La Chiesa cattolica e le elezioni politiche del 2001
di Andrea Bigalli

Sommarietto: La Chiesa cattolica, finito il tempo del collateralismo democristiano, deve riscoprire la sua funzione di “spina nel fianco della storia”, perennemente all’opposizione, osservatorio esigente e severo sul piano etico e sociale, all’insegna dell’attenzione alle necessità dei poveri, di coloro che soffrono disagio ed emarginazione, ad ogni titolo.

Forse è utile un piccolo riavvolgersi del nastro su cui registrare le vicende, attraverso la narrazione anche di quelle personali. Nel 1992 in Italia si svolsero le elezioni politiche. Secondo una classificazione che non condivido sono considerate le ultime della cosiddetta prima Repubblica. Prima del voto la Conferenza Episcopale Italiana diffuse il suo consueto appello agli elettori a firma di Camillo Ruini. L’invito era quello, consueto, a votare per il partito di ispirazione cattolica, la Democrazia Cristiana. In quella circostanza, al termine della celebrazione eucaristica domenicale nella mia parrocchia, feci un avviso invitando i presenti a fare le proprie scelte a prescindere dall’appello dei vescovi, votando per chi pareva loro. Il motivo era di ordine generale, non del tutto legato al partito in sé: esprimeva la convinzione che la fase del collateralismo della Chiesa ad un determinato ordine politico era terminata, non aveva modo di giustificarsi più in alcun modo: per quel che mi riguarda non ne ha mai avuto. Con le politiche del 1994, del 1996 e del 2001 gli appelli pubblici della CEI con indicazioni dirette di voto non si sono ripetuti. Non tenete conto di quanto si può intuire, con indizi, prove o certezze, sui desideri della maggioranza dei vescovi e sul loro orientamento politico: i primi, in chiave pastorale, hanno un significato, il secondo conta solo fino ad un certo punto. Il vincolo pastorale che sconsiglia ad ogni presbitero di far evidente il proprio orientamento partitico – espresso nel divieto di iscriversi ad un partito politico, a norma del codice di diritto canonico – non è diverso per i vescovi. In tal senso posso anticipare, quasi premettere, le mie conclusioni: nei mesi prossimi ci possiamo aspettare plauso a quella o all’altra iniziativa governativa, ma dubito che ci sarà uno schierarsi manifesto da parte della gerarchia cattolica per la maggioranza. Si potrà parlare di forte simpatia, ma tale atteggiamento non diventerà un appoggio diretto. Non ci sono più i presupposti per un’approvazione incondizionata. Su alcuni temi la CEI si sente più tutelata con l’attuale governo: scuola privata, principi di morale cattolica e loro espressione a livello giuridico, tutela della Chiesa su di un piano di immagine (per intendersi, mai più Gay Pride a Roma). Ma dubito che il centrodestra possa fugare del tutto i dubbi sulla propria affidabilità, anche su di un piano morale. La gerarchia cattolica va spesso a braccetto con la borghesia (talvolta con la peggiore), ma non le è del tutto connaturale un rapporto troppo stretto con essa. E’ indubbio che l’attuale maggioranza di governo è espressione della borghesia medio alta: i rapporti positivi, subito evidenziati, con Banca d’Italia e Confindustria parlano di un organico che non perseguirà di certo una politica legata agli interessi delle classi sociali più modeste. Su alcune tematiche come la salvaguardia dello stato sociale, l’immigrazione, la tutela delle minoranze, la chiesa non può ripensare le proprie posizioni senza entrare in una contraddizione troppo forte con se stessa. A partire da questi dati vedo in prospettiva la possibilità di un conflitto, non tanto (o comunque, non in maniera decisiva) tra gerarchia cattolica e governo, quanto a livello di base. Organizzazioni, gruppi, movimenti di opinione di area cristiana sono già in stato di allerta. Un uomo come don Vinicio Albanese, della Comunità di Capodarco, ha affermato, a partire dalla semplice analisi del programma elettorale di Forza Italia, che per i non garantiti a livello sociale si apre una stagione di difficili rapporti con le strutture pubbliche. Don Luigi Ciotti, del gruppo Abele e dell’associazione contro le mafie Libera, è stato uno dei pochi che ha avuto il coraggio di affermare pubblicamente che il risultato elettorale in Sicilia, con la conquista da parte del Polo delle Libertà della totalità dei seggi disponibili, delinea chiaramente le nuove scelte della mafia siciliana (e non solo) in ambito politico. Del resto Totò Riina si era già pronunciato a tempo debito sull’argomento. Le associazioni ecologiste hanno già il loro daffare per la notizia che il nuovo organico di governo ha affermato che sui protocolli sull’ambiente la posizione di riferimento è quella dell’amministrazione Bush negli Stati Uniti. La piena disponibilità prospettata da Silvio Berlusconi ad aderire al progetto di scudo stellare rilanciato dallo stesso Bush rivela chiaramente come si schiereranno i gruppi pacifisti e le associazioni impegnate sul fronte dell’aiuto allo sviluppo ai paesi poveri. Si costituirà un’opposizione “fisiologica”, per niente preconcetta, all’operato di questo governo: molti gruppi