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Il paese “iperpolitico” del tempo che fu
di Paolo Franchi

Crisi di leadership, deficit di rappresentanza, vuoto di sovranità: sono i sintomi di una profonda crisi della politica che affligge la realtà italiana e non solo. I partiti, incapaci di creare un’autentica «grande coalizione» per fronteggiare la crisi e di uscire dalle devastanti dinamiche interne, sembrano indirizzati verso un appoggio sempre più stanco e problematico al governo Monti in attesa della scadenza elettorale. Oltre l’evidenza dell’implosione del Pdl e delle lotte interne al Pd (i cui vertici paiono orientati ad una nuova alleanza con il centro moderato) è problematico prefigurare quel che verrà, in una stagione politico-sociale ed economica verosimilmente ancora tempestosa.

Della difficoltà di «fare profezie»

Temo che per rispondere compiutamente alla domanda formulata da «Testimonianze» servirebbero capacità profetiche di cui purtroppo non dispongo. Sono un giornalista politico di lungo corso. Cercare di individuare le linee di tendenza, analizzare le possibili evoluzioni, prefigurare i possibili scenari politici prossimi venturi è stato per trentacinque anni e passa il mio mestiere, e, seppure in modo diverso, lo è (o dovrebbe esserlo) ancora. Può darsi, naturalmente, che io sia rimasto attaccato, più o meno consapevolmente, a categorie desuete, e quindi non riesca a cogliere le novità che maturano. Anzi, sicuramente è così. Ma forse – forse – a fare pesantemente (e a mio giudizio drammaticamente) difetto è anche la materia prima necessaria a forgiare analisi e previsioni, e a disegnare scenari: in una parola, la politica.
Il problema non è solo italiano, ci mancherebbe. A livello europeo, e praticamente sotto ogni cielo nazionale, è possibile declinarlo in termini di eclisse delle leadership, di vistoso deficit di rappresentanza, di crescente vuoto di sovranità. O, più semplicemente, di crisi della democrazia. Ma il caso italiano ha una sua valenza, e forse una sua emblematicità, tutte particolari. Con la Francia, anche se in forme assai diverse dalla Francia, l’Italia è stata a lungo il paese più «politico» d’Europa. Anzi, un paese iperpolitico. La Francia iperpolitica lo è ancora, come testimoniano le dinamiche e il risultato delle presidenziali e delle stesse legislative. Oggi è il paese europeo politicamente più desertificato, più sprovvisto di qualcosa di simile a un discorso pubblico (Vendola direbbe: a una narrazione di sé, del suo passato, del suo presente, del suo possibile futuro). Forse è anche per questo, per un’inconsapevole nostalgia della politica più che per delle valutazioni di tipo istituzionale, che si è improvvisamente riacceso da noi, nelle forme strumentali che sappiamo, il confronto sulla possibile adozione anche in Italia del sistema francese: doppio turno e semipresidenzialismo, come sostiene, con delle ragioni di fondo che probabilmente non sospetta nemmeno, il centrodestra, o doppio turno e basta, come sostiene larga parte del centrosinistra. Non se ne farà con ogni probabilità nulla o quasi. E per un motivo elementare. Su piazza non si intravedono né un De Gaulle, né delle forze politiche in grado di ragionare insieme su un possibile, nuovo compromesso democratico. Di più. Qualche anno fa giustamente si protestava («Porcellum» docet), ma il discorso potrebbe risalire molto più indietro, perché, su questo decisivo terreno, i soggetti in campo coltivavano, invece che ambizioni d’ordine sistemico, veri o presunti interessi di natura partigiana. Bei tempi. I partiti della cosiddetta Seconda Repubblica (soprattutto il Pdl, si capisce, ma non solo il Pdl) sono ormai così malmessi da non essere più nemmeno in grado di stabilire quali potrebbero essere, i loro interessi partigiani.
Probabilmente non abbiamo nemmeno provato a tematizzare con un minimo di rigore quel che è capitato sul finire del 2011, anno diciannovesimo della «rivoluzione italiana» che, secondo le cronache dell’epoca, liquidò la Seconda Repubblica o, quanto meno, la sua frazione regnante. Una transizione infinita verso non si sa esattamente che cosa si è conclusa nel modo più devastante. Nel pieno di una tempesta economica e finanziaria senza precedenti, con un Paese letteralmente sull’orlo del baratro, Berlusconi, che ha governato per nove degli ultimi undici anni, ha dovuto alzare bandiera bianca. Disponeva, all’inizio della legislatura, della maggioranza più vasta della storia repubblicana, espressione, pareva, se non proprio di un blocco sociale, di qualcosa di più che un blocco elettorale; e sembrava esercitare qualcosa di simile (il berlusconismo) a un’egemonia. Strada facendo, il suo governo ne ha perso pezzi rilevanti (la secessione finiana, e non solo), riducendosi al lumicino ma senza mai divenire, in Parlamento, minoranza. Se si è arreso, non è per via di qualche complotto del Quirinale e/o dei poteri forti, ma per il semplicissimo motivo che non era letteralmente in grado di andare avanti. Altrove, nonostante lo spread, magari si sarebbe andati a votare (le elezioni, si sa, sono l’ultima risorsa della politica), come è capitato, anche se, a dire il vero, senza risultati apprezzabili, in quella Spagna che ci è sorella di sventura, e nella stessa Grecia. Oppure si sarebbe formata, in nome dell’emergenza e della salvezza nazionale, una grande coalizione politica.

