’ordine del giorno, di fatto rendendo la morte un semplice dato statistico: 3,72 vittime giornaliere dal 1996 ad agosto 2005, con un incremento che arriva a 6,55 nell’ultimo anno.

Una roulette russa

La popolazione è terrorizzata da questa situazione, ha seriamente paura di parlare e anche spostarsi da un luogo ad un altro del paese è diventato quasi una roulette russa. Ad aggravare l’impunità di queste barbarie si aggiunge un’ordinanza del re che risale ad ottobre del 2004: il T. A. D. A. (Terrorist and Disruptive Activities) Ordinance che conferisce alle forze di sicurezza il potere di arrestare e trattenere le persone sotto l’ordine di carcerazione preventiva fino ad un anno, senza il dovere di comunicare a nessuno alcunché, né il luogo di detenzione né le motivazioni. Secondo Amnesty International (Nepal) le modalità con le quali avvengono le «sparizioni» dei presunti affiliati al partito maoista da parte delle forze di polizia sono per la maggior parte “non convenzionali” (arresti senza mandato, bendaggio delle vittime, camuffamenti dei poliziotti in abiti civili), come del resto i luoghi di detenzione, che possono variare da uffici o stazioni di polizia a baracche nei campi dell’esercito, ma anche luoghi di custodia non identificati.

Addirittura, nel maggio 2004 c’è stato un sit in spontaneo che ha radunato moltissimi familiari degli scomparsi a Ratna Park – la piazza dove si addestra l’esercito e dove si svolgono le parate militari – e che ha resistito per venticinque giorni consecutivi, proprio allo scopo di rendere finalmente pubblica la denuncia di  queste sparizioni: ogni persona aveva un cartello con riprodotta la foto del familiare scomparso, con su scritta la data della sparizione.

Durante la nostra permanenza in Nepal, abbiamo avuto modo di stare a contatto con molte persone del luogo, bambini e adulti, donne e uomini e, ad un primo sguardo non sembra di avere a che fare né con persone che vivono in un paese che è nel bel mezzo di una guerra civile o che subiscono abusi e violenze di ogni genere anche all’interno delle loro stesse abitazioni. Gli stessi nepalesi in molti casi ignorano di essere vittime di soprusi e di non godere dei più elementari diritti: al cibo, all’istruzione, alla salute.

Causa ed effetto

Di un paese molto tradizionale come questo, in cui la divisione in caste diventa causa ed effetto di tutti i problemi e di tutti i bisogni, è molto difficile dare una descrizione. Secondo la religione induista quello che capita nella vita va vissuto come un caso e il destino non va in nessun modo modificato. Anche nelle classi più istruite, anche se parlare di classi qui è quanto meno una forzatura, resistono tendenze conservatrici molto forti. I matrimoni combinati tra appartenenti a persone della stessa casta perpetua un sistema gerarchico e le giovani generazioni non si sottraggono alla tradizione. Allo stesso tempo, però, la tecnologia e il confronto con l’occidente favoriscono una certa volontà di cambiamento: si crea così un equilibrio assai precario tra il perpetuarsi dell’assetto della società secondo criteri atavici e lo slancio verso una maggiore dinamicità.

Ecco che spesso solo grazie ad alcune associazioni come la Women’s Foundation of Nepal[1] e poche altre, è possibile creare quella coscienza dei diritti umani fondamentali che lo Stato non riesce o non vuole dare. Proprio nella sede di Kathmandu di questa associazione siamo riusciti a parlare con alcuni parenti di persone che sono state sequestrate sia dall’esercito di stato che dai maoisti.

Una delle persone con le quali abbiamo parlato, la cui testimonianza mi è sembrata più significativa, è un uomo sulla cinquantina, dai modi gentili, che si è trovato ad aver a che fare con entrambe le fazioni. Gli abbiamo rivolto alcune domande che ci illuminano sulla reale situazione nepalese. Ne riportiamo di seguito le risposte alle nostre domande

Una testimonianza dolorosa
D. Cosa  pensa della situazione dei diritti umani in Nepal?

R. Prima di tutto vorrei dire a tutti quelli che vivono in paesi stranieri, che qui in Nepal non sono rispettati i diritti umani, e la maggior parte di noi nepalesi non è nemmeno in grado di capire cosa siano veramente i diritti umani. In secondo luogo, va detto che ci sentiamo come intrappolati tra il governo e i maoisti. Attualmente stiamo vivendo in una «età delle armi»; entrambe le parti in conflitto esercitano la politica per il tramite delle armi e ora noi ne stiamo subendo le conseguenze. Ciò di cui c’è bisogno ora è che tutti i partiti, eccettuati i maoisti [che ora come ora non sono sostanzialmente più un partito politico in senso usuale, ndr.], come ad esempio il Nepali Congress e tutti gli altri, lavorino insieme per ripristinare la pace in Nepal. Qui non c’è democrazia. Voglio dire che abbiamo sì bisogno della democrazia, ma allo stesso tempo abbiamo anche bisogno del re: dobbiamo riuscire a far trovare loro un accordo, altrimenti non ci sarà mai pace in questo paese. Vorrei anche chiedere aiuto ai paesi stranieri affinché esercitino pressioni sull’attuale governo perché la gente sta continuando a morire e a morire. Il re ha intrapreso una strada totalmente sbagliata, dovrebbe governare nei limiti della costituzione invece di fare ciò che vuole.

