L’attualita’ di una lezione
di Severino Saccardi

Sommario: Dalle origini amiatine fino alle riflessioni sulla cultura della mondialità, il senso ultimo del percorso e della lezione di un “uomo di confine” come Ernesto Balducci, protagonista della storia del nostro Novecento ed anticipatore di temi centrali per il nostro futuro, forse sta nell’indicazione della scelta di fondo (quella legata alla “forza dell’amore”) cui l’umanità è chiamata di fronte  alle contraddizioni della nostra epoca.

Era una voce cordiale ed autorevole, dai toni caldi e profondi, quella di Balducci. L’abbiamo udita nuovamente, non senza un intimo e mal dissimulato moto di emozione, con gli amici del gruppo redazionale che ha lavorato, in questi mesi, alla realizzazione del CD allegato al presente volume, ascoltando la registrazione radiofonica di una bella intervista curata da Pierfrancesco Listri dall’evocativo titolo La volta del cielo (di cui in “Multimedia” pubblichiamo un brano significativo). Abbiamo sentito nuovamente evocare, con ineguagliata capacità di sintesi, i suoi temi: la speranza, il futuro, una fede che si fa storia ed un Regno di Dio che già da qui, da questa terrena e lacerata valle di lacrime e contraddizioni, può sostanziarsi in ragionevoli e rivoluzionarie anticipazioni. Un’emozione in qualche modo analoga ha sottilmente circolato fra i presenti quando, insieme a  Leonardo e Fabiola, due ragazzi volenterosi ed entusiasti che molto hanno contribuito al nostro lavoro, siamo andati a registrare le immagini di una breve intervista con Beppina Balducci che, con la sua raffinata semplicità, avrebbe rievocato le lontane vicende legate alla partenza di quel fratello più grande che se ne andava da S. Fiora e dall’Amiata per recarsi a studiare dai preti. Poche battute per evocare  passaggi umanamente intensi di un percorso che, in maniera circolare (1), come tante volte è stato notato, ha avuto inizio nella “tribale”, povera e vitale, realtà amiatina, per snodarsi lungo un complesso arco di “svolte” e di tappe che idealmente si riconnettono, in senso del tutto non nostalgico e non regressivo,  al punto di partenza.

“Se incontraste il duce”
Il motivo delle radici, come a più riprese è stato sottolineato e come ricordano ancora, in questo volume e nel CD, Ennio Sensi e Lucio Niccolai, è di centrale importanza per inquadrare la vicenda umana, spirituale e politica di Balducci. La sua stessa biografia individuale è profondamente ed intimamente segnata dal ricordo delle umiliazioni e delle disillusioni che quel mondo, derelitto ed orgogliosamente altero, ha dovuto subire nel corso del tempo. Famoso, ed emblematico, è in questo senso l’episodio del tema che egli stesso ricostruisce, attingendo ai suoi ricordi di ragazzo, raccontando di quando venne “un giorno a Santa Fiora il provveditore della Toscana (allora i provveditori agli studi erano regionali). Tutto il paese era in piazza ad aspettarlo. Poi i ragazzi furono condotti a scuola. Egli entrò nella nostra classe e chiese alla maestra qualche componimento significativo. La maestra portò un mio tema intitolato: ‘Se incontraste il duce, che cosa gli chiedereste?’. Ricordo che il mio tema era impostato in modo semplicissimo su due argomenti: primo, se trovassi il duce gli direi ‘devi dare un lavoro a mio padre’ (in quel momento mio padre era disoccupato ed era andato in Maremma per cercar di campare); secondo, ‘devi farmi studiare perché io ho voglia di studiare’. Il provveditore lesse, si commosse, mi chiamò davanti a tutti i ragazzi e alla gente del paese che curiosava dal di fuori, attraverso le finestre e mi disse: ‘Il duce dovrà leggere questo tema. Quindi lo devi ricopiare per mandarlo al duce che sicuramente – ha un cuore grande così! – risponderà ai tuoi desideri. Intanto io ti do 25 lire di premio’. Fu un giorno grande per me (….) Passarono i mesi e non arrivò né il lavoro per mio padre né la possibilità per me di proseguire gli studi” (2).
