Ma quante erano le divisioni del Papa?
Intervista ad Adriano Sofri, a cura di Severino Saccardi

Sommario: In questa sua intervista, Adriano Sofri afferma che il muro di Berlino sarebbe cominciato a crollare ben prima del fatidico ’89: per le crepe aperte dalle lotte dei dissidenti degli operai dell’Est, ma soprattutto per effetto della straordinaria partecipazione alla prima visita del Papa in Polonia. Il dopo-muro, tuttavia, non ha portato una lineare “primavera dei popoli, ma anche il trionfo di un materialismo volgare e le tragedie delle guerre “etniche”. Su questi temi drammatici Sofri ricorda di aver appassionatamente discusso con il compianto presidente dell’ARCI, Tom Benetollo.
D.  Quindici anni dalla caduta del muro di Berlino: un evento, si disse allora, che avrebbe cambiato il mondo. Oggi, a ripensarci, sembra un evento tra i tanti.  Per  citare, a questo proposito, un significativo aneddoto (che mi è capitato proprio qualche giorno fa): ho chiesto ad un mio  studente di quinta liceo, durante l’esame, cosa è successo nel 1989 ed egli mi ha risposto; “l’allunaggio”. Evidentemente e semplicemente perché c’è assonanza fra 1989 e 1969. Quindi un evento di importanza capitale che, nella memoria, ridiventa un avvenimento tra i tanti.  Il 1989 che viene ripensato, forse, con indifferenza, come se fosse, quasi, un lontano accadimento  dei tempi di Giulio Cesare.  Come ripensarvi, dunque, oggi? Come rievocare questo che pure è stato, invece, a tutti gli effetti, un cambiamento enorme del corso della storia contemporanea  non solo dell’Europa, ma del mondo?

R. Io sarò più deludente ancora dei tuoi studenti e ti spiegherò subito perché. Prima però vorrei fare una considerazione e cioè che le date che noi consideriamo epocali sono destinate a variare con il passare del tempo ed il mutare del nostro punto di vista. Per esempio la data di inizio dell’epidemia di peste portata da una banda di topi, che nei manuali di storia fino ad un certo punto non viene segnalata e che poi, da un certo punto, diventa più importante di una guerra durata cinquecento anni. In particolare i contemporanei hanno un punto di vista più “difficile” e controverso sulle date epocali e siccome noi viviamo in una contemporaneità molto drammatica ma anche molto drammatizzata e molto parossistica, abbiamo una specie di bisogno di riconoscere nel moderno e nelle cose che succedono qualcosa di grandioso, di tremendo, insomma di epocale. Si pensi semplicemente a quante date epocali si sono succedute nell’ultimo periodo, alcune meritandolo, dal nostro punto di vista di oggi : l’11 settembre è giusto che continui ad essere ricordato come tale, ma c’è una specie di gara a segnalare il carattere di discontinuità, di rottura, di trapasso da un giorno all’altro di qualche evento dei nostri ultimi trent’anni. Credo che gli storici debbano essere pienamente avvertiti di tale tendenza e di tale difficoltà, in particolare gli storici antichi, quelli che sono diventati più di moda, perché adesso si tratta di ristudiare la fine di un mondo (per certi versi si tratterebbe di ristudiare la fine del mondo) ma la fine di un mondo è nozione che mai è stata così in voga: l’impero e la fine dell’impero interessano moltissimo. E sono fatti intensamente oggetto di grandi studi proprio il declino e la caduta dell’impero romano. Ebbene, mi pare che  tutti i migliori studiosi del mondo antico ci raccontano che l’anno in cui i Goti sono arrivati in Roma e l’hanno saccheggiata nelle date fissate dai libri scolastici (il 410, se non sono in errore) non furono avvertite come date fatali dai contemporanei. Il che non vuol dire che noi siamo più furbi e più sapienti di coloro che hanno vissuto da contemporanei quegli avvenimenti; forse abbiamo semplicemente travisato a vantaggio del nostro punto di vista le cose. Ma faccio queste considerazioni anche per proporre un’attenuante al mio caso personale: perché nel 1989, io ero, credo, abbastanza travolto almeno fisicamente (non  per intero dal punto di vista spirituale, spero di non esserlo stato mai) dai miei casi giudiziari: cioè ero