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L’ultimo guardiano dei giornali
di Severino Saccardi

Non è lontano il tempo in cui il fascino della carta stampata e il ruolo dei giornali (per quanto affiancati dal «mezzo cieco» – la radio – e dalla tv in bianco e nero) erano indiscussi. Ma, adesso, viviamo le conseguenze di una rivoluzione, che ha portato all’avvento della «comunicazione globale» e dell’informazione «in tempo reale». All’ordine del giorno non è, però, verosimilmente l’estinzione dei giornali (né, tantomeno, del giornalismo) quanto la messa a punto di un’interazione fra informazione «tradizionale» e dimensione multimediale. In tale contesto, risalta la particolarità del «caso Italia», in cui i processi di innovazione devono fare i conti con gli storici ritardi culturali (e l’insufficiente diffusione della lettura) all’interno del nostro Paese.

Forse anche queste riflessioni, come in ogni storia che si rispetti, potrebbero iniziare con «c’era una volta».
C’era il tempo in cui il fascino del giornale e della carta stampata era pienamente avvertito e convintamene evocato.

La preghiera laica dell’uomo moderno
La lettura del giornale non era, forse, la preghiera laica dell’uomo moderno? Quel tempo e quella storia volgono ormai, decisamente, al tramonto? C’è di che di discuterne.
Quel che è certo è che ne vanno, intanto, ripensati, anche in rapporto alle vicende del nostro Paese, aspetti e capitoli di indubbia importanza e di grande interesse. Da cui è possibile trarre, pur senza indulgere ad anacronistiche nostalgie, qualche utile lezione per l’oggi e per il futuro dell’informazione in un contesto e in un mondo così mutati.
Hanno trovato spazio, nella multiforme, e sfaccettata, storia del giornalismo italiano (di cui parla, con competenza, Cepparrone) esperienze di indubbia qualità e di indiscusso prestigio. Si pensi, a quel che hanno rappresentato, nel mondo della comunicazione del nostro Novecento, quotidiani (della cui esistenza si è persa quasi la memoria) come il fiorentino «Giornale del mattino». Un giornale sulle cui colonne Ernesto Balducci avrebbe trovato spazio per scrivere coraggiose parole a difesa dell’obiezione di coscienza, che gli sarebbero poi state contestate in tribunale.
Oppure si vada, con il pensiero, a ricordare quel che rappresentò in termini di innovazione di linguaggio, di stile, di modalità di fare informazione, in anni in cui l’Italia contadina si avviava convulsamente verso il boom, un grande quotidiano nazionale come «Il Giorno». L’anticonformistico scavo nelle pieghe di una realtà contraddittoria ed in profonda trasformazione trovò lì, ad opera del «giornalismo di inchiesta» (di cui Giorgio Bocca è uno dei personaggi-simbolo), ospitalità ed incoraggiamento.
In un panorama informativo in cui non furono assenti, certamente, pagine grigie e manifestazioni di paludato ossequio nei confronti del potere economico e politico, non mancarono di manifestarsi le istanze di un giornalismo “nuovo” nell’impronta e nella sostanza.
Così è stato, a metà anni settanta, per l’impresa modernizzante de «la Repubblica».
Così era stato, ancora prima, sul versante del giornalismo più marcatamente «politico», con la nascita della spartana edizione (una filiazione ridotta, di grande formato, inizialmente senza immagini e foto) di un «quotidiano comunista» (denominazione tuttora puntigliosamente mantenuta) come «il manifesto». Un giornale che seppe avviare, tra l’altro, con dissacrante e divertita ironia, una vera rivoluzione nella titolazione, in aperta sfida alla seriosità ed al carattere puramente descrittivo dello stile dei «grandi» organi di informazione.
Un elemento di anticonformismo e di novità, su un versante radicalmente opposto, fu peraltro introdotto (come oggi non è difficile riconoscere), da « Il Giornale» di Indro Montanelli. Un giornalista di razza che ebbe indiscutibilmente coraggio nel porsi in opposizione all’ispirazione progressista che troppo spazio, a suo modo di vedere, avrebbe allora acquistato nel mondo dell’editoria, della cultura e dell’informazione.
Un’analisi che si può, naturalmente, anche a distanza di tempo, non condividere, ma rispetto alle quali Montanelli operò scelte coerenti, subendone di persona conseguenze di non poco conto (come la «gambizzazione», messa in atto sciaguratamente da un commando terrorista).
Nella loro varietà e all’insegna di una notevole diversificazione di indirizzi politici, quelli accennati sono stati passaggi importanti, che hanno segnato e accompagnato cambiamenti di sensibilità, di mentalità e di costume della società che talune personalità e certi settori della stampa si mostravano in grado di intercettare e di interpretare in modo originale.