La ricostruzione che Balducci propone del suo originario ambiente amiatino ha la forza ed il valore potente di una metafora. Se la capacità di costruire ed evocare metafore – bellissima è la semplice e fondamentale lezione che Neruda impartisce al postino-Troisi in un film indimenticabile e struggente- è il principio stesso di ogni riscatto umano,  la lezione di Balducci è, in questo senso, esemplare. Parlando dell’Amiata, egli non si limita a descrivere un tempo ed un luogo o a riproporre ricordi di vita: riesce, per questa via, a delineare un orizzonte fitto di suggestioni etico-sociali ed esistenziali.
L’Amiata è un paradigma: è il paradigma dell’umiliazione di una porzione di umanità che pur  riesce a far convivere povertà, dignità ed allegra vitalità ed è anche l’emblema dei dolorosi tentativi di riscatto che quella terra è capace di generare. E’ di questi tentativi che va serbata memoria.

Un sogno impossibile
E’ da lì che si dipana il filo rosso di un cammino connotato dalla volontà, come dirà Balducci medesimo, di rimanere fedele al “sogno impossibile” di un’umanità riconciliata all’insegna della giustizia e della libertà. Così vanno inquadrati i richiami ad esperienze atipiche come quelle del “santo David” Lazzaretti (3), l’ottocentesco profeta dell’Amiata, accusato di eresia e sedizione, ucciso dalla fucilata di un carabiniere e sepolto nel cimitero di Santa Fiora (a pochi metri, oggi, dallo stesso Balducci) perché il corpo non fu accolto nel suo paese di Arcidosso. In questo senso, “David e i suoi seguaci vivevano il sogno. Oggi sappiamo bene che il sogno non è smarrimento, è la rappresentazione dei desideri che salta troppo rapidamente i passaggi storici, ma in sé è vera. E’ un sogno vero, che è poi la perenne umiliazione e insieme grandezza dei proletari” (4).
Un rimando costante, ripetuto, e, in qualche modo, fondativo è, per Balducci, quello relativo alla sorte dei suoi ex-compagni di scuola fucilati dai nazisti (che giacciono, anch’essi, a ridosso della tomba del fondatore di “Testimonianze”). Le parole con cui viene fatto riferimento a quel tragico episodio hanno il sapore, scabro e definitivo, di una promessa solenne e di un impegno di vita: “Il 14 Giugno 1944 ottantatre minatori, fra i quali venticinque miei compaesani per lo più miei coetanei, furono condotti a Castelnuovo Val di Cecina e fucilati. Ricordo ancora quando tornarono le bare al paese agghiacciato. Il monumento nel cimitero di Santa Fiora dedicato alle venticinque vittime rimane un luogo della mia geografia spirituale. Sento che devo essere degno di loro, che la mia cultura non mi deve staccare da loro, che anzi accresce le mie responsabilità di solidarietà con quel mondo di sfruttati da cui sono venuto” (5).  A questi luoghi della sua interiore “geografia spirituale” Balducci ritornerà, superando, rispetto ad essi, l’apparente distacco che connota la sua successiva vicenda biografica e l’oscuro senso di colpa di cui più volte ha parlato, osservando, proprio a proposito dei “martiri di  Niccioleta”: Avrei potuto essere uno di loro perché erano, come me, figli di minatori ed io non ci fui solo perché andai in seminario. Li tradii, per così dire. In qualche modo ho saldato il conto quando ho sottolineato, dinanzi al paese, il loro grande valore umano, la loro religione del lavoro e della famiglia, questa elementare religione del popolo che essi hanno vissuto fino a morirne. Questi modelli di umanità valgono per me molto più delle agiografie che ho letto in seminario. Insomma, dalla rottura alla riconciliazione” (6).
E’ possibile rintracciare nella ricostruzione retrospettiva del cammino balducciano una sorta di oscillazione  e di duplice consapevolezza. Da una parte, per usare una volta di più le sue stesse parole, la percezione netta che “tornando al mio paese mi accorgo che davvero ormai l’ho lasciato e che il sangue mio non è più mio, tagliato fuori come sono, per sempre” (7); dall’altra, la matura e finale convinzione di aver “tanto letto e studiato per trovare poi quel che avevo già a disposizione nel mio ambiente vitale, quello delle origini, a cominciare dai valori evangelici che, nelle sofisticate ricerche teologiche, si risolvono in essenze astratte irraggiungibili, e che invece avevo in casa mia e attorno a casa mia, nella mia esistenza, secondo le beatitudini dei poveri, degli umili, degli assetati di  giustizia”(8).  Come spesso accade, peraltro, la consapevolezza del valore del proprio ambiente originario può, in maniera  compiuta, risaltare ed essere veramente assunta tramite l’allontanamento da esso e l’apertura, faticosa e feconda, verso tappe inedite che schiudano a nuovi orizzonti di vita., trovando il “coraggio di spezzare i vincoli che mi legano all’illusione di ciò che non è e di guardare, con interiore libertà, al futuro, che ha in sé il senso vero del passato” (9).

