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Le date-simbolo e il buon uso degli anniversari
di Severino Saccardi

È importante approfittare del riferimento ad anni-simbolo come il 1914 e il 1944, per tornare a rifletteresulla complessa dinamica pace-guerra che ha scandito il processo di crescente interdipendenza del mondo che ha portato all’attuale «globalizzazione». Oltre alle riflessioni sulla «grande storia», è importante dar spazio alle molte storie di comunità,territori, gruppi umani, singoli individui che degli eventi del passato sono stati diretti testimoni. È una memoria al futuro che può contribuire alla realizzazione di quel «grande sogno di pace» che, nel suo nucleo più profondo e più vero, aveva animato la Resistenza italiana ed europea.

Bisogna fare buon uso degli anniversari. Come quellodel centenario dello scoppio della Grande Guerra, che ricorre in questo 2014. Gli eventi cui viene fatto riferimento – ad un secolo di distanza – sembrano, certo, ormai lontanissimi. Testimonianze dirette dalla viva voce dei protagonisti credo sia ormai impossibile udirne. Ma di esse si può avere memoria e ricostruirneil senso. Per chi scrive (se è consentitopartire da un riferimento personale) parlare di Prima guerra mondiale significa evocare istintivamente, prima ancora delle nozioni e delle analisi apprese e studiate sui libri di storia, la figura di Tonio.

Tonio e il conte Ugolino

Chi era Tonio? Tonio era, nei primi anni Sessanta, nel piccolo borgo della campagna toscanain cui vivevo quandoavevo quindici anni (e quando dalla Prima guerra mondiale ci separava non un secolo ma solo un cinquantennio), un mio anziano vicino di casa. Non sempre, probabilmente, ci stava del tutto con la testa. Ma aveva dei momenti di grande (e anche pittoresca) lucidità; come quando, con l’incredibile cultura orale di molti semi-illetterati, parlava di Dante e del raccontodell’orrida sorte del ConteUgolino e dei suoi poveri figli. O come quando riandava alle vicende della sua tribolata vita. In cui, nelle sue ricostruzioni, avevano un largo spazio,la «sua» guerra «quindici-diciotto» (come sempre è stata definita da noi italianiche nel fuoco del conflitto ci gettammo per così dire con un anno di ritardo o con un anno guadagnato,a seconda dei punti di vista) combattuta con la penna ed il cappello degli alpini. Di pezze ai piedi,di fango, di trincee, di paura tremenda di morire in mezzo ai fischi delle pallottole ho ricordo di aver sentitoparlare da lui prima ancora di accostare, e poi, approfondire lo studio di quelle vicendesu libri e manuali. Negli stessi anni in cui Tonio ci intratteneva con i suoi lucidi, dolenti e, a volte, un po’ stralunati riferimenti a quelle drammatiche vicende, ricordo anche, sul filo della memoria, che ebbi modo di compiere, da ragazzo in via di formazione, due diverse e, per evidentiaspetti, contrastantiesperienze. Mi recai, in gita con un gruppo di giovani della mia parrocchia, sui sentieri e sui percorsi della Grande Guerra, attorno a Redipuglia. Una sorta di omaggio a chi lì aveva combattuto e, forse, anche alla causa per cui si era combattuto. Ma in quello stesso periodo ricevetti, proprio dal mio parroco, uomo di impostazione piuttosto tradizionale dal punto di vista pastorale ed ecclesiale, ma molto aperto alle istanze socialied alle esigenzeculturali di rinnovamentodella contemporaneità,alcuni degli scritti di don Lorenzo Milani. Erano i testi, che allora circolavano in forma di opuscolo, che poi sarebberostati pubblicati sotto il titoloL’obbedienza non è più una virtù. Materiale esplosivo, per così dire. Un’infuocata, accorata e lucidissimadenuncia delle scelte di politica militare e di guerra compiute dalleclassi dirigenti italiane in un secolo (questo era allora il riferimento temporale del nostro Stato unitario)di storia nazionale.