arrivato ad un anno dai miei repentini e inopinati arresto ed incriminazione ed andavo verso il primo processo. Il che vuol dire che una quantità enorme di cose che sono successe mi sono sfuggite, non nel senso che me ne siano sfuggiti il significato o anche la commozione o  anche la percezione dell’allegria della caduta del muro di Berlino (e questa è una delle più straordinarie scene di allegria che la nostra generazione si sia potuta permettere di vedere e di applaudire). Mi è però mancata la capacità di concentrarmi su quegli avvenimenti, per esempio non sono andato a Berlino e se ti dovessi spiegare come mai uno come me, che ha la mania di buttarsi in tutte le mischie e di partire (ed avevo ancora un’età in cui l’avrei fatto)  non c’è andato, è per questo: c’erano  altri che mi tenevano; mancava, in quel caso, il famoso giudice di Berlino, ma c’erano dei giudici di Milano che mi tenevano stretto. Questo per dire che non ho avuto allora abbastanza partecipazione a questo grande fatto, cosa che poi mi ha provocato dei rimorsi: quando ci sono dei documentari sull’89, su questi ragazzi che vanno a picconare il muro, sulla “spiazzante” decisione di Gorbaciov di non mandare i carri armati, sulla prima apertura del posto di blocco e così via, corro a rivederli, perché mi sembra di aver perso qualcosa di decisivo nella mia vita. Mi consolo e rispondo in parte alla tua domanda, prolissamente, dicendoti che  alcune persone, compreso me, hanno un vantaggio e, al tempo stesso, un’intuizione che dipende, forse, dal nostro essere un po’ saccenti: per alcuni di noi quello che allora è avvenuto non è altro che il completamento simbolico, quindi decisivo, di un processo che però avevamo già dato per compiuto, e cioè la caduta di una realtà che alla nostra generazione, quando eravamo più impegnati politicamente, era sembrata incrollabile: l’imperialismo sovietico. Noi non pensavamo affatto che il capitalismo occidentale fosse peggiore dell’imperialismo sovietico, al contrario. Davamo, però, per scontato non solo che questa era la nostra parte di mondo e dunque la parte dalla quale dovevamo batterci, ma che era molto più vulnerabile l’imperialismo occidentale e americano (usavamo questi termini, naturalmente) che non questa micidiale e schiacciante dittatura che si era stabilita sul proletariato e sui paesi satelliti all’Est. Dunque avevamo simpatia per tutti gli oppositori ed i dissidenti, ma consideravamo la loro battaglia come perduta e come perdute anche le grandi battaglie operaie che si erano svolte nell’Europa centrale ed orientale. Così, la non riformabilità del regime comunista ci faceva pensare che non ci fosse niente da fare, quando, viceversa, in un modo davvero precipitoso e straordinario, in una situazione terribile in cui qualsiasi anelito alla libertà veniva castigato in maniera feroce, come oggi sappiamo molto meglio (prima non eravamo abbastanza attenti), improvvisamente questa voglia di libertà è esplosa e dei comportamenti paragonabili a quelli addirittura “scanzonati” del nostro ’68 si sono imposti: prima in alcuni paesi, la Polonia soprattutto, parlo della Polonia cattolica e di Solidarnosc e della rivolta operaia, della Polonia del Papa e degli operai, dunque non più delle precedenti ondate di rivolte operaie che erano state così gloriose ma che erano state anche così  brutalmente schiacciate; e poi, in Unione Sovietica la trasparenza, la perestrojka e la glasnost, l’avvento di persone che venivano fuori e parlavano chiaramente. Io sono stato in Russia per il millenario della Chiesa ortodossa e in quella circostanza ero stupefatto di vedere a che punto fosse arrivata quella società civile, cioè, quale grado di libertà licenziosa si prendessero nella manifestazioni pubbliche, nelle discussioni. Per chi aveva conosciuto la Russia come un luogo tetro, di paura, di terrore, di silenzio e di sottomissione era una cosa straordinaria quella che stava avvenendo. Dunque, tutto questo per dire che la mia attenuante è che non solo mi aspettavo la caduta del muro di Berlino, ma che, in un certo senso, per me era già crollato.

