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La citta’ metropolitana e il paradigma del “caso Firenze”
di Giacomo Trentanovi

Quale immagine di città si profila nell’era della globalizzazione? Il “caso Firenze” ci introduce in modo emblematico alle contraddizioni del tempo presente. Un tempo in cui il vivere urbano registra trasformazioni che hanno origini in scelte fatte altrove e soffre dell’incapacità di coniugare il grande patrimonio del passato con l’esigenza di governare una realtà in costante trasformazione.

 

Questa Rivista torna a parlare della città dopo tre anni dall’ultima sezione monotematica (Se esplodono le città, a cura di S. Saccardi, in “Testimonianze” n.446) dedicata a questo tema. Allora lo spunto fu la rivolta nelle banlieue francesi dei figli degli immigrati e la paura, oggi parzialmente sopita, che quegli scontri fossero la punta di un movimento che avrebbe potuto coinvolgere l’intero continente. Lo spunto di oggi è il “caso Firenze”, a partire dal riferimento contingente alla vicenda politico-giudiziaria che ruota attorno alla trasformazione dell’area di Castello, ultima area non edificata del territorio comunale, di cui la città discute da circa 25 anni! Com’è noto la questione ha coinvolto l’Amministrazione cittadina recentemente giunta a scadenza del mandato, la proprietà dell’area (controllata da un finanziere noto alle cronache giudiziarie già dai tempi della “Milano da bere”), e la proprietà della Fiorentina calcio, per l’ipotesi di trasferimento dello stadio e di altre attività. L’affaire, che ha ottenuto ampio risalto anche sulla stampa nazionale ed ha rappresentato un’immagine di Firenze ben diversa da quella per cui è conosciuta nel mondo, è stato quindi lo spunto per una riflessione più ampia sul tema della città metropolitana.

Provando a guardarci indietro
In questa riflessione abbiamo provato prima di tutto a guardarci indietro. Certo non all’epoca medievale o granducale, in cui la città rappresentava un esempio per la civiltà occidentale , ma al passato recente. In particolare abbiamo provato a ripercorrere gli ultimi decenni, partendo proprio da un altro “caso Firenze”, quando avvennero alcuni episodi di razzismo verso alcuni cittadini senegalesi. Anche in quell’occasione si aprì un dibattito sui cambiamenti allora in corso e sui possibili modi di trasformazione della città. Proprio in un libro di saggi del 1990, conseguente agli episodi di intolleranza razzista, Balducci rifletteva su questo tema. Giocando con le parole si definiva ‘laico’ e invitava gli addetti del settore (urbanisti, amministratori, opinione pubblica), a considerare maggiormente la ricaduta sulle città di scelte fatte altrove o di accadimenti non direttamente riconducibili al dibattito cittadino o disciplinare. Quindi una visione della città come materializzazione di processi da questa totalmente indipendenti, come scelte di politica internazionale, strategie commerciali o produttive di aziende multinazionali, o stili di vita della popolazione, a mero titolo di esempio . Certamente, una lezione ancora oggi attuale.
Una visione che parte da un po’ più lontano, attraverso la ricostruzione dei piani urbanistici e delle politiche attuate dalle varie amministrazioni, dal binomio Piano Detti – Sindaco La Pira in poi, è quella che ci propone Paolo Baldeschi. Nel caso fiorentino, che presenta delle proprie specificità, possiamo leggere la trasformazione dei piani e delle politiche in ambito urbano: dal tentativo dei piani ‘riformisti’ di regolazione di uno sviluppo fino ad allora incontrollato, alla contrattazione degli interventi urbanistici direttamente con le singole proprietà. E’ lo specchio di un cambiamento profondo delle modalità di attuazione delle politiche urbane: con un doppio binario – regolazione dello sviluppo e attuazione di politiche pubbliche per la casa – nell’urbanistica ‘riformista’; mediante la contrattazione delle trasformazioni e lo cessione di quote di residenze da utilizzare per esigenze sociali da parte dei privati, nella fase attuale. Ciò deriva da molti fattori, tra cui la necessità di velocizzazione delle trasformazioni, la consapevolezza che l’integrazione pubblico-privato generalmente migliora le trasformazioni urbane, e le sempre minori risorse per l’attuazione diretta delle trasformazioni da parte delle Amministrazioni cittadine. Ma con una crescita del peso della rendita nella trasformazione urbana. In sintesi, a causa di una lettura della Costituzione fortemente orientata verso la tutela della proprietà privata da parte della Suprema Corte (per cui il diritto di costruire – ius aedificandi – non è scindibile dalla proprietà fondiaria), e per la complessità e lunghezza dei procedimenti, si è man mano ristretta la possibilità di utilizzo dell’esproprio come strumento per l’acquisizione di aree a basso costo per la costruzione della ‘città pubblica’ e sociale .
Ma il peso della rendita è aumentato anche per la drastica diminuzione del numero di attori nel passaggio dalla fase dell’espansione a quella della trasformazione. Nel momento in cui le città hanno arrestato la fase di crescita per iniziare una riqualificazione di parti urbane degradate (generalmente industrie dismesse nel processo di deindustrializzazione), il numero dei soggetti detentori di una possibilità di edificazione o trasformazione urbana si è quindi notevolmente ridotto . Nel caso fiorentino questa platea di attori era già esigua, data la storica concentrazione di proprietà in poche mani, oltre all’esiguità del territorio comunale urbanizzabile, escludendo a priori le colline.
A questi processi si è accompagnata poi la necessità delle Amministrazioni di risorse economiche per fornire sempre maggiori servizi (giustamente) richiesti dai cittadini, a fronte di una sostanziale riduzione dei trasferimenti da parte dello Stato. Il modo più facile, ma spesso l’unico, per uscire da questa doppia morsa, si è spesso rivelato il rilascio di permessi di costruire che hanno finanziato le casse comunali, anche attraverso la costruzione di infrastrutture, o la fornitura di servizi, da parte dei privati. Purtroppo alle volte a scapito della qualità delle città, dei territori e dei paesaggi.