Il capolavoro di Napolitano e la «strana maggioranza» di Monti
Da noi ambedue queste strade, in un certo senso fisiologiche in democrazia, si sono rivelate subito impercorribili, roba utile, al massimo, per qualche dichiarazione in Transatlantico o per qualche commento sui giornali. Alle elezioni non si poteva andare perché il centrodestra non avrebbe retto la prova e perché il centrosinistra, in versione foto di Vasto o in concorso con una parte almeno dei centristi, forse (forse) avrebbe anche potuto vincerle, ma di sicuro non avrebbe saputo poi reggere la prova della guida del paese. Se la posta in gioco è il governo, si può decidere di contendersela nelle urne o, in circostanze straordinarie, di dividersela in una grande coalizione: le democrazie, seppure in difficoltà, funzionano secondo questa banalissima regola. Che però salta in partenza se nessuno dei contendenti vuole, sa o può governare, in alternativa all’avversario o in concorso con questo.
E’ in questo contesto che nasce il governo Monti, un capolavoro politico del presidente Napolitano, e solo in questo contesto se ne spiega la piena legittimazione democratica, che non deriva unicamente dal rispetto delle procedure, e dal fatto che a questo governo una maggioranza parlamentare, assai vasta ancorché «strana», ha votato e, almeno sin qui, continua a votare la fiducia. Le elezioni anticipate si prospettavano come un’avventura non tanto e non solo perché i mercati non ci avrebbero consentito di danzare impunemente per qualche mese sull’orlo dell’abisso, ma perché non avrebbero fornito, per i motivi sopra sommariamente esposti e per altri ancora, una maggioranza e un governo al paese. Quanto alla grande coalizione politica, sono stati i partiti stessi, rifiutandosi per un motivo o per l’altro di entrare a far parte direttamente del governo, a sanzionarne l’impossibilità. Dunque, non restava via diversa dalla «strana maggioranza» di cui sopra. Ai partiti che ne fanno tuttora parte, Pd, Pdl, Udc, si presentavano due possibilità.