Lasola «guerra giusta»

Trale guerre combattute, una sola veniva compresa e giustificata: l’«atipica» guerra di liberazione e la Resistenza (siamo pienamentein tema con i contenutidi questo nostro volume) contro l’occupante tedesco ed il nazifascismo. È passato mezzo secolo da quando,con una fervida curiositàda ragazzo, ricevevo queste suggestioni. Eppure, ad una prima impressione, ad anni Duemila ormai abbondantemente avviati, in questo centesimoanniversario dell’avvio della Grande Guerra e nel settantesimo anniversariodel cruciale anno 1944(segnato dal passaggiodel fronte, dagli eccidi, ma anche da un inarrestabile avanzamento della liberazione dei nostri territorioccupati), i temi ed i termini del dibattitoe delle riflessioni sembrano ancora quelli. Non mancano, certo, tentativi nuovi di inquadramentodal punto di vista storiografico di eventi grandi e drammatici come quelli della Grande Guerra, come in questo nostro volume viene in più punti ricordato.Ma, al di là della denuncia dell’«inutile strage» (come quell’immaneconflitto fu definito dal papa di allora, BenedettoXV 1) con un’espressione che quelli come Tonio, che quegli eventi avevano vissuto,avrebbero verosimilmente sottoscritto, come fare oggi i conti,senza letture pregiudiziali e a prescindereda una ricostruzione messa a fuoco esclusivamentecon le lenti del giudizio morale, con l’enorme e drammatica portata di avvenimenticome quelli legati alle due grandi guerre del«secolo breve»? Il lavoro è di lunga lena, come evidenziano molti dei contributi di questo nostro volume. E le riflessioni e le analisimesse in campo, come è inevitabile per fenomeni ed eventi storicidi tale complessità, sono spesso controverse.C’è chi fa notare l’importanza dei cambiamenti che si sono comunqueverificati con gli esiti della Grande Guerra. Quella guerra che oggi riconduciamo a «(…) un puro e sempliceinsieme di negatività che cancellano tutto il resto» come «(…) tanto per dirne qualcuna, l’acquisita indipendenza di tre o quattronazioni, il definitivo tramonto di ceti socialicome l’aristocrazia (…) un senso nuovo di cittadinanza e di mobilitazione politicadiffusa tra milioni di soldati provenientidalle classi popolari, la nascita di nuovi formidabili fermentidi autonomia fra i popolie le élite dall’Anatolia al Golfo Persico, al Nilo» 2. Una considerazione tutt’altro che peregrina, anche se è bene, ovviamente, non obliare mai i costi umani che tali trasformazioni hanno richiesto: quelli, appunto,che la contestata vulgata pacifista ha così bene messo in evidenzae che si sostanziano, solo per avere un riferimento quantitativo, in milioni di morti,mutilati, invalidi, deprivati della giovinezza,della possibilità e della gioiadi vivere. I cambiamenti allora prodottisi (comeè doveroso e d’obbligoinsegnare già agli studentidelle superiori) furono comunque e certamente enormi. Ma c’è, d’altra parte, chi fa notare,un po’ sul filo del paradosso,che niente di quel che allora fu scombinato si è poi per davvero ridefinito o sistemato. Una lettura inquietantequanto dissacrante che ci sembra affiorare in un interessante volume di «Limes» 3. Che ricordala «profezia di Vittorio Emanuele III», che vedeva nella «(…) pace di Versailles nient’altro che una tregua in vistad’inevitabili conflitti» pur non immaginando forse «(…) quanto di provvisorio o d’incompleto vi fosse nella subitanea cancellazione di quattro imperi dal planisfero politico». Cosa che sarebbe oggi evidente nel momento in cui «(…) osserviamoche nessuno di quegli Stati imperiali è inscrivibile nel solo passato, ridotto a oggettoinanimato da affidarealle cure di storici e oleografi» e che «(…) il mito resiste, rimodellato come spirito immortale»attraverso «(…) riletture nostalgiche, come nei casi russo, ottomano e financo asburgico, o deprecative, quando i germanofobi evocano lo spettro del Reich» 4. L’unicovero e «(…) principale lascito politicodella Grande guerra è la dissoluzione dell’ordine geopolitico europeo» 5, vi si sostiene. È noto, d’altra parte, che furono anche gli esiti, gli assetti e le scelte scaturite dalla Prima guerra mondiale a predisporre, in tempi storicamente e drammaticamente molto veloci, le condizioni per lo scatenamento della seconda. L’irrisolta «questione tedesca», l’instabilità del nuovo ordine europeo definito dopo quell’immane conflitto, il fallimento della Società delle Nazioni (sorta nel frattempo per garantire stabilitàe pace), l’insorgere della devastante crisi economicadalla fine degli anni Venti e lo scontro fra i grandi poteri del mondo in competizione fra loro: è presto fatto l’elenco delle condizioniche porteranno rapidamente alla Seconda guerra mondiale.