D. Quando veramente, il Muro è iniziato a crollare? Su questo naturalmente, dal punto di vista della ricostruzione storica, le versioni e le interpretazioni sono le più varie. Il nostro comune amico Wlodek Goldkorn mi citava recentemente il grande valore, come tu facevi adesso, dell’esperienza polacca e di una figura come Jacek Kuron, “padre” politico del Kor e di Solidarnosc, scomparso recentemente.Da un certo punto di vista però si potrebbe perfino dire, paradossalmente che il Muro aveva cominciato a cadere ancora prima di essere eretto.  Infatti esso è stato costruito nel’61, ma, se ci pensiamo, il rapporto Kruscev è del’56 e del’56 sono anche la rivoluzione ungherese, l’esperienza  drammatica di un comunista eretico come Imre Nagy, la repressione appunto dei carri armati sovietici; c’è, qui, una grandissima crepa nel sistema del socialismo reale che si apriva già allora, anche se poi  quel sistema ha impiegato decenni ad arrivare allo schianto definitivo. Tu come vedi retrospettivamente questa storia e il senso delle esperienze che, in quel mondo, nonostante l’oppressione sono così “precocemente” maturate?

R. A me spiace moltissimo di togliere anche un millimetro di merito a quelle meravigliose lotte veramente eroiche e severamente schiacciate nel sangue e represse nell’universo concentrazionario e carcerario che, di quel mondo, era inevitabile corollario.
Tuttavia tenderei più a sottolineare la discontinuità del cambiamento: la costruzione di un muro è sempre un segno di debolezza. Tra l’altro quello è un giorno che io mi ricordo perfettamente perché era estate, era la fine delle vacanze, penso fosse la fine di agosto. In genere i sovietici facevano le loro peggiori porcherie (l’invasione di Praga per esempio)  in agosto. Noi eravamo moralisti a quell’epoca: avevamo “il potere operaio” toscano, che era altra cosa rispetto al  quasi omonimo, e successivamente assai noto, gruppo di “potere operaio”, e non andavamo in vacanza per principio, quindi eravamo gli unici che la mattina dopo distribuivano volantini contro l’invasione dei carri armati a Praga, con gli operai (comunisti, per lo più, ed ordinariamente ancora legati al mito di Mosca) molto perplessi. Tutte quelle grandiose lotte (compresa quella meravigliosa dell’insurrezione di Budapest e dell’Ungheria, veramente eroica e che rimanda con istintiva ed ingenua commozione a  Ferenc Molnar e a I ragazzi della via Pal)  sono state veramente importanti, ma non erano crepe che si aprivano nell’impero sovietico, o meglio, erano tali, ma finivano per essere immediatamente cementate, per finire schiacciate sotto un soffocante coperchio di pietra. Era tristemente “classico” il modo in cui, ben oltre il rapporto Kruscev e la cosiddetta “destalinizzazione”, i sovietici hanno sempre schiacciato qualunque manifestazione di libertà, sia che si trattasse di manifestazioni di “sinistra”, cioè di rivendicazione di un’origine classista tradita, come nel trockismo, ma anche e soprattutto nelle grandi manifestazioni operaie, in Germania, ma soprattutto in Polonia, sia che si trattasse di manifestazioni di rivendicazioni di spazi democratici in senso, per così dire, “ filo-occidentale” oppure di manifestazioni personali, intellettuali ed individuali di libertà, portate avanti da singoli, come sono state quelle dei dissidenti, un fenomeno, quest’ultimo, assolutamente decisivo. La capacità di schiacciare tutto questo e di non dover ricorrere ad una maschera ipocrita per farlo (e, per riproporre indirettamente anche la propria egemonia politica sul movimento comunista internazionale) da  parte dell’imperialismo sovietico, cioè  del comunismo tradotto nella realtà dell’unione sovietica e dei paesi  ad essa infeudati, è stato così brutalmente giustificata e teorizzata, fin dalle sue origini, da permettere di eludere qualunque problema di dissimulazione della propria ferocia. Anzi, la rivendicazione di questa ferocia era, in qualche modo, pienamente assunta: “C’è una rivolta operaia? Noi la schiacciamo nel sangue. E’ questo il nostro merito e per questo coloro che sperano nel comunismo nel resto del mondo ci applaudiranno, per questa nostra capacità di non arretrare di fronte alla violenza estrema”. Quella frase,
“quante divisioni ha il Papa?”, attribuita a Stalin, mi pare a Potsdam (ammesso che l’abbia detta effettivamente; qualcuno dice di no, ma non importa: le frasi celebri hanno valore al di là del fatto che siano state pronunciate o meno),  che sempre viene citata, è veramente, secondo me il cuore della questione.
“Quante divisioni ha il Papa?”, è bellissimo: conduce proprio al nocciolo duro dell’esperienza comunista tradotta nella realtà dell’Unione sovietica fin dal bolscevismo originario, cioè al culto della forza e all’ostentazione della potenza bruta e della superiorità su un supposto nemico ed all’esercizio della violenza senza restringimenti, dunque senza remore di carattere democratico o libertario. Noi li schiacciamo, così verrà teorizzato dalle dittature del “socialismo reale”, perché la marcia in avanti inarrestabile del proletariato è, inevitabilmente, un’infinita storia di  rivolte, ribellioni, dignità personali schiacciate e rivendicate come tali. Ho ritirato fuori la celebre frase attribuita a Stalin perché da qui parte la mia vera risposta alla tua domanda, cioè il fatto che io oggi prediliga, facendo tanto di cappello a tutte quelle grandi lotte libertarie dell’Est, l’idea che la rottura, la discontinuità, sta proprio in quel 1979, dieci anni prima del fatidico 1989, nel momento del primo ritorno di Wojtyla in Polonia da Papa, un