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In memoria di Amos Elon, uomo libero e inascoltato
di Stefano Zani

Il ricordo di un grande scrittore e intellettuale ebreo rifugiatosi nella campagna toscana, dopo il polemico abbandono della cittadinanza israeliana

“A devotee of human rights but not overflowing with brotherly love.” (“Un devoto dei diritti umani ma non traboccante di amore fraterno”) Ari Shavit

Uno scomodo intellettuale ebreo
Lunedì 25 maggio 2009 moriva di leucemia in un paesino medievale della Valdinievole, nella sua amata e “civilizzata Toscana”, dove trascorreva da più di un quarantennio periodi di ritiro tra lunghi soggiorni in Israele e altri negli Stati Uniti, uno dei più grandi intellettuali ebrei, Amos Elon.
Amava il paesaggio toscano, che gli scioglieva il cuore e dal quale traeva grande conforto, soprattutto dopo l’abbandono polemico della cittadinanza israeliana nel 2004 per ritirarsi proprio nella sua casa toscana; abbandono che ha lasciato il segno in Israele quasi quanto i suoi sempre lucidissimi, penetranti e scomodi giudizi non ideologici sul sionismo e sulle politiche del proprio paese nei confronti degli arabi dei territori occupati nel 1967. Combattente spigoloso per l’affermazione dei diritti umani in Israele, non fece mai sconti a nessuno dei suoi, sebbene anche negli ultimi tempi abbia dichiarato di sentirsi israeliano essendo quella la terra nella quale per la prima volta aveva baciato una ragazza.
Nato a Vienna nel 1926 ed emigrato in Palestina nel 1933, dopo studi giuridici e storici svolti a Gerusalemme e a Cambridge divenne collaboratore del giornale liberal israeliano “Haaretz” dal 1950. Inviato come corrispondente a Parigi, Bonn e Washington, dove conobbe la sua futura moglie Beth, è stato autore di numerosi libri, almeno cinque dei quali tradotti e pubblicati in Italia, e di molti saggi. Collaboratore negli ultimi vent’anni di “The New Yorker”, di“The New York Times Magazine” e specialmente  di“The New York Review of Books” e autore di nove libri sulle vicende israeliane, sui rapporti arabo-israeliani, sul medioriente, sul sionismo, su Theodor Herzl, su Rotschild e sulla storia degli ebrei di Germania, tradotti in più lingue (lui scriveva e pubblicava in inglese, tedesco ed ebraico), le opere di Elon sono state fin qui sottostimate nel dibattito pubblico del nostro paese, fatta eccezione per una ristretta cerchia di specialisti. La sua morte è stata riportata e commentata dai giornali di tutto il mondo. Di lui voglio fare una commemorazione puramente personale.