Il «triello»di Guarracino

C’è una formula, usata dallo storicoScipione Guarracino 6, che rende efficacemente la dinamica«triangolare» che allora si è messa in moto. L’espressione usata è quella del «triello», ossia del giocomobile, a posizioni mutevoli e incerte, che si viene a determinare fra i tre grandi soggetti in campo nello scenario internazionale di quegli anni: le democrazie occidentali a economia capitalistica (Gran Bretagnae, in maniera crescente, Stati Uniti, in primis), i totalitarismi di destra (Germania e Italia, unite poi fra loro nel «pattod’acciaio» e alleate con il Giappone imperiale), il comunismo staliniano al poterein Unione Sovietica.È legato anche alle dinamiche degli attori del «triello» (con l’interventismo delle potenze fasciste,con la presenza dei commissaridi osservanza sovietica nelle «Brigate internazionali», con l’ignavia e l’astensione deglistati democratici occidentali) il destino dellaGuerra civile spagnola. Vera anticamera e prova generale della Seconda guerra mondiale. «Oggi in Spagna,domani in Italia», come avrebbe detto allora Carlo Rosselli.

D’altra parte, fu il patto Molotov-Von Ribbentrop, cioè la benevola non belligeranza fra Germanianazista e Unione Sovietica di Stalin a deciderela sorte e la spartizionedella Polonia. E sarà la successiva (e, per più versi, innaturale) alleanza fra potenze occidentali e Unione Sovietica a decidere, chiudendo in una tenagliai totalitarismi di destra, le sorti del secondo conflitto mondiale.Le contraddizioni insite in quellescelte sono ben descritte in quel titanico,e bellissimo romanzo,che è Vita e destino di Vasilij Grossman7.Un testo vietatissimo di cui il Kgb, pur nell’epoca del disgelo kruscioviano, aveva distrutto non solo l’originale, ma perfino i nastri della macchina con cui era stato battuto. Non a caso: vi si parlava della saga eroica dei popoli dell’URSS in lotta con il mortalenemico tedesco, avendo, nel frattempo, sulle spalle, il giogo del dominio dittatoriale. L’eroismo e l’enormità delle perdite subite dalle popolazioni allora definite come sovietiche (nonché il contributo determinante dell’Armata Rossa) fu naturalmente fra i fattori determinanti nel decidere delle sorti del secondo conflittomondiale. Ma George Orwell, scrittoreeretico e di sinistra, autore della dissacrante Fattoria degli animali avrebbe sperimentato a sue spese la difficoltà di criticare apertamente la figura e il regime di Stalin, preziosissimo alleato dell’Occidente democratico e capitalista,in quegli anni. Dalla Seconda guerra mondiale sarebbe scaturito, è cosa nota, dopo la sconfitta delle potenze dell’Asse e dopo la liberazione dell’Europa dalla minaccia nazifascista, l’«ordine di Yalta». Che avrebbe retto e sarebbe sembrato intangibile, nell’ossificazione apparente dell’equilibrio bipolare e della deterrenza nucleare, per alcuni decenni. Ma quandoquell’ordine, denso di irrisolti conflitti, sarebbe saltato, è a Sarajevo che sarebbero esplose ancora le violenzein Europa. In molti l’hanno fatto notare.Il secolo finiva esattamente là dove era iniziato, con i suoidrammi, le sue turbolenze, la sua insaziabile sete e capacità di generare nuovi conflitti e nuovi drammi storicied umani.

