L’anima: un vasto paese
di Pierangelo Pedani

Nel mondo attuale si assiste ad un impoverimento della vita affettiva e ad una conseguente fragilità dell’identità individuale. Anche nel campo medico si tende sempre più a «curare» senza “prendersi cura».

Premessa

Sono solito andare, quando mi si commissiona uno scritto, a vedermi sul vocabolario il significato di certe parole chiave, per un bisogno di chiarezza. Ingenuamente sono andato a cercare sul dizionario di Psicologia la parola: anima. E non c’è. Non ci poteva essere e lo sapevo. Quello che ho scritto va considerato quindi un lavoro non dello psicologo, perché dell’anima tout-court non è possibile scrivere con intento scientifico, ma una libera riflessione, quasi filosofica dell’uomo. “L’anima è un vasto paese» mi scrive una cara amica nel regalarmi un libro ed intendendo certamente aprire e condividere una prospettiva su qualcuno di quei panorami che rendono così complessa la propria “anima”. Ma ti sorge il dubbio, in questa riflessione, se il «vasto paese» sia ancora oggi vasto e se non possa in troppi casi apparire funestato, disabitato e se i “panorami dell’emozione” non si mostrino ormai scoloriti, ingrigiti come i pioppi sotto l’azione dello smog.
Scrivere sulle «cure dell’anima» significa occuparsi di un’«anima» certamente spaesata, impoverita, deprivata, soggiogata. Altri notevoli problemi derivano poi dal confrontarsi con il «sistema delle cure» (dell’anima) – le psicoterapie, i loro dintorni – sistema attualmente in accelerata modificazione ed i cui esiti sono di difficile decifrazione.
«Nel mondo attuale – si chiede il filosofo -esistono ancora le condizioni dello spaesamento? La risposta del filosofo Galimberti è: «Sempre meno perché sono crollate le pareti tra anima e mondo. L’anima ha cessato di viversi come interiorità individuale e, attraverso un processo di pro-gressiva esteriorizzazione ha finito con il coincidere con il mondo a tutti comune». Quello che pensa e sostiene il filosoto appare complementare, speculare a quanto risulta allo psicologo clinico quando rimugina, «soppesa», fuori dall’ambito strettamente professionale, quanto gli viene portato da bambini, genitori, persone e famiglie in quello spazio che oggigiorno riveste la funzione di ambito «ove si cura l’anima». Viviamo «sempre più uguali» e sempre meno capaci di esprimere proprie emozioni e sentimenti individuali; questi appaiono ormai omogeneizzati
come gli alimenti infannili di qualche tempo fa, una poltiglia incolore e nauseabonda.
Impoverimento e depsicologizzazione dell’anima