evento a cui ho partecipato e che ho seguito da vicino. Io, infatti, sono andato in Polonia un po’ prima di questo viaggio e poi ho seguito il viaggio e sono rimasto durante tutta la visita del Papa e ho visto sotto i miei occhi, assolutamente stupefatti e increduli, prodursi un cambiamento di prospettiva, tant’è vero che negli articoli che allora scrivevo ai giornali apparivo ai miei stessi compagni (per non dire agli altri!) come uno che era diventato matto. Karol, il noto ed “antico” editorialista de “il Manifesto”; che non solo è un intenditore di comunismo in Polonia, ma è polacco, mi scrisse dicendomi che ero diventato pazzo, per la semplice ragione che stavo descrivendo che cosa facevano i giovani cattolici nella piazza di Cracovia, e stavo non annunciando, ma prendendo atto che lì crollava il regime comunista. Dunque, se io dovessi fissare una data per questa svolta la fisserei lì, in quel singolare passaggio storico: non solo per questa esplosione di libertà assolutamente incomparabile con qualunque fenomeno precedente e che ha messo fuori gioco il regime e la sua polizia (certo anche per l’impressionante elemento quantitativo, assolutamente impressionante delle adunate popolari: i divieti continuavano ad essere tassativi, però lì si radunavano milioni di persone che non andavano più via) ma anche per i protagonisti che erano presenti. Il vero cambiamento viene dal fatto che ci sono gli operai, che hanno un fortissimo senso classista. Jacek Kuron e i suoi compagni che hanno creato il KOR (il Comitato di autodifesa degli operai), che hanno dato vita prima ancora ad attività clandestine, che sono stati in galera per aver fatto una denuncia di sinistra del sistema totalitario e, per aver criticato apertamente la burocrazia dispotica comunista (con quel grande storico ed uomo che è Modzelewski) queste persone hanno preparato il terreno e alla libertà ed al senso della dignità di classe e questa istanza, invece di contraddirla, si sposa con un’insurrezione  fatta di cattolicesimo clandestinizzato, di cristianità  popolare e di devozione religiosa,sentita in qualche caso quasi come superstizione. Il santuario di  Czestochowa è impressionante come manifestazione di fede popolare, anche contadina, con tutti i fregi anche drammatici e fortemente controversi di tutta una storia: come l’antisemitismo, che continua il suo cammino in una società che ormai aveva espulso quasi tutti gli ebrei, ma che non cessava per questo di essere antisemita. Tuttavia, in questa situazione inedita, anche i protagonisti sono assolutamente nuovi. Il Papa si muove con un’assoluta sicurezza di sé e gli uomini del regime, cioè i despoti di una condizione in cui solevano provocare il terrore della loro popolazione, si muovono come marionette spaventate. Qui c’è già l’annuncio di ciò che succederà compreso Solidarnosc, compresi i grandi scioperi dei lavoratori, compresa la straordinaria ventata libertaria dei cantieri di Danzica. Compresa la classe operaia che va in piazza come luogo di ritrovo e di riconoscimento della propria identità con un distintivo della Madonna nera. In questa circostanza, tutti quelli che avevano avuto una storia come la mia, naturalmente intesa non in senso stretto come legata ad un movimento come “Lotta Continua”, ma  intrisa comunque di una fortissima intenzione rivoluzionaria comunista  in combinazione con un’altrettanto forte passione libertaria, si accorgono di trovare lì le cose in cui hanno sempre creduto, anche se esse, per così dire, si presentano alla rovescia:  specularmente capaci di rendere loro un’immagine critica del loro passato. Io vado in Polonia, intervisto una ragazza, una studentessa, della facoltà di Lublino, nell’unico posto dove si insegna teologia, e le chiedo che cosa pensa di questo, di quest’altro, e poi le chiedo che cosa pensa di Rosa Luxemburg, e lei ha storto la bocca, come se avesse sentito il nome di una personalità storica che non può appartenere al loro corredo, al corredo dei ragazzi che stavano occupando l’università. Così io le chiedo un nome diverso che rappresenti il modello di persona libera, rivoluzionaria a cui lei si ispira e lei mi risponde ricordando Zofia Kossak. Io non avevo mai sentito questo nome, mentre lei ha sentito più volte parlare di Rosa Luxemburg e, dunque, si mette a dirmi delle componenti autoritarie, antinazionali ecc., del pensiero di Rosa.  Io ci resto male. Allora io mi devo informare su Zofia, che è un grandissimo personaggio cattolico, uno di questi grandi personaggi della coscienza nazionale che si distinguono anche di fronte all’ubriacatura morale del popolo ed alla persecuzione degli ebrei. Questo per dire che noi abbiamo là una manifestazione collettiva, popolare e nazionale, di qualcosa che da noi era stato dannato ad essere un fenomeno minoritario di intellettuali rinnegati: il grande pensiero degli ex comunisti, dei libertari che era stato molto importante per noi ma che era anche sempre stato guardato quasi con un’indulgenza tenera, dato che erano destinati alla sconfitta, e che lì si incarna (per vie impreviste e in combinazioni culturali per noi impensabili e poco riconoscibili) in un grandissimo, nuovo ed inclassificabile movimento di massa. Se io dovessi fissare e la data ed il luogo di questa nuova fase che si concluderà  con il  crollo del muro di Berlino, che diventerà presto souvenir in mattoni che ciascuno si porta a casa propria per ricordo, la fisserei a quel viaggio del Papa ed al compimento rovesciato della frase “Quante divisioni ha il Papa?”. Il Papa non ha alcuna divisione e, dunque, vince.