Il carattere «globale» della dialettica amico-nemico

C’è, d’altra parte (lo fannoanche Mauro Ceruti e GianlucaBocchi nel nostro volume) chi parla di «secolo lungo» o interminabile anziché di «secolo breve». Una considerazione, relativa alla continuità di una linea di eventi fondati sulla logica del conflitto, sulla contrapposizione e sullaviolenza, che induce (comunque la si voglia vedere) a non poche riflessionianche alla lucedella recente affermazione di papa Francesco secondo cui oggi «(…) sembra di essere nella terza guerra mondiale, anche se fatta a pezzi, a capitoli». È frammentata la violenza, ai nostri giorni, ma è diffusa e tende ad espandersi.Questo sembra essere verosimilmente il significato delle recenti parole di papaBergoglio. Che interpreta lo sconcerto di tanti uomini o donne di buona volontà di fronte ad un mondo che sembra non aver appreso, a volte, la lezione del secolo che ci sta alle spalle. Che cosasono state, dopotutto, quelle immani tragedie e quei grandi sconvolgimenti storici che vanno sotto il nome di Prima e Seconda guerra mondiale? Sono manifestazioni eclatanti della logica della contrapposizione tendente ad assumere un carattere nuovo e più devastante in relazione alla crescente interdipendenza di un mondo che si andava, paradossalmente e sanguinosamente, avvicinando e unendo anche attraverso l’estendersi, in termini geografici e politicomilitari,della violenza ed il potenzia mento (con i mezzi della tecnica e l’ammodernamento degli armamenti)della forza distruttiva e del carattere pervasivo e tendenzialmente «globale» della dialettica amico-nemico. A proposito di buon uso delle ricorrenze, le duedatesimbolo del 1914 (anno di inizio, in Europa, della Grande Guerra, a partire dagli spari di Sarajevo) e del1944 (che suscita molte, e contrapposte, evocazioni: il passaggio,in molte località, del fronte, gli eccidi, i bombardamenti e le rappresaglie,ma anche la forza ed il significato della Resistenza, in Italia e in Europa, contro l’occupazione nazifascista), al di là dei pronunciamenti e delle celebrazioni ufficiali, stanno lì a ricordarci in che modo e con quale drammatica forza, l’avanzare del «secolo breve» e l’incedere del processo che avrebbe condotto alla «globalizzazione» siano stati scanditi e contrassegnati anche dal confronto continuo e dall’alternativa fra cultura della guerra e cultura della pace. Pace e guerra, totalitarismo e libertà, cultura della dominazione e dirittiumani: sono alcune delle coppie oppositive attraverso cui può essere letta la storia che dal Novecento giunge ai nostri giorni. Le due grandi guerre mondiali, portando tali contraddizioni all’ennesima potenza in uno scatenamento di esplosiva e diffusa violenza (si pensi che le guerre contemporanee e le guerre 1914-1918e 1939-1945 sono spesso definite, in maniera appropriata, come «guerre contro i civili»), hanno dato drammatica ed estrema evidenza storica a quel che può divenire il conflitto quando, anziché nel confronto politico o nello scontrosociale, trova espressione nell’inedita e «moderna»forza distruttiva dello scontro armato. Macina vite e destini, la guerra. Come sempre, non è solo della «grande storia» (e delle sue interpretazioni) che bisogna dar conto.

 
La Storia e le «storie»

La Storia 8(come si intitolava un celebre romanzo di Elsa Morante, teso ad evidenziare il ruolo e la sofferenza della «piccola gente» all’interno e a margine delle grandi vicendee nel vortice delle più immani tragedie) si compone soprattutto di storie. Della «microstoria» di gruppi umani, comunità,località e territori e di una miriade di vicende, casi, percorsi, sorti e drammi individuali. Di cui è importante raccogliere le memorie in un momento in cui i testimoni diretti degli eventi, grandi e piccoli, di un determinato periodo storico vanno scomparendo. È un aspettoa cui nel volume (fatto, davvero, e in gran parte, di «testimonianze») abbiamoscelto di dare ampio spazio.Alle memorie della Prima guerra mondiale (come quelle raccolte dall’Archivio di Pieve Santo Stefano o come quelleraccontate da Lucio Niccolai, Fabio Dei, Pamela Giorgi, Federico Croci) e a fatti, ricordi, ricostruzioni di fatti ed eventi, che concernono singolepersone, comunità e luoghi di singoli territori durante la Seconda guerra mondiale. E in particolare durante il cruciale anno 1944. Annodi passione e di dolore. Fatto di lutti e di stragi. Come quella di Niccioleta (che nel volume viene ricordata) di cui così significativamente ha scrittoErnesto Balducci 9, in cui decine di minatori vennero trucidati per aver voluto difendereda una possibile distruzione operata dai tedeschi la «loro miniera» (luogo del loro sfruttamento, ma anche de loro sostentamento) o come quella di Pratale (di cui parla MassimoSalvianti, che ne ha cura-to un’efficace ricostruzione in un monologo teatrale dal titoloIl sangue e l’erba) o di Piavola (Isa Garosi).O come quella della villa del Focardo, nei pressi di Rignano sull’Arno,dove fu sterminata la famiglia del cuginodi Albert Einstein,Robert (come è raccontato nel bel libro Il cielo cade 10di Lorenza Mazzetti,che era bambina al tempo dell’eccidio e che ad esso era sopravvissuta e nell’omonimo e toccante film dei fratelli Frazzi).Anno di abominio, il 1944. Come ricordaLuciana Rocchi, che parla del campo di concentramento «toscano» di Roccatederighi, in provincia di Grosseto. Ma anno, quello, anche di riscatto. Con le truppe alleate che avanzano, cacciandol’occupante tedesco. Truppe compostedi soldati dai volti, talora, (per noi) esotici: quelli delle popolazioni coloniali(come i maori di cui parla nel nostro fascicoloStefano Fusi) che «prestano» i loro giovani ed i loro figliper combattere una guerra che non è la loro. Un anno di riscatto, il 1944, anche per il contributo decisivo dato dalla Resistenza e dai partigiani. A volte in terre lontane (è il caso di Corrado Sarlo, che dopo l’Otto settembre scegliedi far parte delle brigate Garibaldiin Jugoslavia) o a due passi da casa.