La tribolazione del popolo
Apertura  decisa e fervida al futuro come inveramento e scoperta dello spessore e del senso profondo del passato: è racchiusa, in  gran parte,  in questo nesso la sintesi ultima del percorso intellettuale, spirituale ed umano del fondatore di “Testimonianze”. Che, in tutta evidenza, nessuno si sogna di considerare, nonostante il richiamo al valore antropologico ed etico delle “radici”, come un personaggio o un autore “amiatino”, come riconoscono puntualmente anche gli amici e gli intellettuali della sua terra che tanto hanno fatto per tutelarne e valorizzarne la memoria. D’altra parte, nella  riflessione più matura, se non negli accenni esplicitamente autobiografici o negli scritti dedicati espressamente alla dimensione storica e paradigmatica della sua terra natale, i riferimenti di Balducci all’Amiata apparentemente non sono centrali e nemmeno frequentissimi. Ma essi vivono, chiaramente, a livello psicologico e politico-culturale, sottotraccia, contribuendo a costituire il retroterra e l’ humus profondo di cui si alimentano gli stessi suoi contributi di carattere teologico e civile della maturità. Da dove far scaturire altrimenti la tranciante nettezza di affermazioni come quella secondo cui la “considerazione del popolo, che vede nel prete uno che si stacca dalla tribolazione, è una considerazione terribile” (10)? E’, in ogni caso, da una tale nettezza di impostazione che, gradatamente e per fasi, si dipana il profilo della riflessione che egli andrà proponendo in vari ambiti e periodi della vita, soprattutto nella sua amata città di elezione, Firenze, in cui egli vivrà interamente la sua vita adulta, con il significativo intermezzo dell’ “esilio romano”, a cavallo dei primi anni sessanta che gli permetterà, in realtà, di respirare a pieni polmoni e da vicino l’aria del rinnovamento conciliare della Chiesa.

Se il cristianesimo è libertà
Si trattava di un rinnovamento, di una Primavera che Balducci ed altri come lui (da Arturo Paoli, a Primo Mazzolari, a David Maria Turoldo) avevano tanto atteso nei lunghi anni del pontificato pacelliano, anticipandone per più versi i motivi di fondo, ed incorrendo talora, per questo, nei severi richiami della gerarchia ecclesiastica.  Ripercorrere i passaggi complessi, e sofferti, a partire dai quali Balducci, ed altri come lui (si pensi, in questo senso, alla particolarità del cattolicesimo fiorentino nella stagione del card. Elia Dalla Costa), si erano impegnati a favorire il rinnovamento della Chiesa e del rapporto Chiesa-società, non è possibile nel nostro breve spazio di pagine. Ma è utile, questo sì, riandare all’idea-cardine, al tema centrale di quel risveglio di tensioni ideali, prima latente e poi dirompente, che avrebbe infine investito l’insieme delle istanze di quello che allora, unitariamente e compattamente, veniva definito come “mondo cattolico”.  Il tema era riconducibile all’ idea del cristianesimo definibile evangelicamente come speranza e come libertà (11). E’ un motivo che percorrerà poi ampiamente il Concilio Vaticano II ed il periodo postconciliare e che tenderà a divenire familiare ai credenti ed agli stessi non credenti all’insegna della rivisitazione dei motivi originari della predicazione cristiana e della contestazione del rapporto “costantiniano” fra Chiesa e poteri del mondo.  Ma quando inizia a manifestarsi, già nel grigio e soffocante panorama culturale degli anni cinquanta, ha il sapore fresco e bruciante ed il respiro vitale della radicalità e della novità che solo la riscoperta della genuina e sorgiva forza di un antico messaggio a volte sa dare.  C’è in tale istanza un qualcosa, insieme, di semplice e di sconvolgente: il rapporto con il cuore della buona novella cristiana non ha più da essere mediato attraverso rapporti gerarchici tradizionalmente intesi e attraverso rigide formule catechistiche. E’ la potenza della Parola, da ricercarsi anzitutto nel testo evangelico e nelle fonti bibliche a prescindere dai tradizionali e consolidati schemi della Chiesa tridentina e delle sue chiusure illiberali ed antimoderne, che va riscoperta come elemento liberante e salvifico. E’ una certezza che inizia ad emergere dalle parole di preti (Balducci, appunto, o Turoldo e, in un modo peculiare, fatto di apparente indifferenza ai problemi di rinnovamento “interno” della Chiesa cattolica, Don Milani) che pure si sono formati (12)  dentro i seminari preconciliari, con nitidezza e forza sorprendente . Una forza che risalta ancor più, contestualizzandone storicamente elementi e contorni, in anni caratterizzati da una feroce contrapposizione ideologica e politica e da stridenti contrasti di classe, mentre il mondo cattolico è chiamato a serrare indefettibilmente le file ed il comunismo di oltrecortina a malapena sta iniziando ad emergere dalle  durezze estreme del totalitarismo staliniano.