Il «mezzo cieco» e la tv in bianco e nero
Ma la carta stampata già, allora, non era più la protagonista indiscussa sulla scena della rappresentazione ininterrotta che il mondo dell’informazione ha il compito e il destino di allestire. A farle concorrenza, e a stimolarne dall’esterno l’evoluzione verso nuovi linguaggi, stili e modalità espressive, c’era da decenni il «mezzo cieco» (1): la radio. Che si insinuava, con voce familiare, direttamente nel cuore delle abitazioni.
E c’era ormai anche la televisione. La vecchia, e tante volte rievocata, tv in bianco e nero.
Un po’ di amarcord (non regressivamente nostalgico, ma utile a sollecitare qualche comparazione e riflessione critica) è inevitabile. In merito, tanto per dire, alla comunicazione politica. Che era avvolta, certamente, nei fumi allora imperanti dell’ideologia. Anzi, delle diversificate e contrapposte ideologie. Ma che, certo, non mancava di efficacia, di incisività e di sostanza. Era attenzione partecipe (condita con un pizzico di manicheismo) quella che si respirava nelle case dei fortunati possessori del mezzo televisivo, che si riempivano  di vicini, accorsi ad assistere a «Tribuna politica». La garbata, eppur incalzante, «Tribuna politica» di Jader Jacobelli o di Ugo Zatterin. Che riusciva incredibilmente ad attrarre audience (come oggi si direbbe) da partita di calcio. La politica dell’«immagine» (con le connesse conseguenze nel campo dell’informazione) era di là da venire, ma lo spettacolo offerto era, generalmente, di prim’ordine. I «politici» (che, forse, non erano ancora così definiti, con un termine che rimanda ad un «mondo a parte») erano di una caratura oggi non rinvenibile. Oratori abilissimi. Togliatti (e, poi, Berlinguer), Nenni, La Malfa, Aldo Moro e, finanche, Giorgio Almirante (autorecluso nel ghetto “nero” neofascista, eppure comunicatore di indiscussa efficacia).
Anche i giornalisti che a quelle trasmissioni partecipavano, in un contesto storico in cui sembravano d’obbligo mediazioni e toni un po’ «curiali», finivano talora per far emergere il fuoco della passione politico-culturale. Una figura per tutte, riemersa nel magma dei ricordi: quella del giornalista socialdemocratico Romolo Mangione, irruento fustigatore, su fronti opposti, di missini e comunisti. Ma, al di là dello specifico settore della comunicazione politica, non c’è dubbio che la televisione abbia contribuito, più di quanto non abbiano fatto i giornali (in Italia troppo poco letti, come lamentava don Lorenzo Milani, che si piccava di insegnarne il linguaggio ai figli del popolo), a «formare gli italiani». Lo ha fatto, come a volte viene ricordato, intanto, insegnando loro a parlare. Ad assumere confidenza con una lingua nazionale che, nel Paese delle parlate dialettali e dell’attaccamento ai campanili, era tutt’altro che un patrimonio condiviso. E’, questo, un aspetto su cui, nelle discussioni sui 150 anni dell’unità nazionale, non sarebbe male tornare. L’italiano agli italiani, la televisione, lo ha insegnato non solo con trasmissioni ad hoc, giustamente celebrate, come quella del maestro Alberto Manzi, dall’incoraggiante titolo, Non è mai troppo tardi. Lo ha fatto con l’intrattenimento, i documentari, gli sceneggiati a puntate e i film.
Il tutto su uno-due canali. Un tempo che pare davvero remoto. E che, intendiamoci, non è da rimpiangere. Se non altro perché il mondo (per fortuna) è abissalmente cambiato. E perché, nell’ambito di cui qui ci stiamo occupando, viviamo né più né meno che le conseguenze di una rivoluzione (2). Una rivoluzione di portata globale che va ben oltre gli orizzonti del nostro Paese cui, seguendo l’iniziale filo del discorso, è stato finora riferito il ragionamento. Viviamo, ormai, nel tempo della comunicazione globale e dell’informazione in tempo reale. La fine del modo di far comunicazione di cui qui, a rapide pennellate, abbiamo cercato di far riemergere i tratti, ha cominciato presto a delinearsi. Il «tempo reale» della diffusione di immagini e notizie ha cominciato, in modo rapido, ad imporsi come prassi corrente, atta ad alimentare il flusso continuo di impressioni visive, informazioni e punti di vista da ogni angolo del mondo.

