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Il nazionalismo una tigre di carta?
di Rodolfo Ragionieri

Il 1992 fu l’anno delle speranze per la fine della guerra fredda e delle grandi paure per la stabilità internazionale, e specialmente europea, dovute al conflitto nella ex Jugoslavia del quale si temeva una drammatica escalation. Così non fu, fortunatamente, per due fattori importanti: la forza dissuasiva del drammatico esempio jugoslavo e la capacità di attrazione dell’Unione Europea. Oggi, rispuntano nuove istanze nazionalistiche e separatiste che pongono all’ordine del giorno problemi di notevole complessità, pur se meno devastanti di quelli di un tempo.

 

Grandi speranze e terribili conflitti

Negli ultimi mesi del 1992 il mondo era varcato da grandi speranze e anche da terribili conflitti. Le speranze erano legate non solo alle prospettive di pace globale date dalla fine della guerra fredda, ma anche da una possibile estensione della democrazia e del rispetto dei diritti umani, e in Europa, a un rafforzamento e un ampliamento dell’Unione Europea (UE), che veniva ad assumere questo nome con il Trattato di Maastricht. I conflitti, che già erano esplosi con ferocia non prevista nei Balcani, li vedevamo legati soprattutto a forme di nazionalismo virulento che sembravano serpeggiare in tutta l’Europa centro-orientale, balcanica e nei paesi della allora da poco disciolta Unione Sovietica. Il conflitto di dissoluzione della Jugoslavia si era bloccato in Croazia, ma stava dilagando in Bosnia. Un’eventuale escalation in Kosovo e in Macedonia poteva preludere a una guerra balcanica, se non europea. Inoltre, il problema delle minoranze ungheresi in Transilvania e in Ungheria sembrava un altro possibile detonatore di conflitti armati destabilizzanti. L’unificazione tedesca e la molteplicità di movimenti di estrema destra in Europa centrale e centro-orientale seminavano inquietudine se non paura.

Comunque, alcuni incubi prendono forme diverse da quelle immaginate. Molti pensavano che la crisi jugoslava, come era iniziata in Kosovo, così in Kosovo sarebbe finita. E tale previsione si dimostrò del tutto centrata. Questo era però, anche, l’incubo dell’Europa, in quanto si pensava che la presenza di una maggioranza albanese avrebbe provocato un’escalation orizzontale, che prima avrebbe coinvolto l’Albania, successivamente la Macedonia e la Turchia, innescando così una guerra balcanica generale che avrebbe potuto fondere in un unico conflitto Balcani, Caucaso e Asia Centrale a causa dell’allineamento tra stati cristiano-ortodossi da una parte (Jugoslavia/Serbia, Russia, Grecia, in qualche modo Armenia), musulmani dall’altra (Albania, Kosovo, Turchia, Azerbaigian). Questo avrebbe spaccato anche l’UE, a causa delle tensioni tra stati più vicini alla Jugoslavia/Serbia, come la Francia, in qualche modo l’Italia e la Gran Bretagna, e altri invece più vicini alla Croazia, come Germania e Austria.

Al contrario, il Kosovo fu la fine e non l’inizio di un’escalation verso una guerra generale nei Balcani (e oltre). Indipendentemente dalle opinioni sulle operazioni NATO del 1999 e delle vicende successive del Kosovo, non si è verificato un allargamento della guerra. Al contrario, la presenza internazionale in Kosovo e Macedonia ha contribuito a fermare i tentativi dell’UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës, Esercito di Liberazione del Kosovo), e in generale dei gruppi armati albanesi, di promuovere un’insurrezione militare nella parte occidentale della Macedonia, dove vive la maggior parte della minoranza albanese in Macedonia. La presenza internazionale ha anche tenuto la Turchia al di fuori del conflitto. Dunque, anche se permangono i problemi di status del Kosovo e di assetto istituzionale in Bosnia, le fosche previsioni di una guerra balcanica generale, che sarebbe sfociata in un conflitto armato più esteso, si sono finora dimostrate sbagliate.

Un caso ancora più evidente è rappresentato dalle minoranze ungheresi in Romania, Serbia e Slovacchia. In Slovacchia, Transilvania (regione della Romania) e Vojvodina (regione della Serbia), tutte aree una volta comprese nel Regno di Ungheria, e secoli dopo nella parte ungherese dell’impero asburgico, vivono delle grosse minoranze ungheresi, che in alcune aree costituiscono la maggioranza. C’era una paura diffusa che, dopo la caduta dei regimi comunisti, i movimenti nazionalisti si sarebbero talmente rafforzati che la questioni della revisione dei confini fissati dal Trattato del Trianon (1920), confermati dopo la seconda guerra mondiale, sarebbe tornata di attualità. Questo avrebbe potuto, secondo le aspettative più pessimistiche, innescare una serie di tensioni intorno all’Ungheria che avrebbero potuto anche portare a un conflitto armato o quanto meno a una disputa militarizzata.

 

Due domande

Le previsioni di una guerra europea innescata dai conflitti dei nazionalismi si è dimostrata errata. Allora sorgono due domande. La prima è: perché? La seconda è: ma allora il nazionalismo è una tigre di carta?