La dimensione del “confine”
Eppure è proprio a partire da quegli anni che uomini come Balducci inizieranno programmaticamente a frequentare una dimensione di “confine”. Un “confine” che si situa in una zona di intersezione e di interazione fra fede e politica, teologia e impegno civile, testimonianza evangelica e dialogo con i non credenti e che si muoverà per linee che sposteranno, in maniera sempre più mobile e avanzata e attraverso successive “rotture”, i fronti della riflessione di Balducci. Fino alla “svolta antropologica”, all’impegno per la pace ed i diritti umani degli anni ottanta, al confronto con l’ideale dell’uomo planetario e del dialogo fra culture e civiltà all’insegna di un’idea di laicità all’altezza delle sfide del Terzo millennio.
Un punto di arrivo che si sostanzia di alcune, forti e ripetute, acquisizioni di fondo; come quelle secondo cui l’ “amore è antipotere, è il rifiuto di ogni rapporto che significhi schiacciamento della coscienza, riduzione degli altri ad oggetto da dominare” ed è essenzialmente “rinuncia al potere” (13). Il primato della coscienza, esaltato con un rigore di tipo quasi “protestante”, avrebbe caratterizzato, tra l’altro, alcune delle decisive e dirompenti scelte di vita del fondatore di “Testimonianze”: come quella, notissima, compiuta con il pronunciamento a favore degli obiettori al servizio di leva, nei primi anni sessanta e conclusasi, per lui, con una condanna penale. Erano i tempi in cui l’obiezione era ancora reato e Don Milani proclamava che  l’ obbedienza non è più una virtù (14).  Alla concordanza di intenti ed alle comuni battaglie civili che avevano caratterizzato il suo rapporto con don Milani, al di là della diversità di linguaggio, di percorso e di stile, Balducci avrebbe fatto peraltro più volte riferimento, riconoscendo in lui ” (….) un testimone evangelico di grande valore (…) che ha dato la parola ai muti e ha dato l’udito ai sordi” (15).
Ma cosa univa testimonianze e forme di presenza così diverse, al di là delle contingenti e pur importanti concordanze ideali e politiche, come quelle di Balducci e Milani? Forse proprio l’intendimento di voler contribuire a distribuire “agli uomini la speranza”. “La  speranza” che è “(….) un arcobaleno che scavalca il tempo e le sue tribolazioni” (16), ma che deve cercare intanto di sostanziarsi, a partire dal libero esercizio della ragione critica, all’interno delle contraddizioni del vivere umano e della storia.

A Badia Fiesolana e nelle case del popolo
E’ su questo perno che si incardinano anche le diverse fasi dell’impegno di Balducci e delle realtà (come “Testimonianze”, la comunità di Badia Fiesolana, le Edizioni Cultura della Pace) che egli ha fondato ed ha contribuito a costruire e ad animare e con cui ha liberamente, e talora, vivacemente, interagito.