D. Ti ricorderai (ed anche questo è un pensiero che forse, oggi, merita qualche riflessione attenta), che Bobbio, che qui cito ovviamente a memoria, quando crollò il Muro si espresse, più o meno, in questi termini: “E’ finito il comunismo storico ma questo non cancella il bisogno di giustizia nel mondo. E’ un problema che la democrazia, ora che ha abbattuto il totalitarismo, suo avversario storico, si dovrà porre”. Mi pare che questa riflessione di Bobbio sia stata pochissimo meditata e che per niente ne siano state tratte le dovute conseguenze, tant’è vero, che, per vie traverse, come anche tu hai fatto notare tante volte, paradossalmente un  bisogno di giustizia non appagato riaffiora, in maniera distorta ed inaccettabile, nei movimenti di violenza perversa e oscurantista che rendono così funesto il nostro tempo. Quest’aspetto paradossale del dopo-muro non meriterebbe una più attenta analisi?
R. Sarò molto sincero su questo punto: non ricordo con precisione la citazione di Bobbio, ma non mi piacque allora e non mi piace tuttora, sebbene Bobbio mi sia caro. Se non sbaglio, egli disse qualcosa di più simile a quanto cerco di sintetizzare: che la speranza, che era stata incarnata e rappresentata dal comunismo, adesso rimaneva senza una sua bandiera ed un suo riferimento e che quando si toglie alle persone una fede, una speranza, si rischia averne una perdita e non un guadagno. Naturalmente questa considerazione è vera e il bisogno di speranza e di credere nelle folle e nelle masse così come nelle persone singole resta molto importante. Però io temo che fosse,  quella frase, quasi la richiesta di un’attenuante per l’eccessiva indulgenza che si era usata nei confronti della speranza e dell’utopia rappresentata dal comunismo, che fosse una specie di estremo, rarefatto, sottilissimo esempio di quel discorso che distingueva l’utopia comunista dalle sue realizzazioni: una specie di tentativo, magari inconsapevole, di conservare ancora una distinzione tra le due dimensioni, tentativo che tra l’altro oggi conduce al fatto che esistano partiti di persone per bene che si dichiarano comunisti e che a mio parere sono in un torto assoluto, peggiore che se fossero in malafede, perché almeno questa ha una sua convenienza, i suoi calcoli, mentre qui sussiste proprio una questione irrisolta. Se tu infatti ti dichiari comunista, devi essere comunista. Le questioni tautologiche, le frasi del tipo “il dovere del rivoluzionario è fare la rivoluzione”, hanno una loro verità : se tu sei un giornale comunista o un partito comunista devi essere comunista, mentre nessuno di questi  che oggi si fregiano di tale appellativo è comunista, ma neanche intende esserlo. Dunque, conservare dei nomi, è, per me, quando sono svuotati della loro sostanza, un peccato “abbastanza” mortale. Succede che questo ricorrente bisogno di giustizia sociale, o di speranza, o di aspirazioni utopiche ed apocalittiche che attraversano costantemente il mondo, tanto più un mondo che fa vedere esplicitamente il rischio di una sua catastrofe, induce le persone a cercare un abbigliamento per questi nuovi sentimenti e a non trovarlo nella capacità di fare i conti col mondo così com’è, ma in qualcosa di ereditario. E spesso succede anche che le persone più generose lo cerchino in un’eredità che è stata rifiutata, accantonata, messa al bando, dunque ripescando, come successe a noi per una nostra grandissima debolezza intellettuale e morale, le correnti eterodosse di un pensiero marxista, rivoluzionario, comunista per rivestire di quelle i nostri sentimenti, le nostre ambizioni, le nostre speranze. Tutto questo è un mero pericolo per questo movimento, peraltro invece straordinariamente promettente, che si chiama new-global o no global e che dice di cercare un altro mondo possibile. Questo tuttavia riguarda, a mio parere, abbastanza strettamente solo l’Occidente e forse addirittura esclusivamente l’Europa, non saprei neanche dire se riguardi in questo senso gli Usa o il Canada, mentre mi pare che dobbiamo prendere atto che nel resto del mondo quel tipo di speranza ha preso la forma peggiore di tutte, cioè la forma del  fanatismo integralista e di un’ulteriore novità anche lì, che non è il trapasso in Oriente o nel Terzo e Quarto mondo del nichilismo occidentale (anche questa secondo me è una teoria troppo facile e superficiale, che seppure ci colpevolizza non prende abbastanza atto della differenza radicale di quelle realtà) ma piuttosto è la devozione alla morte di questa nuova veste ideologica e di questo travestimento ideologico-religioso  che è, a mio parere, una vera novità.