di area ecclesiale o cristiana ne faranno parte e saranno in prima fila nell’analizzare, nel contestare, nel proporre visioni e progetti alternativi. Ricordiamoci che la Rete di Lilliput, di cui faccio parte e che è nata in un contesto ecclesiale, è organica, pur con qualche difficoltà di coabitazione con gruppi dalla filosofia di azione molto diversa, al movimento antagonista agli aspetti negativi della globalizzazione, a quell’impero mondiale che si definisce sulla base di una visione neoliberista dell’economia. Il nodo sarà proprio la visione neoliberista incarnata, prima ancora che seguita, da Berlusconi: ad essa la Chiesa cattolica non può adeguarsi. Se lo farà, si verrà a creare uno scollamento con la sua realtà più vitale, cioè tutti quei gruppi che elaborano, nel concreto, la prospettiva del rapporto con il mondo, la società, le culture. Senza tale rapporto, che non è solo di azione e di presenza, anche la spiritualità perde senso. Il Vangelo chiede scelte politiche e spirituali nel solco della tradizione della profezia biblica: la lettura dell’oggi per la sconfessione delle idolatrie, delle divinizzazioni, della sacrificabilità del singolo all’interesse dei potenti. Le parole e i segni non solo per denunciare, ma soprattutto per indicare i valori significativi, le prospettive di autentica qualità dell’esistenza, la scelta della vita nel suo senso più compiuto, personale e collettivo allo stesso tempo, immanente e trascendente al contempo.

La Chiesa “spina nel fianco della storia”
La Chiesa ha un suo progetto politico, che nasce dall’idea di società e dei valori conseguenti che si è costruita nel tempo. Per perseguirlo sarà capace di relativizzare i soggetti attraverso cui realizzarlo. Storicamente ciò è avvenuto spesso: del resto Paolo nella lettera ai Romani chiede rispetto per le autorità ed è un rispetto funzionale al conseguimento del risultato dell’evangelizzazione. Bisogna comunque riconoscere che nella sua cattolicità la Chiesa romana ha dato esempi di cosa significhi fare opposizione in contesti di regimi illiberali e violenti. C’è stato il Nicaragua come caso negativo (la nomina di cardinale a Obando Bravo resta una notevole vergogna, come pure l’atteggiamento nei confronti di Ernesto Cardenal), ma ci sono stati pure gli esempi della Vicaria de la Solidariedad in Cile, delle Filippine, di Timor Est, senza dimenticare figure fondamentali di vescovo come Oscar Romero o Samuel Ruiz. La casistica è varia, non la si può leggere in modo univoco.
A riguardo posso dire che per una volta penso che sia più importante il livello dottrinale, la prassi – fondamentale per altri versi – può venire in un secondo tempo. Più che avere a cuore cosa fa il singolo vescovo, mi importa che resista il principio della necessità di non esprimere scelte partitiche dirette. Almeno in questo contesto; se la democrazia fosse in pericolo, allora sarebbe un altro paio di maniche. Ma adesso è fondamentale che la libertà critica delle comunità ecclesiali resti integra, senza che ci siano pronunciamenti diretti di appoggio al governo, a nessun governo. Ciò non deve esser mai fatto; per come la concepisce la Gaudium et Spes, la Chiesa dovrebbe avere una funzione di controllo sull’autorità, funzione che le è richiesta da quel “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” degli Atti degli Apostoli. Vero caposaldo dell’etica cristiana, questo concetto esprime il distacco con cui entrare nella dinamica delle relazioni di potere. I credenti dovrebbero possedere il principio con cui relativizzare ogni potere umano. Se i primi cristiani sono stati perseguitati e uccisi perché rifiutavano di riconoscere la divinità  e l’autorità dell’imperatore, i loro successori non possono dimenticare la diffidenza nei confronti dei poteri che sovente si affermano sacralizzandosi. Nell’ottica cristiana occorre essere consapevoli che il di più a cui giurare fedeltà è l’umano, considerato come espressione simbolica del valore di ciò che vive, sulla linea di quanto afferma Ireneo “La gloria di Dio è l’uomo vivente”. A questo umano bisogna guardare per ritrovare la radice del vivere comune, senza la quale la società contemporanea avrà modelli sempre più disumanizzanti. La ricerca del successo, il mito del profitto, il vezzo del definirsi come fatti da sé, la competitività assunta a metro di giudizio sociale ed umano, le categorie del denaro per definire il significato dell’esistenza…su tutto questo la Chiesa rischia di snaturare se stessa nel consentire, nell’assistere senza denunciare. Per questo, una Chiesa autentica si pensa come perennemente all’opposizione. Non sta ad essa esprimere soluzioni di governo: rischiando quello che Antonio Gramsci definiva “pensiero di seconda fila”, non propositivo, solo oppositivo, appunto, il suo compito è quello di essere “spina nel fianco della storia” (secondo la felice espressione del teologo Metz) con l’idea del Regno di Dio, capace di giudicare e stimolare le utopie umane spiritualizzandole. Si tratta di rendere conto del ruolo della fede nell’ipotizzare quanto affermava Charles Peguy: “la rivoluzione o sarà morale o non sarà”.