Il primato della “meditazione”, esaltato sul finire degli anni cinquanta ed a cavallo dei sessanta in polemica con il temporalismo ecclesiastico, il dialogo con la sinistra e, poi, la “scelta di classe”, l’impegno per il disarmo e l’etica planetaria: sono tutte fasi che esprimono, a livelli diversi, e pur all’interno di un percorso caratterizzato da ripensamenti, rotture ed accelerazioni, un comune intendimento. Quello di dar voce ed espressione ad una speranza che, senza alcuna detrazione dello spessore teologale che essa aveva per i credenti, sapesse parlare a tutti gli uomini, al di là delle specifiche connotazioni culturali o religiose. E che sapesse, prima di tutto, collegarsi, a quelli tra loro che appartengono, come i minatori delle memorie della terra amiatina, alle schiere degli ultimi e degli umiliati.
Tutto questo Balducci ha saputo rappresentarlo, in contesti diversi, nelle omelie come nelle conferenze e nei dibattiti politici, con una forza ed un’originalità che si conservano vive nel ricordo al di là della conclusione drammatica della sua vicenda umana. Lo dice in maniera efficace Fabio Mussi, quando rileva che egli sapeva, in questo senso, farsi ugualmente intendere, pur nella diversità dei linguaggi e delle forme comunicative usate, all’interno della Badia Fiesolana come nelle case del popolo ed alle feste de “L’Unità”. Egli fu, è vero, insieme e a pieno titolo, uomo di Chiesa ed uomo della sinistra.  Ed ha ragione, nel nostro volume, Andrea Bigalli a sostenere che egli fu anche una sorta di teologo europeo della liberazione (anche se, come rileva Arturo Paoli, del Terzo mondo non fece direttamente esperienza). Visse dall’interno, e con pienezza, intuizioni, entusiasmi ed illusioni di un’epoca. Fu in questo, in pieno, uomo del suo tempo, di cui seppe sperimentare, toccare da vicino  e condividere novità e limiti.  Partecipò, come è noto, dall’interno e con rigore intellettuale, al dibattito su fede e socialismo e sottolineò più volte l’importanza decisiva di molte delle analisi di Marx, riletto talora con l’ottica utopica di Ernst  Bloch per cui “(…)l’essenza dell’uomo è nel futuro dell’uomo”, il quale “non conosce se stesso se non passando attraverso il proprio futuro”(17). Condividendo poi il destino ed il cammino incerto dell’intera sinistra di connotazione o derivazione marxista, anche Balducci dovrà poi misurarsi con i problemi posti dagli anni della stagnazione del “socialismo reale” (18), dell’assenza dei diritti umani nell’Europa centro-orientale, della competizione riarmista dell’URSS brezneviana con l’America reaganiana.
Ne nasceranno, come più volte è già occorso di raccontare (19), vivaci discussioni nella stessa redazione di “Testimonianze”. Discussioni alle quali, come ricorda Goldkorn riandando alla stagione dei Convegni di “Testimonianze”, Balducci non si sottrarrà mai, confrontandosi, con vigore e in spirito di libertà, con le posizioni altrui, contribuendo a suo modo a fornire la rappresentazione dei termini di una ricerca cui il crollo dei Muri non ha tolto sostanza ma ha portato, in maniera irrevocabile, a ridefinire e modificarne per sempre modalità e temi.
Dal confronto derivante dalle prospettive dei cambiamenti epocali in corso, Balducci cercherà di trarre, a suo modo, ipotesi nuove e credibili per un rilancio della battaglia sui temi di fondo che hanno animato gli ultimi anni del suo impegno. Che cosa vuol dire, nel mondo nuovo che si va preparando, rivendicare ancora la pace come realismo di un’utopia (20)?
E che cosa vuol dire lavorare per eliminare la permanente contraddizione fra Nord e Sud del mondo per unire due mondi in unico mondo possibile(21)?