Con la potenza di un soffio vitale
Un flusso con la potenza indiscutibile di un soffio vitale.
Vivere in diretta, e senza mediazioni, gli eventi nel momento stesso del loro accadimento ha contribuito a rimodellare abitudini, pensieri e relazioni degli abitanti-utenti del villaggio mediatico. Si pensi, in merito, al peso di due eventi-simbolo. A quello delle grandi manifestazioni del 1979 che portarono al potere Khomeini (di cui ricorreva, in modo singolare, l’anno scorso, il trentennale in un Iran scosso dall’«Onda verde») che resero evidente, sugli schermi del mondo intero, la forza dirompente di quella che fu forse la prima «rivoluzione in diretta». E a quello, in anni già a noi più vicini, della stretta di mano fra Rabin e Arafat trasmessa in mondovisione.
Interdipendenza, circolarità e carattere tambureggiante, e talora invasivo, della comunicazione «globale» sono ormai elementi costitutivi della nostra società e contribuiscono, nel bene e nel male, a dar forma minutamente alla nostra stessa quotidianità. Che senza tale «rumore di fondo» non sembrerebbe più riconoscibile.
Una domanda, a questo punto, si impone. La quantità, l’immediatezza, il carattere vivido delle notizie, delle comunicazioni e delle immagini ricevute costituiscono di per sé anche una garanzia di una reale comprensione della realtà complessa in cui ci è data vivere?
Detto in termini (davvero) semplici: comunicare equivale, sempre, ad informare? E – dal versante dell’utente – sapere ha lo stesso significato di capire?
C’è da chiedersi, nel tempo della sovrabbondanza della comunicazione, qual è lo spazio realmente a disposizione per coltivare analisi selettiva ed approfondimento di fatti e notizie tramite l’uso della ragione critica.
L’avvento della multimedialità racchiude in sé grandi potenzialità. Moltiplica gli strumenti e diversifica le modalità di approccio alla dimensione comunicativa. Le generazioni più giovani vivono con naturalezza invidiabile in un ambito in cui Internet, facebook, twitter e i nuovi mezzi multimediali (iPad, iPad, e-book..) costituiscono i punti-cardine e l’orizzonte abituale di una dimensione virtuale che è un costante e indiscusso riferimento. Si tratta di strumenti potenti e importanti. Strumenti in relazione al controllo dei quali si giocano (anche) le sorti dell’ampliamento o del restringimento degli spazi di libertà e di democrazia nel nostro tempo.
Che questa sia la posta in gioco l’hanno capito benissimo, a diverse latitudini, «dissidenti», movimenti democratici e popoli di Paesi in cui i diritti umani sono negati, che non di rado usano le nuove tecnologie per far conoscere immagini e notizie relative a proteste e a repressioni di cui altrimenti ben poco si saprebbe. Così nei casi della Birmania, del Tibet o dell’Iran. Così in Paesi come Cuba o la Cina.
Dove non a caso, anche i regimi si attrezzano e, a volte (come in Cina), mettono a punto apparati poderosi, impiegano schiere di tecnici ed esperti per mettere sotto controllo la forza comunicativa di mezzi che non conoscono frontiere. Si pensi, in questo senso, al valore simbolico, e all’altalenante vicenda, della disputa fra un gigante della comunicazione mediatica come Google ed il regime di Pechino.
E’ anche in forza della potenzialità democratica dei nuovi media (così Ferri e altri) che risalta il valore di esperienze come quelle del citizen journalism.
Nel tempo di Internet e dell’emersione prepotente ed orizzontale, di inedite modalità (che si vogliono come espressioni di un’inarrestabile democratizzazione dei processi informativi) del comunicare, la sorte dei giornali e del loro «mondo di carta» è, dunque, inesorabilmente già segnata?