Perché il “caso Firenze”?
Ma questo percorso descritto è comune a molte città italiane e non solo. Allora perché siamo arrivati al  paradigmatico “caso Firenze”? Certo non basteranno queste poche riflessioni per spiegarlo, tuttavia è interessante notare quanto la città, e il dibattito su come debba essere trasformata, siano sostanzialmente uguali a circa venti anni fa. I temi urbanistici contenuti nel libro di saggi sopra citato del 1990  sono gli stessi della campagna elettorale appena conclusa: aeroporto, Castello, viabilità, etc… Già questa potrebbe essere una spiegazione efficace…
Due tra le principali trasformazioni urbane avvenute in questo arco temporale sono la costruzione della tramvia e la trasformazione dell’ex area Fiat a Novoli. Entrambe sono state caratterizzate da forti polemiche e rappresentano scommesse perse, almeno nell’immaginario collettivo, anche se per motivi diversi. La prima perché, nonostante sia il primo tentativo, più che lodevole, di spostamento di quote sostanziali di passeggeri dal trasporto privato a quello pubblico, si è dimostrata invisa a non pochi cittadini per i disagi derivanti dai cantieri e perché associata al passaggio in Piazza S. Giovanni della linea 2. La seconda perché rappresentava la prima vera occasione di riqualificazione di un quartiere intensivo, nato in un’altra cultura urbanistica, ed è stata centrata solo in parte. In entrambe il tratto comune è la scarsa partecipazione alle trasformazioni urbane da parte della cittadinanza, non promossa, quando non esplicitamente osteggiata, dalle Amministrazioni cittadine (in particolare l’ultima), proprio in anni in cui il tema della partecipazione alle scelte si è affermato come uno dei più significativi e certamente in ambito urbanistico.
L’ultima trasformazione, non avvenuta nei confini comunali ma nell’area metropolitana vasta, ma non per questo meno significativa, è rappresentata dall’espansione (seppur limitata rispetto ad altre realtà italiane, ad esempio il Veneto, come ci ricorda Riccardo Conti) del modello della “campagna urbanizzata” pratese: quello ben descritto da Roberto Benigni nel film Berlinguer ti voglio bene, tipicamente nordamericano, che gli urbanisti chiamano sprawl. Questo modello, caratterizzato dal forte consumo di suolo, da modelli di abitazione del tipo villetta, in cui è necessario l’utilizzo del mezzo di trasporto privato, ed in cui le relazioni sociali generalmente sono più deboli (e perciò generatrici di paura), trova come poli di aggregazione i luoghi del consumo non a caso nati al cento di quest’area: Gigli, Ikea, multisale, etc… I non-luoghi o superluoghi, secondo la suggestiva e fortunata definizione di Marc Augè, di cui ci parla nel suo intervento Roberto Mosi.
Tuttavia resta valido ciò che ci suggerisce Riccardo Conti: la vita nelle periferie fiorentine è ancora caratterizzata da un alto livello di servizi e da relazioni sociali certamente più che accettabili. Ma restano aperte le questioni degli spazi verdi (il Parco di San Donato a Novoli è in questo senso un piccolo tentativo) e della viabilità.
Anche l’intervento di Luigi Ulivieri ci suggerisce le difficoltà di cambiamento a Firenze, riproponendo l’attualità e l’urgenza di un diverso orizzonte, soprattutto nella trasformazione della città esistente, in senso ecologico e policentrico. Ulivieri ripropone soprattutto il tema della Città Metropolitana quale organo amministrativo dello Stato, ed in particolare le due grandi questioni dei limiti territoriali e delle competenze. Si tratta di un tema quanto mai attuale, dibattuto sia a livello nazionale nell’ottica federalista, sia a livello locale in occasione del rinnovo delle amministrazioni comunali e provinciali. Proprio per l’esiguità del territorio amministrato direttamente dalla città a vantaggio dei comuni della cintura , e per il forte impatto che possono avere politiche non coordinate, come dimostrano i casi del passato , la questione è centrale per il buon governo delle aree metropolitane e per cui sono stati persi troppi anni. Questa sarà una delle maggiori sfida per il buon governo delle nuove amministrazioni cittadine (Firenze e Prato) e provinciali (Firenze, Prato e Pistoia).