Freud e la forza dell’amore
Balducci tende fondamentalmente ad individuare, mi pare, due risposte a questi epocali e persistenti interrogativi. La prima, sulla scorta della lezione delle stesse “rivoluzioni neogandhiane” dell’Ottantanove dell’Europa dell’Est è quella legata alla prospettiva storica della lunga marcia dei diritti umani (22). All’interno di tale impostazione, pur nella permanenza della sostanziale ed abituale diffidenza balducciana (francamente poco condivisa, in questi termini da chi scrive) per “il discorso borghese sui diritti umani (…) che celerebbe la forma “sotto cui, a livello sostanziale, il sopruso dei  forti sui deboli si maschera”, viene sottolineato, con accenti di novità, il valore di passaggi come quello della Dichiarazione universali dei diritti del 10 Dicembre 1948. Una pietra miliare in direzione di un cammino storico che, mirando a sciogliere le ambivalenze di uno sviluppo plurisecolare fondato in maniera contraddittoria su un’identità occidentale fatta insieme di cultura del diritto e pratica  della dominazione (23), sia capace di promuovere insieme libertà democratiche e giustizia sociale a livello planetario. Ma all’interno della lunga marcia dei e per i diritti dell’uomo, come poi verrà in modo esplicitato in maniera più articolata ne La terra del Tramonto (24), fondamentale è il riferimento alla dimensione giuridico-politica che dia sostanza ad un ‘ethos cosmopolitico (l’antico sogno di Kant riproposto nei nuovi termini imposti dalla civiltà planetaria) per l’individuazione di forme di “governo mondiale” delle contraddizioni e dei problemi della nostra epoca. Un’epoca che è matura per la piena emersione di “(…) nuovi soggetti di diritto  i quali si muovono nello spazio internazionale senza curarsi della mediazione dello Stato, quali soggetti che immediatamente si rivolgono alla comunità mondiale in base alle istanze giuridiche emanate”(25).
Su questa seconda e fondamentale opzione Balducci ci consegna, per così dire, il testimone. Da qui dobbiamo ripartire per riflettere in modo più maturo sulle emergenze e sui nuovi sconvolgimenti che hanno investito il mondo nei dieci anni successivi alla scomparsa di questo testimone d’eccezione.
Questo fascicolo (cui hanno contribuito tante personalità e tanti amici, che tutti ringraziamo anche se è impossibile citarli estesamente) e l’allegato CD, al di fuori di ogni improprio intento agiografico, sono dedicati, per l’appunto, a: Ernesto Balducci-attualità di una lezione.  Il volume è monografico (dedicato com’è per intero  alla riflessione e all’opera fondatore della nostra Rivista) ma non “monotematico”: le rubriche del fascicolo articolano, in qualche modo, proprio i temi di fondo del percorso e della lezione di Balducci che sono ripresi, con brani antologici e schede di inquadramento dedicate a temi, tempi e luoghi, nel CD-Rom. Non è, questa, certamente la conclusione di un discorso che già in questo anno, in tante iniziative, fiorentine e di ambito nazionale, sarà in vario modo sviscerato e ripreso e che andrà continuato.
Fin d’ora è però possibile raffermare con certezza che la vicenda di Balducci è esemplare, al di là dei giudizi e delle opinioni sulle posizioni specifiche che egli è andato via via esprimendo, almeno per due caratteristiche che contraddistinguono il profilo della sua figura: quella di “testimone”, protagonista ed indagatore “in corso d’opera” della storia intellettuale, politica e spirituale del nostro Novecento; quella di anticipatore attento ed acuto di temi, problemi, elementi di analisi (come quelli sulla cultura della mondialità che lo accostano, va nuovamente rilevato, ad un grande intellettuale europeo come E. Morin, di cui ospitiamo qui uno scritto sui temi del dialogo fra le civiltà) che riguardano ed investono il nostro presente e le incerte prospettive del nostro domani.
C’è un momento e c’è un aspetto della sua riflessione in cui i due aspetti (di protagonista e studioso del Novecento e di scrutatore del Terzo millennio) si intrecciano e si fondono.
E’ quando egli, nella prefazione al celebre carteggio Freud-Einstein (che raccoglie testi dell’anno cruciale 1932, alla vigilia dell’avvento del nazismo, in cui il fondatore della psicanalisi parla della perenne lotta fra istinto di vita ed istinto di morte, Eros e Thanatos), nota che Freud medesimo, se “fosse stato testimone della catastrofe atomica” (e, aggiungiamo noi, dei molti altri orrori del secolo)  avrebbe potuto “ripensare allo schema, senza vergognarsi di parlare con più sicurezza della potenza positiva dell’amore”(26). Se pensiamo al punto di partenza del nostro ragionamento, qui il cerchio sembra davvero chiudersi.