Solo una questione di «supporti»?
C’è chi lo preconizza, come Leonardo Maccari (con cui già era avviata un’amichevole discussione), pur non nascondendosi la problematicità di un processo da gestire accortamente e al di fuori di ogni ingenuo ottimismo sulle sorti «progressive» della nuova dimensione mediatica. La questione è controversa e, come sempre, chi vivrà vedrà. C’è il rischio di essere davvero incauti profeti nell’ipotizzare la permanenza, negli anni avvenire, dei giornali «di carta» e del loro mondo (redazioni, giornalisti, catena di distribuzione, edicole…). Può darsi benissimo, ripensando a quanto suggeritomi da un amico musicista, che succeda, in ambito giornalistico, quello che è già avvenuto con la riproduzione dei brani musicali. E’ arrivato presto il momento in cui, ineluttabilmente, e in tempi rapidi, il tempo del vinile, dei dischi e dei Cd, è finito. Sono supporti che per i giovani non hanno più senso e che non hanno più mercato.
Ma, nel mondo dell’informazione, in cui in gioco sono questioni di prim’ordine di carattere civile, politico ed etico (v. Piero Meucci ed altri) in discussione non è semplicemente una questione di “supporti” su cui riprodurre le notizie.
Spostare in avanti il discorso, e ridefinirne l’oggetto, può forse servire anche ad addentrarsi con più efficacia nell’intrico di questioni che esso presuppone. Illuminanti ci sembrano alcune delle osservazioni sviluppate da Luisa Brunori (e presenti anche nelle opinioni di altri autori). A partire da una distinzione di fondo: fra il carattere della comunicazione on line e quella veicolata solitamente dal giornale. Fra la natura, certo fondamentalmente «orizzontale» e democratica della diffusione delle notizie in rete (rispetto alle quali sono però inevitabilmente carenti, o inesistenti, i controlli relativi al rigore ed alla verifica di quanto enunciato) e la struttura certamente «verticale» ma tradizionalmente «autenticata» dall’obbligo deontologico del vaglio selettivo della completezza, delle fonti e della natura delle informazioni, tipica del giornale. Configurazioni non assimilabili, quella di Internet e quella del quotidiano «cartaceo», che, fanno risaltare la freschezza e l’immediatezza della prima rispetto alla «rigidità» della confezione della seconda. Della quale, come viene rilevato, vengono però in luce aspetti «formativi» e non facilmente sostituibili. Quelli che ti costringono, sfogliando le pagine, a venire a contatto non solo con notizie ed informazioni di tuo immediato gradimento, ma anche con quelle che, nella «libera» navigazione in Internet, avresti volutamente ignorato o delle quali nemmeno saresti giunto a conoscenza.
D’altra parte, l’esperienza degli Stati Uniti dove una molteplicità di quotidiani è morta di malattie note (crollo degli introiti pubblicitari, precarizzazione del lavoro giornalistico, calo drastico delle vendite..) non sembra far presagire granché di buono. Dove i quotidiani sono scomparsi è calata drasticamente la possibilità di tener desta l’attenzione sui problemi locali, si è indebolito il controllo sulla politica, si è impoverita la dimensione pubblica.

Se Google salverà i giornali
Ma è proprio dagli Stati Uniti(che spesso anticipano quel che da noi poi si verificherà), che giungono indizi del carattere un po’ unilaterale di un discorso che tende a porre in alternativa due universi (quello dei giornali e quello della multimedialità) che non necessariamente sono destinati a confliggere. Ma che sono chiamati ad individuare forme nuove di interazione, emulazione e fattiva collaborazione. Una collaborazione che può svilupparsi ben al di là della proiezione telematica e delle versioni on line che quotidiani e pubblicazioni cartacee (come attestano giornalisti di provata esperienza come Ermini e Mascambruno) stanno ormai sperimentando. Come osservatori acuti stanno diagnosticando, non è del tutto inverosimile che siano proprio i grandi motori e promotori dell’informazione telematica ad avere un’attenzione nuova verso la struttura ed il patrimonio di professionalità di cui il mondo del giornalismo è – nonostante i problemi che lo travagliano – indiscutibile deposito.
Forse, proprio Google salverà i giornali (3). Infatti, se «(..) i giornalisti smetteranno di produrre informazione di qualità, non ci saranno più notizie interessanti da cercare con Google»; per questo, «il motore di ricerca vuole aiutare i giornalisti a superare la crisi» (4).
In un contesto di crisi generalizzata del giornalismo, non mancano, d’altronde, organi di informazione che, sperimentando con creatività strade nuove, riescono addirittura a ad aumentare le vendite.
In un quadro connotato, comunque, da grande complessità, un (breve) discorso a parte ha in conclusione, da essere accennato riguardo alla situazione italiana, da cui hanno preso l’avvio le presenti note. Situazione particolare e un po’ incongrua. Discutere, da noi, di una possibile «estinzione dei giornali» ha un sapore francamente paradossale.
In un Paese che, pure, come sopra rilevato, ha conosciuto esperienze non prive di pregi e di originalità nel mondo dell’informazione, troppo bassa è ancora, rispetto alle medie altrove registrate, la percentuale di lettori di giornali, di libri e di pubblicazioni culturali.
Rischiamo dunque di trovarci in un contesto «privo di giornali» in una società che ancora non ha saputo valorizzarne appieno il potenziale ed assaporarne la diffusione? Curioso, davvero.
Gravano, d’altronde, sulla situazione italiana, contraddizioni e problemi politici irrisolti non solo riguardo alla «questione giornali» ma più, in generale, relativamente al mondo dell’informazione, della comunicazione e della produzione editoriale. Senza stare qui a sviscerare la sostanza dei problemi, basterà qui evocarne sommariamente i titoli: conflitti di interesse (tra cui quello che, per antonomasia, domina il rapporto fra comunicazione, editoriale e televisiva, e politica), lottizzazione e interferenze partitocratriche, «dispotismo» della grande distribuzione, gestione condizionante delle quote pubblicitarie. Si tratta di questioni, la cui mancata soluzione impoverisce la vita civile e chiama in causa le responsabilità della politica.