Bombardamenti e giochi di bambini

È l’anno della liberazione di Firenze. Una cittàche insorge e si libera da sola l’undici di agosto.È piagata, ma non piegata, in quel contesto la città che sorge in riva all’Arno e che ha i suoi ponti (tutti, eccetto Ponte Vecchio) distrutti (come ricorda Luciano Artusi). Come in altri momenti di prova (si ricordiquello dell’alluvione 11) Firenze, facendo appello alle sue energie morali ed umane, dà prova di grande volontà di rinascere. Così è in tante altre situazioni. La Toscana,l’Italia, l’Europa e il mondo, verrebbeda dire, escono da una tragediaimmane, con un grande desideriodi normalità e pace. Se posso ricorrere,come all’inizio di questo testo, al repertorio dei ricordi personali,ho in mente quanto mi diceva, della fine della guerra, la mia mamma. Mi parlava dello strazio che avevano provato nel trovare la lorocasa (di ritorno dal rifugioin cui si erano nascosti, da sfollati) bombardata e ridotta in macerie. Mi parlava della difficoltà di ricomporre la famiglia: mio babbo era stato in una formazione partigiana e, pur non avendo partecipato direttamente a combattimenti, portava il peso della lontananzae della tensioneper i gravi rischi corsi. Le mie sorelle Marina e Fosca (che, come i miei genitori ora non ci sono più e che ricordo con tenerezza) erano bambine ancora piccole che sgranavano i loro occhi per capirequalcosa di quel mondo così dolente, turbolento e confuso. Di mia sorellaFosca la mamma raccontava, con sgomento,di quando voleva, nella sua inconsapevolezzadi bambina, desiderosa di giocare, uscire dal rifugio per andare a catturare le cicale (era evidentemente in piena estate)in mezzo ai bombardamenti. Eppure, erano racconti da cui traspariva l’orgoglio per essersi, nonostante tutto, rimboccati le maniche, come si dice, per guardarecon speranza al nuovo. Così è stato evidentemente per migliaia e milioni di persone allora. Si usciva dalla guerra con grandi promesse e speranze di pace. La guerra finì e, mentre il mio babbo e la mia mamma stavano ricostruendo la loro casa, il mondo andava costruendo il suo nuovo «ordine».L’Europa fu divisa, per decenni, in Blocchi contrapposti secondo la logica dell’«era di Yalta». Nel mondo si sono combattute, spesso per procura e in nome degli interessi dei «grandi della Terra», guerre in gran numero con il loro inevitabile portato di morti, sofferenze, macerie e distruzione. Il pianeta è andato, nel frattempo, sempre più, assomigliando a un villaggio, sempre più unito e sempre più diviso. Il Muro (uno dei prodotti, a distanza, della Seconda guerra mondialee simbolo per eccellenza della Guerra fredda) è crollato da venticinque anni. Non si è dischiusa, dopo quell’evento, un’epoca linearmente orientata alla pace né tanto meno, come qualcuno aveva incautamente ipotizzato, è «finita» la storia. Il processo e l’avanzamento della «mondializzazione» sono andati avanti in un complesso alternarsi di pace e guerra, passi nuovi in direzione della convivenza e alimentazione di nuovi motivi di contrasto e di conflitto. Sono contrastanti le pulsioni che animanole relazioni internazionali in questo primo scorcio del millennio. Eros e Thanatoscontinuano a dividersila scena in un teatrodelle vicende umane diventato ormai «globale». È vero che, ci sono realtà, come quella europea,in cui popoli che (nelle sanguinosissime vicende cui rimanda il ricordo di anni-simbolo come il 1914 e il 1944) si sono ferocemente combattuti, adesso, vivono da decenni un ininterrotto periodo di pace. Ci sono popoli,separati oltre che dalle precedenti vicende belliche, dal gelo pluridecennale della Guerra fredda, che oggi (pur con i limiti,le inefficienze e i ritardi che sappiamo) vivono insieme l’esperienza della costruzione dell’Unione europea.