Come nella Marina britannica
La prima: sostenere, condividere e per quanto possibile condizionare su punti qualificanti l’azione di governo e, contemporaneamente, utilizzare questo non lunghissimo periodo di tempo (un anno e pochi mesi) per rimettere un po’ d’ordine ciascuno in casa propria e per condurre rapidamente in porto in Parlamento una serie di misure riformatrici (dalla drastica riduzione dei costi della politica al cambiamento della legge elettorale). La seconda: appoggiare Monti sempre più stancamente e di malavoglia, praticando soprattutto, come nella Marina britannica, il «diritto al mugugno», e ripiegandosi sempre più su se stessi, nella speranza (mal riposta) di trovare miracolosamente una via d’uscita dalla propria crisi. Inutile sottolineare che è stata questa seconda a prendere sempre più massicciamente, e irreversibilmente, corpo.
Ragionare in termini generali – generici sui «partiti» rischia, mi rendo conto, di essere fuorviante: anche in questa inedita vicenda, ciascun partito fa, insomma, storia a sé, come è del resto normale che sia. E dunque non c’è dubbio che l’epicentro del terremoto sia nel Popolo delle Libertà, l’unica tra le forze (si fa per dire) in campo di cui sia clamorosamente in discussione la stessa sopravvivenza, e riguardi in primissima persona Silvio Berlusconi. Il Pdl è infatti per costituzione un partito monarchico e «proprietario», nel quale (caso unico in tutto il mondo democratico) la leadership non è per definizione contendibile, e spetta semmai al Fondatore, se e quando reputi arrivato il momento giusto, indicare il Delfino: per lunghi anni, la competizione interna, quando c’è stata, ha avuto per posta la prospettiva di poter sedere alla destra del Capo, e la nomina di Alfano non è certo bastata a cambiare le cose. Non c’è da sorprendersi se il passo indietro (temporaneo?) di Berlusconi, e la successiva raffica di disastri elettorali, hanno creato le condizioni non di un confronto e magari di uno scontro sulla strategia, sulle alleanze e sulla leadership, ma di un’implosione. Non è stata certo la decisione di appoggiare Monti e il suo governo a creare questo concretissimo rischio, ma è altrettanto certo che l’appoggio, seppur malmostoso, al governo tecnico ha vistosamente accelerato la crisi del Pdl, tramutandosi in caduta libera dei consensi. Nasce qui, mugugni a parte, la tentazione berlusconiana di «tornare in campo», e di andare al più presto al voto. Magari non per vincere, ché questa pare al momento impresa impossibile, ma intanto per evitare la dissoluzione, e insomma per esserci. In quale forma, con quale nome, se come una sorta di partito o come un conglomerato di liste a vario titolo collegate, non è dato al momento sapere. A Berlusconi fanno difetto molte virtù, non certo l’inventiva. I ricorrenti «assaggi» effettuati in questa direzione tra maggio e giugno, lasciano presagire qualcosa di più della possibilità che il cavallo di battaglia di un eventuale Berlusconi «tornato in campo» sia, per dirla in due parole, l’uscita dall’euro, con tutto quello che ne conseguirebbe. Mentre scrivo queste righe, prima del Consiglio europeo di fine giugno, questa è ancora una prospettiva minoritaria nell’elettorato italiano. Tra qualche settimana, o tra qualche mese, non saprei dire.

Molto impegno e molta fatica
Quella del Pd, che non solo non rischia di implodere ma è anzi tuttora il primo partito italiano, è evidentemente un’altra storia. Abbiamo tutti la memoria corta, e certo non ci aiuta ad allungarla la folle leggerezza della nostra politica. Ma nel 2008, quattro anni fa appena, il Pd «a vocazione maggioritaria» di Veltroni aveva sfidato Berlusconi sul terreno non solo del bipolarismo, ma di un bipartitismo tendenziale, temperato (si fa per dire) di qua dall’intesa con Di Pietro, di là dall’alleanza con la Lega. Sembra passato un secolo. Berlusconi, che quella sfida la stravinse, è, seppure operosamente, a bordo campo; dello stato in cui versa il suo partito abbiamo detto; e non c’è più l’alleanza con la Lega, e forse nemmeno la Lega. Al posto di Veltroni, c’è Bersani; e il tempo dell’intesa (suicida, ma questo è un altro discorso) con Di Pietro pare definitivamente tramontato. Di più: l’addio a Di Pietro è il «prezzo» che con viva soddisfazione Bersani si dispone a pagare per stringere l’intesa con Casini (il famoso centro-sinistra con il trattino di cossighiana memoria) senza rompere con Vendola. E’ difficile dire adesso se questa prospettiva si concretizzerà. Ma è l’unica prospettiva ragionevole che Bersani ha a disposizione: non credeva al miraggio del bipartitismo quando sembrava all’ordine del giorno, non ha alcuna intenzione di lasciarsi trascinare nella rovina del medesimo. Dovrà imporla nelle primarie, e non sarà facilissimo. Ma soprattutto, si voti a ottobre o in primavera, con questa legge elettorale o, come sarebbe sacrosanto, con un’altra, dovrà riuscire a farla vivere, e a farla condividere dalla maggioranza degli italiani, in una stagione che si annuncia economicamente, socialmente e civilmente a dir poco tempestosa, forse drammatica; ben più favorevole a tutti i grillismi (o peggio) di questo mondo che alle strategie e alle tattiche più classicamente «politiche». Le variabili, molte delle quali a tutt’oggi imprevedibili, sono pressoché infinite. Forse troppe per una politica che gira da troppo tempo a vuoto, senza produrre idee e senza suscitare passioni (anzi, evocando solo feroci sentimenti di ostilità nei propri confronti) e per un Pd che è palesemente pochissima cosa, rattrappito com’è in una contesa tanto furibonda quanto mediocre tra i suoi quasi vecchi e i suoi quasi giovani. La speranza è l’ultima a morire. Ma ormai, anche per sperare, servono molto impegno e molta fatica.