Quale immagine di città?
Molte di queste riflessioni sottendono una domanda cruciale: quale ruolo Firenze intende affidarsi nel panorama nazionale ed internazionale? In tutti i saggi ricorre il tema della visione monotematica (turistica) della città, anche se il peso del turismo nell’economia fiorentina è inferiore a quello che generalmente si immagina; ma oggi Firenze appare (quindi è) solo e soltanto una delle città d’arte italiane, sempre di più theme park di se stessa. E’ un processo che ha interessato anche altre città analoghe, si pensi Venezia, e che porta alla progressiva espulsione dei cittadini residenti dai luoghi del turismo.
Nel suo intervento Baldeschi spiega come in origine la trasformazione dell’area di Castello nasca per spinta della dirigenza cittadina del PCI dell’epoca come tentativo di diversificare e modernizzare l’economia, anche verso funzioni culturali e produttive. Il progetto (momentaneamente naufragato) dei Della Valle prevedeva invece la costruzione di un parco tematico dello sport, con gli annessi e connessi che questo comporta (ristoranti, cinema, etc…), che rappresenta la vera sostanza dell’operazione, celata dietro al trasferimento dello stadio. Si deve ammettere che l’operazione aveva anche una sua logica nell’ottica di un ampliamento dell’offerta turistica della città, proponendo un abbinamento sul modello Parigi-DisneyWorld, in un momento in cui il turismo sta mutando sempre più verso un “mordi e fuggi”, con un calo costante delle presenze negli alberghi e nei musei. Se non fosse che sull’area doveva nascere un grande parco urbano (che evidentemente interessava poco agli amministratori, viste le espressioni riportate dalla stampa), previsto perché fondamentale per dotare di verde e spazi pubblici tutta l’area nord-ovest della città e perché ultimo punto di connessione ecologica tra le aree verdi residue a sud ed a nord.
Le città postmoderne vivono della propria immagine , Firenze deve decidere quale promuovere, oltre a quella della città d’arte, buona solo per chi passa in città poche ore, visto che la produzione artistica contemporanea pare schiacciata dal peso della storia, come non mancano di notare acuti osservatori internazionali . Il tema della definizione del sé è quanto mai attuale e non rinviabile, soprattutto se si pensa ai processi di cambiamento avvenuti in aree urbane che nel giro di qualche decennio hanno saputo trasformarsi e rinventarsi, e proporre al mondo una nuova immagine e un nuovo modello. Si pensi ai casi emblematici di Bilbao o di Torino, da città industriali tout court a città in cui il peso dell’industria è sempre forte ma che hanno saputo aprirsi ai nuovi servizi e al turismo. Nel caso piemontese l’evento internazionale delle Olimpiadi Invernali è stato il culmine di questo percorso. Proprio questi “palcoscenici mondiali”, di cui si discute in questi tempi a Firenze (‘Davos’ della cultura, candidatura a Capitale europea della Cultura per il 2019) possono cambiare l’immagine e la sostanza di una città grazie ai forti investimenti che arrivano dall’esterno. Gli esempi sono moltissimi, e non sempre positivi, ma il ruolo dei grandi eventi internazionali (esposizioni universali, eventi sportivi, etc…) hanno, se ben gestiti, effetti benefici sulla definizione di città in crisi d’identità.