Detta così, laicamente, la “forza positiva dell’amore” è forse l’istanza antropologica di fondo che può consentire di educare e di autoeducarci, in maniera non retorica e non velleitaria, a divenire cittadini del mondo (27) nell’età dell’interdipendenza planetaria.

Note
1) V. in proposito la “classica” e completa ricostruzione biografica de Il cerchio che si chiude (ed. Piemme,    intervista a c. di L. Martini) e la raccolta di scritti dedicati all’ Amiata ( E. Balducci, Il sogno di una cosa, a c. di L. Niccolai, E.C.P., S. Domenico di Fiesole 1993).
2) Il sogno di una cosa, cit., pag.29.
3) V. in prop., di Anna Innocenti Periccioli, David Lazzaretti, ed. Jaca Book, Milano 1985.
4) Il sogno di una cosa, cit., pag.150.
5) Il sogno di una cosa, cit., pag. 30.
6) Il sogno di una cosa, cit., pagg. 38-39.
7) Il sogno di una cosa, cit., pag. 44.
8) Il sogno di una cosa, cit., pag. 67.
9) Il sogno di una cosa, cit., pagg.43-44.
10) Il sogno di una cosa, cit., pag.66.
11) Parola di libertà, di Severino Saccardi  (in: La parola, le parole, Atti del Convegno di Pozzuolo del Friuli del 25-26 Settembre 1993, a cura del Centro “E. Balducci” di Zugliano, Centro di accoglienza “E. Balducci” editrice, Zugliano 1994).
12) V. in prop., Parola di uomo, parola di prete,  di Piergiorgio Camaiani, ivi.
13) E. Balducci, Il mandorlo e il fuoco,  volume 2°, ed. Borla, Roma 1981, pag. 286.
14) L’obbedienza non è più una virtù, Documenti del processo di don Milani, ed. LEF, Firenze 1983. Tra la vastissima letteratura esistente in proposito v., tra l’ altro, di Giovanni Catti (un autore che ha contribuito anche al presente fascicolo), Don Milani e la pace,  Edizioni Gruppo Abele, Torino 1988  e , a cura del Centro Don Milani e del Comune di Vicchio, A trent’anni dalla lettera ai giudici di don Milani, ed. LEF, Firenze 1998.
15) E. Balducci, Il mandorlo e il fuoco, cit., pag.343.
16) E. Balducci, La verità, Edizioni Paoline, Alba 1960, pagg. 197-198.
17) E’ una frase contenuta nel libro Cristianesimo come liberazione (ed. Coines, Roma 1973) che Balducci firmò insieme a R. Garaudy, esponente allora di un marxismo antistalinista ed antidogmatico.
18) V. in prop., su un importante aspetto specifico di tali tematiche, le riflessioni dello stesso Balducci, su L’ateismo nell’Unione Sovietica, in “Testimonianze” nn. 177-178.
19) S. Saccardi, Libertà e liberazione in Ernesto Balducci, negli Atti del Convegno su Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti umani, “Testimonianze” nn.373-374.
20) La pace realismo di un’utopia è anche il titolo di una raccolta antologica curata da Balducci assieme a L. Grassi e pubblicata, nel 1983, per i tipi delle edizioni  Principato di Torino.
21) Nord e Sud/Armi e fame-due mondi per un mondo possibile era stato, tra l’altro, il titolo del II Convegno di “Testimonianze” (Atti in “Testimonianze” nn. 253-255).
22) Ernesto Balducci, La lunga marcia dei diritti dell’uomo,  “Testimonianze” nn. 326.
23) Sulla cultura della dominazione che a partire dalla data-simbolo del 1492 connota, secondo Balducci, i rapporti fra Europa e “nuovi mondi” v., in particolare, il suo  Montezuma scopre l’Europa,  E.C.P., S. Domenico di Fiesole 1992.
24) E. Balducci, La terra del tramonto, E.C.P., S. Domenico di Fiesole 1992.
25) E. Balducci, La lunga marcia dei diritti dell’uomo, cit.
26) E. Balducci, prefazione a: Riflessione a due sulle sorti del mondo (di S. Freud ed A. Einstein, ed. Bollati Boringhieri, Torino 1990.
27) V. in prop. il libro di educazione civica di E. Balducci e P. Onorato intitolato proprio Cittadini del mondo (ed. Principato, Milano 1984).