Un sogno di pace

Il mondo è, certo (come le parole di papa Francesco, sopra ricordate,efficacemente sottolineano) inquieto e incline alla violenza. Ma c’è l’Onu (che ha collezionato, è vero, troppi fallimentie che ha urgente bisogno di essere ripensatae riformata) che è un riferimento da non dimenticare e da rimettereefficacemente in campo. C’è anche una nuova sensibilità diffusa per i temi della convivenza, dei diritti umani, del dialogo fra le culture. E le rivoluzioni mediterranee, poi naufragate spesso, almeno temporaneamente, nel groviglio delle loro contraddizioni, sono state l’espressione più recente e il frutto, forse acerbo ma significativo, del bisogno nuovo di libertà e giustizia dei popoli della terra. Germogli nuovi di cui sarebbe sbagliato non cogliere il segno sia pure nel mare di incertezze, di paure, di pulsioni aggressive in cui sembrano a volte perdersi le speranze del domani, Ma non va mai deposta, la speranza. Questo è, alfine, l’insegnamentodi fondo delle storie e delle vicende umane qui passate in rassegna e che, spesso, invitano a non abbandonare l’amore per la vita pur nel fuoco immane delle tragedie. Ricordare oggi vuol dire proiettarela memoria al futuro. Nel suo nucleo più vero, sostieneErnesto Balducci, la Resistenza stessa fu «unimmenso, glorioso, sogno di pace». Un sogno cui sta agli uomini e alle donne di questi incerti anni Duemila dare adempimento per la costruzione di un mondo che, facendo tesoro della lezione delle tragedie del passato,faccia davvero del pianeta la comune e pacifica «casa comune» di tutti e di ciascuno.

1 «Alla fine ha avuto la meglio Benedetto XV», scrive in proposito E. Galli Della Loggia (La memoria cancellata, «Corriere della sera», 4 Agosto 2014). Infatti, egli fa notare,come «(…) non accorgersi che è stata la sua interpretazione di quantocominciò ad accadere esattamente cento anni fa (…) che oggi l’intera opinione pubblica europea sembra avere ormai definitivamente adottato?».

2 E.Galli Della Loggia, ibidem.

3 V. in prop. «Limes»n. 5/2014 dedicatoa: 2014-1914. L’eredità dei grandi imperi.

4  Sonnambuli di ieri e di oggi (Editoriale, non firmato), ivi, p.17.
5 Ivi, p.21.
6 S. Guarracino, Il Novecento e le sue storie, Bruno Mondadori, Milano 1997.

7V. Grossman,Vita e destino, Adelphi, Milano 2008.

8 E.Morante, La Storia, Einaudi, Torino 1975.

9 E. Balducci, I martiri di Niccioleta, in Il sogno di una cosa (a cura di L. Niccolai), ECP, S. Domenico
di Fiesole, 1993.

10L.Mazzetti, Il cielo cade,Sellerio, Palermo 1993.

11Scrive sulle giornatedell’alluvione, Ernesto Balducci (in un editoriale di «Testimonianze» riportato

in Angeli del fango,la «meglio gioventù» nellaFirenze dell’alluvione,  di E. D’Angelis, Giunti,Firenze 2010, p. 202): «Non sembri irriverente: nella memoria di tutti noi queste giornateconservano quasi una traccia di letizia, tanto straordinario è stato il fervore giovanile che le ha riempite,trasformandole in una civile liturgiadi fraternità umana e di solidarietà civica».