La “soglia di decenza” e il razzismo
Un’ultima riflessione sul tema del confronto con il passato: stupisce quanto in venti anni si è abbassata la nostra “soglia della decenza” sul tema del razzismo, anche in riferimento alla stessa città di Firenze. Come accennato sopra, casi di razzismo nel 1990 provocarono una indignazione collettiva, titoli a nove colonne sui quotidiani nazionali e dibattiti e libri su questi episodi nella capitale della Cultura e dell’Umanesimo; e soprattutto una mobilitazione della città con la saldatura col movimento degli studenti e con gruppi rappresentativi. Oggi casi simili casi (a Firenze è recente quello di una ragazzina italiana di origini cinesi a cui è stato sputato sul treno) sono uno dei tanti che fanno notizia sulla cronaca locale, e neanche su tutti i quotidiani. Anche in questo ambito è riscontrabile un diverso atteggiamento delle società nel tempo verso la diversità in genere, proprio a partire dagli ambiti urbani. In particolare abbiamo assistito in questi anni ad un’affermazione continua e strutturata del tema della sicurezza urbana nel sentire comune e nel confronto e nella competizione politica, proprio a partire dagli ambiti metropolitani . La questione si rivela centrale per la sopravvivenza stessa della città, come laboratorio e culla della diversità, nell’ottica che ci propone Giandomenico Amendola nel proprio intervento. Se su questo tema c’è stato un mutamento profondo della società italiana, chiamata ad affrontare il confronto con realtà diverse molto più tardi di altri paesi, uno degli aspetti più interessanti di questo mutamento è stata la differente considerazione del binomio sicurezza-immigrazione da parte delle città, ed in particolare dagli amministratori di centrosinistra. Bologna, Padova, Roma rappresentano casi in cui i Sindaci, o gli Assessori del centrosinistra hanno mutato profondamente le loro politiche verso gli immigrati (generalmente appellati extracomunitari o clandestini) provenienti dai paesi poveri. Anche Firenze, pur in assenza di eventi delittuosi che generalmente danno il via alla discussione , si è inserita a pieno titolo in questo percorso, anzi ne è stata piena protagonista nell’estate del 2007 con la famosa “ordinanza lavavetri” che aprì un dibattito a livello nazionale. Per la città patria del cattolicesimo democratico, che ha espresso sindaci come La Pira ed esponenti della Chiesa e della cultura del calibro di Don Milani e Balducci si è trattato di un mutamento di rotta non da poco.
Un ultimo aspetto riguarda la cultura dell’abitare ed i riflessi che questo ha sullo spazio urbano. Le città storiche sono caratterizzate da monumenti, perlopiù oggi visitabili, che le rendono famose a livello planetario, ma sono costituite prevalentemente da abitazioni private. Le modalità in cui queste vengono costruite è un tema che ha una importanza centrale nella definizione dell’ambiente urbano. La città ottocentesca, quella del Novecento, quella medievale, sono ciascuna profondamente diversa dall’altra, soprattutto per le modalità di costruzione delle abitazioni e per il rapporto di queste con lo spazio pubblico, strada in primis. Il tema è quanto mai attuale e centrale perché siamo ancora ben lontani dal definire un linguaggio architettonico contemporaneo ‘condiviso’, nel senso del socialmente accettato come ‘bello’, pur senza voler sconfinare nell’ambito filosofico-estetico. Questo tema è ancora più urgente in previsione del ritorno dello Stato (annunciato dagli ultimi due governi) alla costruzione di edilizia residenziale sociale, dopo anni di abbandono del problema. Per quanto prevedibile, la sfida troverà i professionisti del settore alquanto impreparati, soprattutto se paragonato con l’impegno riservato al tema nel secolo scorso. Intendo dire che se gli architetti di grido del Novecento (i cosiddetti ‘Maestri’ del Movimento Moderno: Le Corbusier, Mies, Gropius ….) si erano ampiamente occupati del problema, a tal punto da dedicargli esposizioni internazionali e la costruzione di quartieri-tipo in cui si confrontavano le maggiori ‘firme’ dell’epoca , oggi sembra sempre di più che i cosiddetti Archistar si occupino delle funzioni più disparate (musei, grandi magazzini, etc….) ad eccezione della casa, luogo fondamentale della vita di ciascuno.
Abbiamo provato con questo a dare il nostro piccolo contributo alla definizione del problema, senza alcuna velleità di risoluzione. Con ben presente il “laico” consiglio di  Balducci, che suggeriva di pensare alla costruzione della città, ma ancor prima all’impianto complessivo della società in cui questa si inserisce.