L’occasione perduta
La notizia della morte di Amos Elon mi è giunta attraverso un  amico, Sergio Sammicheli, docente, come me, di Storia e Filosofia di liceo e mi ha profondamente addolorato. Gli avevo prestato la versione italiana di Gerusalemme, città di specchi, in occasione di una sua recente visita in Israele. Rendendomelo, mi aveva confermato che è un libro bellissimo. Il libro lo avevo comprato dopo che un altro amico, Lodovico Grassi,  allora direttore della rivista “Testimonianze”, me ne aveva fatto un elogio così importante da convincermi ad acquistarlo. Era il 1990. Ricordo che gli dissi che io Amos lo conoscevo personalmente fin dalla fine degli anni sessanta e che forse avremmo potuto anche invitarlo in redazione a presentare e discutere il suo libro. Riemergeva così per me dopo tanti anni la rilevanza di Amos, stavolta però dal versante della sfera pubblica, e non da quello della sfera privata, attraverso la quale la sua notorietà mi era già nota, sebbene assolutamente incompresa data la mia giovane età. Attraverso mia madre recuperai il suo numero di telefono; lo feci chiamare dalla redazione, ma la sua risposta fu negativa; no, non sarebbe venuto a presentarlo.
Chissà, forse se lo avessi chiamato personalmente, ho spesso pensato, si sarebbe ricordato di me, e forse avrebbe accettato. In quel momento ebbi la sensazione dell’occasione perduta. Tuttavia nella mia fantasia ho ancora continuato a lungo a coltivare l’idea, ignorando l’inesorabile scorrere del tempo, che vi sarebbero state altre occasioni di incontro, stavolta finalmente con la piena consapevolezza su entrambi i versanti, pubblico e privato, del valore della persona, del suo spessore non ostentato, direi quasi intenzionalmente tenuto al riparo da una sfera pubblica troppo impegnativa ed esposta per permetterle di non essere compensata da una vita privata del tutto appartata e schiva. Al dolore per la sua morte si è così andato ad aggiungere il sentimento dell’irreparabilità rispetto alla speranza, un giorno, di incontrarsi di nuovo e finalmente riconoscersi e trasformare un rapporto di semplice frequentazione in uno consapevole e pienamente personale.
Tra siepi di rovi, ulivi, fichi e peschi
Il suo ruolo pubblico mi era noto fin da quando avevo incontrato gli Elon, nella prima adolescenza; spesso a casa si parlava delle presentazioni dei suoi libri e della sua fama; notizie attinte da Beth attraverso mia madre, con la quale spesso si intratteneva quando Dana, la bellissima figlia (più piccola di sei anni rispetto a me), era in piazza a giocare con me e con gli altri ragazzi del paese; spesso anche di sera, dopocena, quando dopo una giornata di calura estiva la gente si ritrovava a prendere un po’ di brezza rigenerante. Non che vi fosse gran bisogno di sorveglianza, data la difficile accessibilità alle auto della piazza, situata sul cocuzzolo di una collina sulla quale, in un costruito naturale risalente al pieno medioevo, si stagliano una meravigliosa chiesa romanica e un palazzo pretorio appena successivo, quasi a simboleggiare, nello spazio pubblico e già in epoca di compromissioni temporali della Chiesa, al tempo stesso la distinzione tra potere spirituale e temporale già annunciata dal Nuovo Testamento (“Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e il loro rivaleggiare.
La casa degli Elon si trova appena al di là della piazza, superati gli scalini della breve rampa che dà accesso all’ingresso laterale destro della chiesa lungo il quale si ridiscende a ripide volte giù a sinistra lungo un sentierino tra la chiesa e il palazzo pretorio fin sotto l’alto contrafforte dal lato della facciata della chiesa, che si erge a dominare verso Ovest una magnifica vallata e il cui orientamento è tale da puntare con l’abside verso Gerusalemme. E’ dopo aver costeggiato un piccolo orto che il viottolo porta senza recinzioni o elementi di salvaguardia di alcun tipo, fatta eccezione, a suo tempo, per la guardia di un cockerino nero sempre festoso, a un rustico incassato a ridosso dei bastioni che sorreggono la chiesa in corrispondenza dei sotterranei del convento adiacente ad essa. Un rustico restaurato tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, ottenuto da una vecchia casa contadina e restituito a uno splendore semplice di un gusto ridente. La casa si trova in un angolo appartato e protetto del paese, e volge le spalle alla chiesa, ma sui restanti tre lati è in aperta campagna, collocata immediatamente fuori dal costruito che delimita il paese sul lato ovest al termine di un’erta e verde circonvallazione non frequentata da nessuno e che permette, volendo, di raggiungere la casa dal fondo del paese che si erge sulla collina ripida senza attraversare l’abitato.
Il panorama di lì si apre su una vallata silenziosissima, se nei mesi estivi non fosse per l’ininterrotto frinire delle cicale che dà il senso di una dimensione totalmente altra rispetto all’atmosfera cittadina e mondana; lo sguardo scende rapido attraverso i greppi di un ripido pendio tra siepi di rovi, ulivi, fichi e peschi, a ricordo delle generazioni di contadini che hanno popolato quelle zone fino all’inizio degli anni sessanta. In fondo alla valle scorre un torrente, il cui gorgoglio si può distintamente udire in lontananza. Risalendo con lo sguardo verso l’alto si sale per boschi su un’ampia collina boscosa su cui si distinguono la chiesa e il campanile di un altro piccolo borgo medievale. Sullo sfondo il panorama si apre sulla Valdinievole, costellata di un luccichìo argenteo che sembra costituire un insieme di specchi d’acqua, che altro non è in realtà che l’effetto delle serre delle coltivazioni vivaistiche. Questo è il paesaggio che per tanti anni ha contrappuntato la vita di Amos tra un periodo trascorso in Israele e uno negli Stati Uniti e di cui lui parla nelle ultime interviste come del suo ultimo rifugio dopo il definitivo abbandono della cittadinanza israeliana nel 2004. “Sono stanco, aveva detto, di ripetere sempre le stesse cose da quarant’anni, inascoltato”.
Amos compariva spesso al termine delle serate, a richiamare Beth e la bambina, e si soffermava a parlare del più e del meno, le mani in tasca dei pantaloni, assolutamente rilassato e tenero, sorridente. Per me è stato a lungo un semplice vicino di casa durante le vacanze estive per tutti gli anni della mia prima adolescenza, il padre tenerissimo di una compagna di giochi e il marito schivo e tenero di Beth; un uomo socievole, tranquillo, bonario e al tempo stesso geloso della sua tranquillità.
Quando lo avevo a portata di mano ero troppo giovane e incosciente; quando l’ho riscoperto come un grande intellettuale era passato un periodo di almeno quindici, venti anni, durante il quale, pur avendo passato la vita in mezzo ai libri e attraverso i libri, avevo totalmente ignorato la sua grandezza.