La Chiesa, quindi, dovrebbe considerarsi un osservatorio esigente e severo sul piano etico e sociale, all’insegna dell’attenzione alle necessità dei poveri, di coloro che soffrono disagio ed emarginazione, ad ogni titolo. Il papa Giovanni Paolo II che conclude l’ultimo Concistoro affermando che i poveri sono gli alleati principali della Chiesa in questo terzo millennio fa un’affermazione impegnativa, soprattutto per i membri della sua Curia. Il cardinal Sodano, Segretario di Stato del Vaticano, che presenta i desiderata della gerarchia cattolica ai candidati premier delle politiche del 2001 presenta ancora l’immagine di una Chiesa a proprio agio con i poteri forti, non del tutto incline a porsi nell’ottica della rinuncia ai privilegi per vivere fino in fondo la propria libertà di critica e di opposizione. Non sono così sciocco da affermare che bisogna rinunciare alla fatica della mediazione e della ricerca della comunicazione: la comunità cristiana può fare molto in tal senso a livello sociale. Ma occorre farlo ben chiarendo i presupposti di tali interventi, la collocazione a fianco delle classi sociali più disagiate e la ricerca di condizioni adeguate per il bene comune. Questi sono i presupposti di fondo della dottrina sociale della Chiesa: fondamentali e irrinunciabili. Dall’altra parte, il Berlusconi, “unto del Signore”, ben disposto a favorire le scuole private cattoliche, conscio del loro offrire strumenti di formazione quasi esclusivamente per la borghesia, o Bassolino, laico convinto (?), che bacia l’ampolla con il sangue di san Gennaro retta dal cardinal Giordano: questi non sono esempi che possono aiutare a chiarire i rispettivi ruoli tra comunità dei credenti e autorità amministrative. Gli eredi della tradizione liberale e di quella socialcomunista si ricordino di fare il loro mestiere, con le posizioni che conseguono alla loro identità culturale. La Chiesa ha bisogno di un confronto con un preciso progetto politico fino a diventare – se necessario – soggetto di contrapposizione, non di blandizie ipocrite. Nel nostro contesto storico, la cultura cristiana è minoritaria: non può riconoscersi né nella sinistra che ha subito il fascino della cultura radicale o rimane in un anticlericalismo viscerale né nella cultura della beatificazione del successo e della ricchezza del centrodestra. Meno ancora nei valori della destra postfascista “Dio, onore e Patria”. Il Dio in cui si riconosce Forza Nuova ha poco di cristiano. Ma il problema è che il centrodestra ha precisi rapporti con queste realtà politiche. Ed anche la Chiesa cattolica in diversi suoi settori.
In tutto questo non siamo stati aiutati dallo status apparentemente maggioritario della Chiesa, nonché dalla presenza del partito di ispirazione cattolica. Una bellissima battuta del teologo Enrico Chiavacci (“Guardino che la Democrazia Cristiana non fa parte dell’ecosistema”) illustra bene cosa era diventato per la società italiana questo partito. Il patto tacito negli ambienti ecclesiali era che, a parte rare eccezioni, si fosse tutti democristiani: di politica si parlava in fondo poco e comunque all’insegna di questo presupposto. Del resto la DC aveva al suo interno una destra tradizionalista e una sinistra in cui si riconoscevano gruppi cattolici molto aperti sul piano sociale. Chiuso il tempo dell’unicità del partito di ispirazione cattolica, è iniziata una deflagrazione partitica di cui non sembra accennarsi il termine: continuano a sorgere partiti che si disputano le sue spoglie ideologiche. E’ auspicabile che questo termine giunga presto. Come tutte le minoranze anche i cristiani dovranno fare le loro scelte: identificare delle mete comuni con altri non mortifica di per sé l’identità culturale, anzi. Rimane poi la prospettiva di un sereno senso di minoritarietà, che comprende il sentirsi marginali ma non per questo meno significativi o combattivi.