D. Il dopo-muro non ha portato immediatamente e diffusamente ovunque la “primavera dei popoli” e della pace che qualcuno, forse un po’ ingenuamente e senza senso della mediazione e della tortuosità dei processi storici, aveva sperato. Tu tra l’altro sei stato a vedere l’altra faccia della luna: cioè la Bosnia, la Cecenia e lo scatenamento dei conflitti etnici nell’immediato dopo-muro e dopo il crollo del bipolarismo. Quale lezione hai tratto da queste esperienze e dalla visione di questo dolore che è venuto drammaticamente alla ribalta in luogo del sogno di pace che molti avevano ipotizzato?
R Io direi che ci sono due fenomeni paralleli e concomitanti, di cui uno è insopportabilmente tragico e sanguinoso e trova appunto nell’ex-Jugoslavia il clou di tutto questo, perché è a 300 km da casa nostra, perché è in mezzo all’Europa, perché segna l’impotenza se non la complicità dell’Europa e poi per le sue dimensioni, perché è una lotta fratricida che prende la veste radicata, in quel luogo, del nazionalismo esasperato, ma anche una veste religiosa che è particolarmente oltraggiosa di qualunque dignità umana. Infatti lì il conflitto tra musulmani-bosniaci e ortodossi-serbi o cattolici di Croazia o Erzegovina non è un conflitto etnico: questi sono tutti slavi che ad un certo punto della loro storia hanno preso strade diverse nelle loro fedi religiose, ma appartengono alla stessa (anche  se questa parola che è venuta in voga allora è molto sdrucciola) etnia. Questa esplosione di furia che ha covato sotto le ceneri europee era stata tenuta a bada da quella ingegneria da castelli di carta in cui era specializzato il maresciallo Tito, così rimpianto ed in un certo senso giustamente. Il maresciallo Tito non solo non ha risolto nessuna controversia, ma forse le ha esasperate tutte, ma è stato un maestro nella capacità di dilazionare la catastrofe. Naturalmente il mondo, ammesso che si salvi, si salva solo nel senso di dilazionare il disastro, dopo di che i disastri dilazionati prima o poi arrivano al pettine. E’ toccato a noi, ad una generazione che avrebbe escluso di vedere guerre così orribili a casa nostra, in Europa. Chi di noi nato durante la guerra come me, o nell’immediato dopoguerra, lo avrebbe pensato? Io ero partito per vedere la guerra, ma molto lontano, e quando mi è bastato fare cinquanta minuti di aereo per arrivare nel mezzo di una guerra orrenda, con gli spurghi etnici e i massacri di Srebrenica, i campi di concentramento e tutto l’orribile corredo che ne consegue, la parabola della nostra generazione ha toccato il suo punto più basso e più inaspettato. Questo è uno dei fenomeni naturalmente più tragici e sconvolgenti, ma forse il più importante è l’altro: l’evoluzione di quelle società in cui non è avvenuto niente del genere, in cui persino il colpo di stato (per esempio nella Polonia di Jaruzelski, dove c’è stato un pronunciamento militare in cui c’era un gioco si scatole cinesi, in cui il ricatto militare sovietico pesava su Jaruzelski che poi esercitava il suo ricatto militare sulla società civile polacca e così via) ha avuto una dimensione se non molto contenuta, incomparabile con le grandi tragedie. Il fenomeno principale in Polonia è quello che ha, per così dire, devastato l’anima del Papa, che era stato protagonista di quella promessa di liberazione: un fenomeno, cioè, di “normalizzazione” di quelle società  in cui la tensione morale che dipende dalla condizione di non libertà, di obiezione di coscienza costante, di fede religiosa sentita, anche per il bisogno della società di identificarsi fuori dalle istituzioni dello stato totalitario, lascia il posto finalmente all’espressione normale dell’attività degli umani. Quest’espressione e questo bisogno di “normalità”, soprattutto nella convalescenza dalla malattia che rischiava di essere terminale, è una vorace voglia di aprire dei Mc Donalds, di bere molta Coca-cola, di attuare un contrabbando di Mercedes dalla vicina  Germania, di esportare le proprie magnifiche ragazze a fare le prostitute nei migliori alberghi dell’Europa occidentale. Tutte cose che abbiamo visto nei bellissimi film di Kieslowski, che sono anche le cose che hanno fatto gridare al papa a una specie di tradimento della propria anima da parte della Polonia. Il Papa degli ultimi anni, quello del corpo vulnerato e colpito non è solo il Papa di una debolezza del corpo, ma è anche il Papa di una sensazione e di una percezione netta e drammatica della sconfitta, perché la “normalità” si è insediata in Russia, ma anche nella sua diletta Polonia, in  Serbia, in Croazia, in Ungheria, con la forma del materialismo e del consumismo più facile. Dunque c’è una specie di anatema scagliato contro la normalità. Io credo invece che tutti noi, mentre ci battiamo spero all’interno delle nostre vite personali per non cedere a questo conformismo così stupido, ottuso e volgarmente materialista nel senso più spicciolo del termine, dovremmo anche ammettere che questo è una specie di passaggio necessario per qualsiasi società che sia stata compressa, di qualunque società che abbia visto mutilata non tanto la sua spiritualità, perché quella poteva resistere clandestinamente ed anzi essere una risorsa, ma mutilata la sua possibilità di scegliere liberamente di non bere tanta Coca-cola. In particolare noi che siamo stati dalla parte del mondo in cui avevamo contemporaneamente la possibilità di quello che viene chiamato benessere, consumismo abbastanza sfrenato, di una ricchezza straordinariamente privilegiata e dunque potevamo permetterci il lusso di rinnegare una parte di questi elementi di ordine materiale e porci il problema di un altro stile di vita, di una sobrietà diversa, rischiamo di guardare con uno sguardo troppo sicuro di sé ed allarmato il resto del mondo che ripercorre le tappe che noi abbiamo percorso semplicemente più velocemente perché è rimasto indietro e vuole riparare al tempo perduto. Così è, ad esempio, per i cinesi che devono compararsi le automobili: noi non facciamo figli, ma automobili, ed è chiaro che se essi avessero pro-capite le stesse auto che abbiamo noi sarebbe un problema. Loro hanno dovuto smettere di fare figli, almeno vogliono fare o avere le automobili! Ci sono dei segnali in tutto questo che mostrano come la natura umana sia duttile fino ad un certo punto agli effetti che i disastri della storia umana le modellano sopra. Quando hai saputo che era stata inventata la Coca-cola islamica, quello era un grandissimo segnale! Tu puoi fino ad un certo punto fare la jihad contro la Coca-cola (perché è vietata in Iran come in tutto l’islam), naturalmente poi però la gente aspira alla Coca-cola e quando fai la Coca-cola islamica il cerchio si è per così dire chiuso.