Una metafora
Qui, più che altrove, c’è bisogno davvero non di un restringimento, ma di un potenziamento e di una differenziazione degli strumenti e dei canali di informazione. E di una feconda interazione fra quelli «tradizionali» (giornali, periodici, riviste di cultura..), la sorte dei quali, spesso, non è qui davvero e solo legata a «dinamiche del mercato» (la cui presunta «spontaneità» è spesso un mito, che fa velo alla cruda realtà dei condizionamenti esterni) ed i mille germogli della nuova multimedialità. Strumenti diversificati, e compresenti, non tanto per incrementare quantitativamente l’informazione, quanto per produrre elementi utili ad intendere criticamente la realtà. E per affrontare, senza rinvii e fuorvianti fraintendimenti, la non rinviabile questione della modernizzazione del nostro Paese. Una modernizzazione che difficilmente potrò definirsi in modo equilibrato se, nella suo procedere, non riuscirà a tenere compresenti (la necessaria) innovazione e la preservazione di aspetti importanti e costitutivi del patrimonio della nostra identità culturale.
Per spiegarmi velocemente farò riferimento, a mo’ di esempio, a due informazioni concomitanti ricavate, in questi giorni, dalle cronache fiorentine. Nella prima viene dato risalto non solo delle difficoltà crescenti incontrate, in tempi di «tagli» alla cultura, di una grande istituzione come la Biblioteca Nazionale; che dovrebbe affrontare la «nuova frontiera della “memoria digitale”»- come nota la direttrice Ida Fontana-«ma come sempre senza averne i mezzi»(5). La seconda notizia è relativa alla sorte di un grande settore «distaccato» della medesima Biblioteca, come quello dell’Emeroteca di Forte Belvedere. Un grande ed ordinato «contenitore» e deposito di testate giornalistiche, periodici e pubblicazioni che sono il lascito di decenni della storia e del cammino del giornalismo nel nostro Paese. In un bello, e quasi toccante, articolo (6) si racconta come l’ultimo custode dell’Emeroteca si prepara e si rassegna alla chiusura di un «deposito» così grande e significativo da sembrare una «cosa viva». L’articolo è intitolato: L’uomo dei giornali – Addio all’Emeroteca senza lasciare eredi. Una vicenda, e un titolo, che hanno il sapore di una metafora e che sembrano assumere la forza di un monito.

1)    V. in prop. («Testimonianze» n.394): Nostra sorella radio, di Leonardo Ferri.
2)    E’ una riflessione che su “Testimonianze” è stata già variamente sviluppata, tra l’altro: nel volume 447-448 (con sezione monotematica dedicata a Generazioni a confronto) in cui -nell’articolo, di S. Saccardi, Dopo una rivoluzione – ci si occupa del rapporto dei giovani con le nuove forme di comunicazione; nel volume 455 (con sezione monotematica dedicata a La musica, una rivoluzione del nostro tempo), negli articoli dedicati alla novità de Le fabbriche della musica (di L. Vavolo, G. Bigazzi e S. Landi); nel volume 470 (con sezione monotematica dedicata a Stili di vita ed etica del consumare), in particolare, da D. Pasquini nell’articolo E la cultura 2.0 soppiantò il mondo precedente.
3)    James Fallows, Google salverà i giornali («Internazionale», 21/27 Maggio 2010, articolo riportato da «The Atlantic», USA).
4)    «Internazionale», cit.
5)    Maria Cristina Carratù, Se la Biblioteca entra nel web, «la Repubblica», Firenze, 12 Sett. 2010
6)    Laura Montanari., L’uomo dei giornali-Addio all’Emeroteca senza lasciare eredi, «la Repubblica», Firenze, 12 Sett. 2010.