Anders (ripreso anche da Galimberti) parla esplicitamente del naufragio dell’identità personale nella pubblicità dell’immagine. I singoli individui costretti a rinunciare alla costruzione di una propria singolare identità, sostituiscono ad essa quella «mediatica» disponibile in ogni immagine, in ogni simbolo, in ogni parola, in ogni rituale giornaliero di questo mondo diretto dalla tecnologia.
«La parola diffusa – scrive Galimberti – oltre ad abolire quella segreta, quella nascosta, quella intima, ha relegato in un angolo, dove domina il raccoglimento ed il silenzio, ma forse anche la solitudine, le parole di preghiera, le parole d’amore quelle di amicizia, le parole di rabbia, le parole umane». Siamo diventati tutti «es-osti». C’è forse un gesto – una volta spontaneo o – si direbbe con un linguaggio della psicologia – «impulsivo» che non sia stato mostrato in TV? lì suicida non sceglie più l’arma della sua morte ma prima la legge sui giornali ed anche il pedofilo (ma ce ne sono così tanti?) trova le sue gesta già scandite nei giornali e nelle news ripetute all’infinito.
E poi ancora, c’è una persona che può essere triste, sconsolata per la morte di un marito, figlio, oppure per essere stata lasciata da un amante? Direi di no, quella persona può essere solo «malata-depressa». Non si può più essere tristi ma si può essere depressi e pertanto curati con i far-maci «noti». Non c’è più tempo e spazio per essere tristi, contenti. A mio parere anche le emozioni sono «malate», scadute e contribuiscono all’impoverimento dell’anima. Le emozioni, psicologicamente, hanno sempre avuto, credo, un ruolo di «mediazione» dell’azione: se c’è un evento, un fatto, un’azione che ti colpisce/ti interessa, individualmente, a livello emo-tivo, ci dovrebbe essere uno spazio-tem-po che interviene perché quell’evento, fatto, ti risuoni dentro, venga analizzato, soppesato per poi avere un qualche contributo alla mente intenzionale, del tipo: «quelle parole le sento di amore… Quel gesto mi sembra offensivo…». Non esistono più film ove uno sguardo d’amore non porti, alla scena dopo, alla immediata consumazione sessuale. L’hard impera ovunque. Non ci sono più le scene alla Sergio Leone nelle quali si studia un gesto lento, di rap-presentazione di una emozione che si sta producendo ma l’azione prende il sopravvento sempre sul «pensiero» e dunque non vi sono più film (visibili) nei quali vi sia un solo morto. Negli «action-films» vi sono centinaia di morti per scena. «Delitto perfetto» lo abbiamo visto in pochi.
La spettacolarizzazione, prima degli eventi e poi via via delle emozioni, dei sentimenti e delle relazioni, rende noi tutti degli attenti e passivi fruitori di immagini, di reazioni, pronti a cogliere un «sentire» prestabilito, predigerito. Non possiamo poi più dissociarci perché la nostra es-senza, la nostra identità, così costruita, ha bisogno di questi conforti, di questo «specchiamento». La famiglia, il focolare domestico ove si strutturava il nuovo individuo è sostituita dal «sociale» un sociale però fatto di «media», di immagini, di telenovelas, di simboli mediatici.
Già il grande Konrad Lorenz lo aveva perfettamente previsto quando, a proposito dei conflitti intergenerazionali, aveva osservato che nelle ultime generazioni questo conflitto (che nella sua teoria era assolutamente strutturale alla dinamica delle generazioni) era reso impossibile per l’emergere di una identificazione non più con il genitore reale, ma quello idealizzato-simbolico di altri paesi, quello della TV, di Internet, in altre parole poichè  i giovani di tutto il mondo tendono ad essere identici e poiché purtroppo anche le «culture” cessano di essere
diverse ne deriva un odio persistente tra generazioni contigue con un divario culturale tra le stesse che si accresce sempre di più.
Ma anche Timbergen aveva osservato come vi sia da temere un graduale impoverimento della vita sociale dovuto all’inurbamento, alla mancanza di tempo e spazio da parte delle madri rispetto alla cura dei figli e con tutto ciò ci sarebbe stato da aspettarsi la comparsa di gravi disturbi dello sviluppo tra i quali per es. un aumento della sindrome autistica.
Sia l’impoverimento,  della vita affettiva, delle cure materno-parentali primarie, sia l’aumento della distanza tra generazioni contigue con l’impossibilità di un confronto tra padri/madri e figli, sia lo smisurato aumento dell’impatto mediatico e tecnologico sulla costruzione della stessa identità rendono il nuovo individuo un individuo con una identità fragile, fondata sul confronto-rispecchiamento non con l’altro “reale” ma con l’altro “virtuale.
Ne deriva un graduale impoverimento, uno svuotamento dell’anima individuale che appare come sostiene Galimberti «depsicologizzata» in quanto privata del segreto, della intimità, della possibilità di introspezione in quanto totalmente «estroversa» o, si potrebbe dire con un neologismo, «estroversata».
Una analisi non dissimile dalla mia veloce sintesi mi pare quella fatta da S. Montefoschi, ripresa anche da Ivano Spano, quando si parla esplicitamente di carenza della «funzione animica», rispetto alla ipervalorizzazione della funzione «persona» nel contesto della cultura affuale. D’altra parte Spano si occupa da tempo di analizzare e approfondire proprio il tema della soggeuività, o, per usare parole a lui care, dello «statuto del soggetto»; un «soggetto» che risulta appunto alquanto indebolito proprio per la sua perdita progressiva di contatto con i valori umani che fondano la sua esperienza vitale. «Riappropriarsi – sostiene Spano – della sua natura e di quella dimensione universale che lo contraddistingue e che lo vede teso verso la possibilità di fare di tutta la realtà la base della propria esperienza» ecco il compito dell’uomo sano, dell’uomo integro, che non ha «perdite» e «salti» di memoria che ne minano l’integrità fisica e psicologica.
«Cure dell’anima nell’oggi». Psicoterapia e altro ancora