D. Parliamo dei muri di oggi: ci sono quelli metaforici, ma ce ne sono anche alcuni reali, che qualcuno, in maniera forse impropria, assimila al vecchio muro europeo, come quello israeliano o quello di Cipro, anche se quest’ultimo è un“muro minore”, per così dire. Il muro in Israele è un muro che, anche simbolicamente oltreché concretamente, evidenzia nuovamente aspetti e contraddizioni di uno dei più perduranti drammi del nostro tempo e su questo  vale la pena di soffermarsi.
R. Naturalmente io parlo di realtà di cui non ho il diritto di parlare perché, soprattutto  a causa del luogo in cui mi trovo, non ne so abbastanza. Ad un certo punto noi ci siamo adagiati su una certezza, come sempre bisogna fare se si vuole tirare avanti nella vita, o, meglio, su una specie di metafisicizzazione dei fatti reali ed abbiamo detto che escludevamo dal novero delle cose amabili tutti i muri e includevamo nel novero delle cose più amabili i ponti

D. Come diceva La Pira..

R. Come diceva anche Alex Langer, che ha passato tutta la vita a fare il pontefice, il costruttore di ponti, e soprattutto come ha dimostrato la Bosnia, un luogo che aveva lanciato in cielo i ponti più arditi e temerari, a volte costruiti dal saladino, a volte costruiti dai cristiani e che in pochi anni ha bombardato i ponti, non perché bombardasse il traffico che vi scorreva sopra, ma proprio perché ha odiato i ponti e li ha usati come simbolo alla rovescia , in particolare l’“arcobaleno”, come era chiamato il ponte di Mostar, o il ponte di Sarajevo, che era un simbolo illustrissimo, meraviglioso di tutto questo. Poi le cose sono più complicate naturalmente. Il muro di Berlino abbattuto è un passaggio magnifico, abbattuto rapidamente così come era sorto in una notte per impedire alle persone di fuggire. Tuttavia tutte le realtà del mondo hanno poi un aspetto più ambiguo e dunque non ci si può accomodare sulla scelta di non costruire mai più muri, ma ponti. E non solo perché nella storia qualche volta i muri hanno addirittura fatto da facilitatori dello scambio: mi ricordo di aver letto nell’opera del più grande storico della  Cina che la Grande Muraglia ha funzionato soprattutto come luogo di richiamo per le persone che venivano dai due lati opposti e che vi si incontravano per fare scambi, commerci e feste. La Muraglia cinese del resto è una tale meraviglia che oggi sta andando in rovina perché non esistono né il denaro né le forze umane per mantenerla ed è una delle più grandi perdite del mondo. Ma, per esempio, il muro medesimo di Berlino aveva avuto questa  singolare specie di obiezione di coscienza che il nostro amico Peter Schneider, che aveva partecipato al ’68 in Italia al tempo e che è uno degli intellettuali di sinistra più noti, anche se molto mosso nel suo itinerario politico, aveva descritto nel suo libro di gioventù che si intitolava Il saltatore del muro. Quel libro parlava di uno uomo che saltava il muro dall’Occidente per andare in Oriente, compiendo il processo inverso rispetto a quelli che venivano braccati cercando di fuggire dalla tirannide, ed appena saltava di là lo arrestavano. Lui cercava di spiegare che voleva andare nel regno della libertà e loro lo arrestavano e lo ributtavano di là, ma lui cercava comunque di risaltare questo muro. Era un’idea facile, ma anche significativa. Questo per dire che, oggi, il muro israeliano è contemporaneamente ed evidentemente odioso oltre ogni misura nella sua esecuzione per molti aspetti ed in non pochi punti, ma temo che la sua costruzione originale avesse un senso in una situazione disperata. So che rischio di essere frainteso, e non sarebbe la prima volta, su argomenti di questo tipo. Eppure, proprio perché ho la massima considerazione per i diritti dei palestinesi e per la ricerca di una strada alla convivenza di due popoli su una stessa terra, io tendo a condividere l’opinione di Abraham Yehoshua. Yehoshua, scrittore israeliano amante della pace, è stato il più grande difensore di questa idea del muro e poi un accanito oppositore del modo in cui poi lo si costruiva in pratica. Mi pare che sia vero, se non sbaglio, che in alcuni luoghi, in particolare nella vicinanza della striscia di Gaza, quel muro ha fermato gli attentati kamikaze e c’è stato un crollo di questi grazie al muro. In alcune altre situazioni invece ha rappresentato, non solo simbolicamente, ma anche materialmente, un luogo peggiore di una prigione, nel senso dell’impedimento fisico e dell’umiliazione morale delle persone addirittura da un lato all’altro della stessa strada. Dunque c’è da un lato un tentativo esasperato di una difesa, che si serve di una barriera e dall’altro una manifestazione proterva di esclusione dell’altro in quel muro. Dunque, esso è veramente il muro più complicato e contraddittorio che politicamente e concretamente potesse essere realizzato. Il problema, alfine, è questo: ci sono condizioni e contraddizioni nel mondo di oggi di cui Israele-Palestina è la più grave simbolicamente e storicamente, ma non la più grave nelle sue conseguenze reali, infatti a partire dalla seconda intifada ci sono tremila morti, una cifra terribile in sé, sicuramente, ma in Cecenia ce ne sono duecentomila nello stesso periodo (ma anche in Congo, in Rwanda, in Sierra Leone). Il problema non è la dimensione di un dramma, ma il fatto che esso sia inquadrato in un certo modo dal punto di vista simbolico; del resto la Cecenia ha una situazione analoga, aspetti quantitativi delle perdite umane a parte . Ci sono situazioni in cui non si può far altro che separare i contendenti, così come chi capita in mezzo ad una rissa tra automobilisti sa di non poter far altro di cercare di separare fisicamente i contendenti. Così il muro, anche se ha aspetti simbolici e concreti di inesprimibile ingiustizia, può diventare un provvisorio ed inevitabile strumento per separare dei contendenti che altrimenti finirebbero per ammazzarsi tra di loro.  Questa è contingentemente la riserva all’idea, che conservo gelosamente e che difendo, che bisogna costruire ponti ed abbattere muri divisori.

D.  Un discorso come quello che andiamo facendo non può non rimandare alla vecchia idea di “Lotta continua” di “liberare tutti” e di abbattere tutti i muri, soprattutto quelli delle istituzioni totali . E’ un riferimento che, fatto in un carcere, conserva una sua suggestiva pregnanza. Una simile prospettiva, di carattere generale, mantiene una sua validità?

R. Questa era un’idea generosa, ma sbagliata: non si può fare. Il problema è che in nome del fatto che quell’idea è irrealistica si chiudono dentro mura e sbarre persone che non rappresentano un pericolo per nessuno e ci si vendica su di loro, su persone deboli ed inermi per pura cattiveria e per interesse, convenienza e pregiudizio. Mentre l’idea viceversa di abbattere qualunque muro e sbarra e permettere che, sia all’interno di una cittadinanza urbana e nazionale e sia all’interno dei rapporti universali, si affermino sostanzialmente la legge del più forte e quella della giungla è impensabile. Questo è il motivo per cui io continuo a pensare che non si possa fare a meno di una polizia internazionale se si vuole fare a meno delle guerre e per questo alcune persone che sono così generosamente affezionate all’idea che la guerra non può essere mai più evocata mi considerano quasi un avversario perché non vogliono porsi il problema di chiamare la polizia internazionale quando qualcuno va a massacrare il proprio prossimo.

D. Questo ci consente di ricordare…

R. …Tom Benetollo.

D. Bravo, mi hai letto nel pensiero. Se la memoria non mi inganna nel 1984, vent’anni fa, mentre Giulio Andreotti si prendeva gli applausi alla festa dell’Unità perché diceva che il muro di Berlino era una realtà che era  ragionevole rimanesse in piedi, Tom Benettollo, da pacifista inquieto e da berlingueriano un po’ eterodosso, era tra quelli che firmavano un documento che diceva che era bene che si andasse oltre i blocchi e che  quello stesso Muro cadesse. Questo è uno dei passaggi forse più significativi del percorso di Tom, non ti pare?