D: Ci racconti la sua storia…

R. Avevo un figlio che è stato arrestato dai maoisti. Me l’hanno portato via e per due anni non mi hanno dato alcuna notizia di lui. L’hanno preso, siccome era molto giovane, per farlo diventare uno di loro. Per due lunghi anni abbiamo aspettato il suo ritorno ma un giorno un poliziotto ci ha detto che era stato ucciso dalle forze di sicurezza in quanto membro del CPN. Diciannove mesi fa un gruppo di persone armate è entrata in casa mia e ha portato via tutto ciò che c’era. Erano maoisti e mi hanno detto che, siccome mio figlio era morto, loro dovevano vendicarsi contro l’esercito: volevano la collaborazione di qualche altro membro della mia famiglia. Io avevo solo due bambine piccole così ho pensato che sarebbe stato meglio per loro andare via dal villaggio. Le ho mandate a lavorare in casa di qualche persona a Kathmandu.

D. Cos’è accaduto a suo figlio mentre era coi maoisti?

R. La mia casa è in un distretto a est dove i maoisti hanno molto potere, fanno frequentemente visita in tutte le case per raccogliere «donazioni». Più di una volta sono venuti a casa mia nel bel mezzo della notte chiedendo che gli fosse preparato da mangiare oppure pretendendo dei soldi. Dicevano di voler degli aiuti per la «causa del popolo»: o nuovi soldati o soldi. Una volta mio figlio uscì insieme a loro e non fece più ritorno. Ho provato a chiedere aiuto alla polizia, anche durante il periodo del “cessate il fuoco”, ma mi hanno solamente detto che avrebbero fatto quello che potevano per farlo ritornare «sulla retta via» ma che non sapevano dove fosse. Tutto quello che so è che tempo dopo qualcuno di loro mi ha detto che era stato ucciso dall’esercito. Tutto qua. Non ho nemmeno mai visto il suo corpo, né saputo qualcosa riguardo a come, dove o quando sia successo.

D. Vuole aggiungere qualcosa?

R. Io non sono l’unico in questa situazione. Ogni giorno qua, molti genitori perdono i propri figli e figlie. Se questa situazione non viene controllata ora, nel futuro sarà fuori controllo e molta gente giovane continuerà a morire finché il Nepal sarà rimasto un paese deserto. Abbiamo bisogno di aiuti esterni, abbiamo bisogno di pace, ora.

Un grido inascoltato

Il primo ottobre di quest’anno tre ufficiali dell’esercito nepalese sono stati ritenuti responsabili per le torture inferte a Maina Sunuwar, una bambina di 15 anni incarcerata perché sospettata di essere una ribelle maoista e morta l’anno scorso durante la detenzione. Il tribunale ha condannato i responsabili a sei mesi di reclusione, e al pagamento di un risarcimento di 1500 dollari ai familiari della bambina, secondo quanto riportato dalla Bbc. L’accusa è quella di aver violato il divieto di tortura e di non aver rispettato le procedure previste in caso di decesso di un prigioniero: dopo la morte della ragazza, tenuta in custodia in una baracca a Kravepalanchok, a nord-est della capitale Katmandu, i tre non avrebbero informato i loro superiori, ne inviato alcuna comunicazione ai familiari.

Quelle qui accennate, come ho detto, sono solo una goccia in mezzo al mare, testimonianze del dolore di singoli che rappresenta però quello di un intero paese lacerato dal conflitto da ormai quasi dieci anni. Un paese della cui situazione non sentiamo mai parlare solamente perché – come succede per molti altri paesi nella stessa condizione – non rientra nella cerchia degli interessi dell’Occidente «sviluppato» e «civilizzato». Un grido d’aiuto di un popolo e di una nazione che non dovrebbe rimanere inascoltato.

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[1] La Women’s Foundation è un’associazione che si occupa in particolare dei diritti delle donne in Nepal, attiva dal 1988, che opera in stretta collaborazione con Apeiron, un’altra associazione italiana vedi . Diritti umani e diritti delle donne in Nepal, intervista con Renu Sharma a cura di Leonardo Ferri in “Testimonianze”, 441/2005