Qualche tempo fa ho seguito, per dei problemi emotivi, un bambino che stava nel mezzo tra due «mamme»: una quella vera che non lo poteva e voleva tenere e l’altra, una zia della stessa madre, che se lo era, per così dire, «affigliolato». Vi erano naturalmente una serie di problemi rela-zionali che però invece di essere «aiuta-ti» erano resi più acuti dalla situazione che si era venuta creando nella scuola del bambino.
A scuola si era ricreata specularmente la identica situazione della famiglia ed il bambino viaggiava da una sezione all’altra poiché in nessuna delle due sezioni aveva realmente un suo posto. Come le mamme anche le classi erano due e questo faceva sentire il bambino sempre «fuori posto» con varie conseguenze.
Similmente, mi sovviene, si nota un identico «isomorfismo» a proposito della de-psicologizzazione dell’anima e del suo progressivo svuotamento, impoverimento: a fronte di questo fenomeno infatti sembra stare analogamente un sistema di «cure» impoverito, delegittimato, svuotato. Molto ridotto ormai il campo della cura religiosa dell’anima causato da una perdita di attenzione e di interesse alla sfera «religiosa» che dura ormai da tanto (per quanto ora se ne intravedano sintomi di risveglio), totalmente sottaciuto il ruolo della psicoterapia svolta in ambito pub-blico e privato – se si esclude il riferimento costante a quella parte della psicoterapia (per lo più psicoanalisi classi-a) che riguarda un chiuso e poco numeroso circolo di persone per così dire altolocale, ormai disperse le antiche figure del mago e della strega, tipiche della cultura contadina che comunque svolgevano un qualche ruolo in questa direzione messa in fuga dalla divulgazione dei «trucchi» da parte della tecnologia, non rimane che l’imperante circo dei «conduttori» di salotti.
Call-center; talk (man and woman) show, telefonisti, siti internet, telefoni di vario colore, trasportano rapidamente le richieste di aiuto, le richieste di parere, le emozioni dichiarate in un «altrove» lontano, le utilizzano per lo spettacolo e le restituiscono al pubblico e quindi al singolo protagonista totalmente ormai svuotate di ogni autentica emozione.
Ma parlando del sistema sanitario pubblico un qualcosa di analogo sta accadendo:
si privi legia un modo di lavorare per grandi gruppi di operatori, team, equipe, gruppi di lavoro. A fronte della svalorizzazione brutale delle competenze professionali, specifiche, si caldeggiano e si formano sul campo manager, conduttori, animatori del gruppo. Il risultato spesso, se non sempre, è che tutti sanno tutto e partecipano a tutto indipendentemente da quello che sanno fare e per il quale sono stati assunti. È d’altra parte una modalità che pare incontrare molto successo e pertanto molto condivisa dalle varie istanze sindacali, politiche e tavolta professionali.
In questa direzione la interdisciplinarietà è assunta : come obiettivo e come strumento, non come metodo, ed è diventata paradossalmente lo strumento per ogni fine, la panacea di ogni male e problema: per questo è difficile essere critici.
Sul piano della mia esperienza, che è di solito con bambini e con le loro famiglie, mi capita sempre di più di constatare come fenomeno  conseguente che molti bambini con problemi sono visti, visitati e fatti oggetto di una «diagnosi», più e più volte. Sono bambini che «transitano», per così dire, da un’equipe ad un’altra e poi nessuno li segue  con continuità e con efficacia. Sembra che vi sia un similare destino:
essere visti, essere conosciuti è lo slogan ma poi non vi sono forze e non vi è lo spazio per una accurata ricostruzione della storia e del senso del loro problema e non vi è più interesse del sistema per una cura che preveda e che si incentri su di una relazione significativa, continuativa.
Non è sempre così, perché vi sono eccezioni, ma in questo settore appare sempre più improntato ad un «curare» senza “prendersi cura”.
Paradossalmente in questo tema della riflessione sullo “spessore” dell’anima, si arriva a riscoprire proprio il  corpo: il corpo dell’anima. e’ il corpo che si impone nell’oggetti perchè è lì, è presente, è esigente e viene idolatrato. Forse questo è uno dei motivi di fondo per il quale l'”anima” è impoverita.
Il corpo si “impone” sull’anima perchè è più immediato, perchè appare di più facile accesso e se qualcosa non va si può subito intervenire: non ti concentri? eccoti il tuo farmaco, sei infelice? prozac, non ti piaci? si interprella il chirurgo estetico che può mutare i tuoi connotati.
Nella sanità perfino il problema della tossicodipendenza è diventato un problema quasi esclusivamente medico, anzi farmacologico tant’è che si sta pensando di distribuire eroina (ma per fortuna nei coffee-shops!> dopo aver inondato una inte-a generazione di metadone. Invece di squarciare il velo della «droga», delle sostanze per provare a leggere i sottostanti bisogni emotivi e psicologici profondi, le istanze abortite di socialità, di trascendenza, di ritualità, bisogni che insomma riguardano l’anima, una enorme coperta in nome della riduzione del danno – sic! Da questo punto di vista l’assunzione del corpo come valore e la sua medicalizzazione hanno già trovato una loro piena realizzazione anche nella salute mentale ove la psichiatria farmacologica ha monopolizzato la clinica e l’accademia.
Insomma sembra che si stia per perdere la scommessa che, si sarebbe potuto fare, nel servizio pubblico, qualcosa che andasse insieme, ed anche oltre, la medicina, le cure mediche: come dire non c’e più anima e rispunta infatti l’obsoleto tema della «umanizzazione delle cure e degli ospedali». Qualcuno ha già detto: «è paradossale ma sembra che i servizi per l’uomo debbano essere ricondotti ad una dimensione umana perché l’hanno persa o non l’hanno avuta…» (A. Alesini).
Il paradigma dell’oggi dunque anche nei servizi non sembra dissimile da quello imperante nel mondo dei media e si avvale di situazioni nelle quali non conta e non si vuole un rapporto più vero, più autentico, che vada dunque incontro all’uomo nella sua integrità e dunque incontri an-he la sua anima. In realtà ci si ferma molto prima e ci si interessa solo dell’aspetto comunicativo esteriore, commerciale, di public relation, di spettacolarità. E dunque il destino dell’oggi, speriamo non del domani, è di essere visti, osservati, e diretti non incontrati. Sembra, in occasione anche del «grande fratello», che George Orwell sia stato profetico.