R. Io ho solo cose belle da ricordare di lui, persino fisicamente; era una persona che ispirava affetto e fiducia: una grande persona che sollecitava molto affetto. Tu hai citato Andreotti , immagina il contrario. Andreotti aveva quel cinismo da sagrestia che gli faceva dire la frase celebre “Io amo la Germania, la amo a tal punto che preferisco ce ne siano due”, una spiritosaggine amaramente e veramente caratteristica. Benettollo era il contrario. Ti dirò brevemente che rapporti ho avuto con lui. Avrei voluto anche parlarne di più; quando è morto ci sono rimasto naturalmente malissimo, perché chi sta in galera dà per scontato di essere lui in difficoltà e che poi forse un giorno rivedrà tutte queste persone da cui è stato allontanato. Poi invece queste persone muoiono e partecipare ad un lutto stando chiuso in una cella è una delle esperienze che non augurerei mai a nessuno. Lui era stato molto presente durante questa mia carcerazione. Io l’ho conosciuto insieme a  Pietro Folena, moltissimi anni fa, forse addirittura nell’84 o prima. Loro erano credo responsabili della FGCI a Padova, tutti e due. Io ero allora un “pensionato campestre” della periferia di Firenze, nella casa che anche tu conosci; mi invitarono ad andare a parlare alla festa dell’Unità di Padova. Io non li conoscevo personalmente e dissi loro la verità, che sarei andato molto volentieri, ma che non avevo una lira. Escludevo di andare a parlare in qualunque posto facendomi dare compensi e soldi, ho sempre avuto un rapporto molto prodigo col denaro, ma soprattutto poco denaro e nessun interesse per esso: una cosa infantile e pre-capitalistica per cui sono stato molto rimproverato, specialmente in famiglia. Dunque ero costretto a chieder loro di pagarmi il treno ed essi mi dissero di sì. Sono andato a Padova, ho racimolato i soldi per il biglietto ma non quelli per tornare: non li avevo perché ero davvero in bolletta estrema. C’è stato questo dibattito, è stato bello ed è durato fino a tarda notte, poi sono stato con loro, abbiamo cenato alla festa dell’unità e poi ho ricordato loro che avevo bisogno di questi soldi per tornare via. Naturalmente loro avevano preparato i soldi e me li hanno dati, metti che fossero settantamila lire, tutti in monetine e biglietti da cinquecento e da mille. Dunque era contemporaneamente una scena commovente ed anche in cui io mi vergognavo un po’ perché sembravo levargli proprio gli spiccioli. Questo è un bellissimo ricordo di cui abbiamo riso molto poi le altre volte che ci siamo frequentati. Poi io l’ho incontrato ancora molte volte e lui era sempre molto affettuoso, molto partecipe. In particolare abbiamo passato insieme alcuni giorni ad un congresso di fondazione di quella che si chiama “ARCI NOVA”, cioè l’associazione culturale dell’ARCI. Il nome ARCI NOVA l’ho inventato io perché mi hanno chiesto di inventare un nome per battezzarla. Eravamo nel parco nazionale d’Abruzzo e siamo stati insieme in quei giorni, molto bene e molto amichevolmente, cosa che ha lasciato un legame che non si è mai rotto anche se ci siamo visti raramente. Quando sono cominciati i miei guai giudiziari lui è stato veramente molto partecipe con quell’affetto straordinario di cui era capace e nel corso di tutti questi anni in cui ero in galera, periodicamente, ma con una periodicità breve, mi arrivava un nuovo telegramma firmato Tom e ARCI nazionale in cui lui mi diceva cose affettuose: siamo dalla tua parte, continuiamo a batterci, conta sempre su di noi. Naturalmente alla fine non rispondevo neanche più. L’altra cosa che lui faceva era di contestare, con foga sincera, alcune di queste mie prese di posizione, pensando che io fossi l’interprete sincero e disinteressato di un’idea sui conflitti del mondo e sulla necessità di affrontarli in modo né utopistico e tantomeno complice di violenze che poi si esercitavano su inermi in nome dell’amore e della pace e considerandomi forse l’interlocutore più pericoloso di un pensiero che a lui sembrava insidioso, perché dette da un amico e che rischiavano di favorire l’uso della forza, partecipando sempre alle cose che facevo (ci siamo incontrati e abbiamo discusso a proposito della Bosnia, della Cecenia e lui fu il primo ad aderire alla mia proposta di manifestazione per quest’ultima). Lui  scriveva qualche volte a proposito di ciò che dicevo e scrivevo io, ma soprattutto mi scriveva delle lunghissime e impegnate lettere per discutere le mie posizioni. Io non rispondo quasi mai alle lettere perché non ce la faccio, non le leggo quasi più e sono molto colpevole da questo punto di vista, ma la consideravo davvero una cosa molto generosa. In genere le persone come noi hanno rinunciato, un po’ per pigrizia, un po’ perché sembra quasi non ne valga la pena, a scrivere in privato. Lui invece mi scriveva queste cose molto accorate, molto impegnate, molto appassionate e questo è rimasto il mio rammarico principale: di non aver potuto svolgere questa conversazione fuori e da liberi, in pubblico ma ancora di più in privato. Questo per dire che era una persona degna di moltissimo affetto. Non sapevo della sua vita familiare recente, di questo bambino piccolo, ma sono stato davvero, comunque, molto addolorato della sua drammatica ed improvvisa scomparsa.