Il nodo immigrazione
Provo a fare il mio mestiere di esponente della Caritas diocesana parlando di immigrazione. La questione è stata al centro della campagna elettorale, anche se con toni un po’ più sfumati di quanto mi sarei atteso. Il centrodestra ha fatto una serie di affermazioni che adesso vogliono la verifica della fattività. A partire dai dati della volontà del proprio elettorato, per lo più decisamente avverso alla società multietnica, e delle esigenze dei poteri forti, gli industriali primi fra tutti, ad avere forza lavoro proveniente da paesi stranieri, il governo dovrà prendere delle decisioni che si prospettano di difficile conciliabilità. La conseguenza potrebbe essere l’approdo ad un modello di immigrazione di tipo tedesco. Flussi di ingresso controllatissimi, permessi  di soggiorno solo per motivi di lavoro, un generale scoraggiamento dell’immigrazione permanente con l’impossibilità, di legge o di fatto, al ricongiungimento familiare. A riguardo, ricordiamo che l’immigrato attraverso la propria famiglia migliora il proprio livello di inserimento sociale (attraverso la scuola, per esempio) e di benessere. La proposta – già fatta – di introdurre il reato dell’immigrazione clandestina con la possibilità dell’espulsione immediata porterà conseguenze pressoché nulle – il flusso di clandestini non può arrestarsi perché è frutto di un meccanismo demografico di tipo storico e non contingente – ma avrà introdotto un principio giuridico aberrante: sostenere che c’è colpa se si cerca di sfuggire ad un destino di miseria e di violenza è inumano, nonché contrario ad ogni principio del diritto. E’ affermare che si è criminali per la propria condizione umana e non per quello che si è commesso di male. Qualcosa di non molto dissimile alle leggi razziali promulgate dal regime fascista. Del resto, un’attitudine di fondo a questo tipo di pronunciamenti è genetico per il centrodestra. Un altro leader politico aveva proposto un contratto ai suoi concittadini.
“Il governo nazionale nell’arco di quattro anni spazzerà via la miseria dei contadini. Nell’arco di quattro anni eliminerà la disoccupazione. A questo colossale compito di risanamento della nostra economia, il governo nazionale unirà l’attuazione di un piano di risanamento dello  Stato, delle regioni e dei Comuni. In tal modo l’idea dell’assetto federativo dello Stato diverrà vigorosa e solida realtà. I partiti marxisti e fiancheggiatori del marxismo hanno avuto 14 anni a disposizione per dimostrare la propria capacità. Il risultato è un campo di rovine. Concedete a noi quattro anni di tempo, e poi giudicherete!”. Era Adolf Hitler, 1 febbraio 1933.
I tempi ci daranno responso sullo svolgersi di idee e processi storici e sociali. Proviamo a leggere questa fase della realtà del nostro paese allargando la prospettiva di lettura proprio su di un respiro storico, senza appiattirsi sul contingente, tenendo alto il livello della richiesta di verità e di giustizia. Si tratta di assumersi fino in fondo le responsabilità di fronte alla propria contemporaneità. Per la comunità cristiana il problema è quello della responsabilità nei confronti di quegli ultimi in cui il  Cristo volle riconoscersi.
Lorenzo Milani scrisse Esperienze pastorali con una dedica che solo a chi non ne conosce il pensiero può apparire scherzosa. Rivolgendosi agli ipotetici missionari cinesi venuti in Italia a rievangelizzarla dopo la scomparsa del cristianesimo, “un povero sacerdote bianco della fine del II° millennio” cerca di ricostruire i perché di tale scomparsa. In Esperienze pastorali si parla in realtà della crisi di un certo modello di cattolicesimo, per affermare con forza la necessità di un cristianesimo depurato da troppe scorie.
“Voi certo non vi sapete capacitare come prima di cadere noi non abbiamo messa la scure alla radice dell’ingiustizia sociale. E’ stato l’amore dell’“ordine” che ci ha accecato…
Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. E’ nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare…Quando ci siamo svegliati era troppo tardi. I poveri erano già partiti senza di noi…Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio. Saprà il Cristo rimediare alla nostra inettitudine. E’ lui che ha posto nel cuore dei poveri la sete della giustizia. Lui dunque dovranno ritrovare con lei quando avranno distrutto i suoi templi, sbugiardati i suoi assonnati sacerdoti.”
Così si conclude l’analisi di Milani. Al posto di De Gasperi aggiungete un altro nome e troverete uno dei pericoli più grandi che la Chiesa stia correndo in questo momento della sua storia. E non è solo un problema legato ad un nome piuttosto che un altro. La tentazione costante per la comunità cristiana rimane quella di rinnegare il suo autentico Signore piegando il capo di fronte a signori assai meno significativi.