La riposta alla prima domanda è molteplice, ma credo che consista in due fattori essenziali: la forza dissuasiva dell’esempio jugoslavo e la forza di attrazione dell’UE. La forza di attrazione del nazionalismo (e dell’etno-nazionalismo in particolare) nei momenti di crisi è spiegabile: infatti in tali situazioni richiama un’identità ben conosciuta fin dagli anni della scuola, comprensibile a tutti,  ma che allo stesso tempo offre un ruolo significativo agli intellettuali e alle classi dirigenti che se ne fanno portatrici. In particolare l’etno-nazionalismo fa riferimento a un gruppo incontaminato che rappresenterebbe nel modo più puro la propria comunità. Le ideologie etno-nazionaliste, infatti, tendono a costruirsi a partire dal mito di una comunità originaria, non sempre realmente esistita, e mai esistita nei termini nei quali viene descritta. Il ritorno a quella comunità costituirebbe la ricetta della salvezza. Questa storia può assumere i colori foschi della tragedia, come è stato il caso dei Balcani, e quelli invece della commedia, come è il caso italiano della Lega.

Se però un’identità etno-nazionale affermata in modo radicale ed esclusivo porta a conseguenze indesiderabili, allora la sua affermazione può restare forte nel mondo delle idee, ma stenta ad affermarsi in atti politici. Con questo voglio dire che permane l’attrattiva psicologica e culturale dell’identità particolaristica di tipo etno-nazionale, percepita come una difesa di fronte alle insidie della modernizzazione, ma che (ragionevolmente) se ne paventano le conseguenze estreme sul piano politico.

Il perseguimento di politiche ispirate da identità etno-nazionali in modo radicale e senza compromessi ha determinato, infatti, tra gli anni Ottanta e Novanta in Jugoslavia e nella maggior parte dei paesi successori, una serie di conseguenze (guerre, stragi, violenze, distruzioni, espulsioni e deportazioni, perdite umane ed economiche, marginalizzazione politica) che hanno visto tutti perdenti, e probabilmente quasi nessuno vincitore. Anche i partiti nazionalisti che qua e là sembrano a volte dominare la scena hanno ben poco da rivendicare a proprio merito, se non sventolare uno straccio di bandiera identitaria e assicurare una carriera politica e posti di vantaggio economico ai propri dirigenti.

A questa forza dissuasiva dell’esempio jugoslavo si è affiancata l’innegabile capacità di attrazione dell’Unione Europea. Questa non consisteva soltanto nei fondi strutturali, nella politica agricola o nell’inserimento in un mercato continentale, ma anche nel sentirsi parte (o meglio, di nuovo parte) di un qualcosa, appunto la cultura europea, da cui si era stati tenuti forzatamente separati per oltre quaranta anni. Possiamo quindi forse dire che tra la volontà di affermare la propria esclusiva identità, anche contro tutti, e quella di sentirsi parte di una cultura europea e occidentale, quest’ultima ha per fortuna prevalso in gran parte dell’Europa centro-orientale. D’altra parte essere ammessi a questo club implicava proprio la rinuncia a politiche interne ed internazionali dettate da un programma di tipo nazionalista. Entrare in Europa, secondo quanto dettato dalle condizioni decise al Consiglio di Copenhagen (1993) non implicava soltanto rinunciare a qualsiasi programma irredentista e accettare i confini esistenti (cosa non facile da accettare per alcuni nazionalisti ungheresi), ma anche garantire democrazia, rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Questo non solo ha bloccato rivendicazioni pericolose, ma ha anche sostanzialmente migliorato la condizione di minoranze come appunto quelle ungheresi in Slovacchia e Romania o quella turca in Bulgaria (il cui partito addirittura ha spesso fatto parte delle coalizioni di governo). Bisogna anche dire che in paesi come la Repubblica ceca, la Polonia, e anche l’Ungheria (nonostante le vicende recenti e il passato autoritario) una cultura politica di tipo democratico è sicuramente più presente rispetto ai Paesi dei Balcani.

Atteggiamenti nazionalisti di nuovo sulla scena

La risposta alla seconda domanda credo debba essere meno perentoria. Da una parte infatti, come abbiamo visto, le previsioni più fosche non si sono avverate. Dall’altra però il fatto è che si è avuta una ricomparsa di atteggiamenti di tipo nazionalista, oppure più attenti alla politica nazionale, non solo nell’Europa centro-orientale, ma in tutta l’Unione Europea. Tale ricomparsa si ammanta di varie bandiere: quella della «legittima difesa degli interessi nazionali», quella della difesa della sovranità popolare contro la burocrazia di Bruxelles, e infine quella di movimenti regionalisti di vario tipo, che non a caso si sono federati a livello europeo, pur nella differenza delle ispirazioni.

Iniziamo dunque dal primo punto. Le classi dirigenti nate dopo la guerra spesso non condividono il sentimento delle prime generazioni che hanno costruito l’Europa, da quella di Schuman, De Gasperi, Adenauer, passando per Brandt, Schmidt, Giscard, Mitterand, fino a Kohl e Delors. Anche in Italia l’importanza della costruzione europea è stata condivisa da personalità di orientamento diverso come Andreotti, Moro, Craxi, Berlinguer, e infine il presidente Napolitano, mentre generazioni più recenti, specialmente nel centro-destra, non sempre hanno condiviso questo entusiasmo. Questa carenza si è fatta soprattutto sentire nella leadership francese e tedesca, che avevano sempre costituito il motore dell’integrazione europea. A differenza dei suoi predecessori, cristiano-democratici e socialdemocratici, Angela Merkel non ha saputo o voluto porsi alla testa di un nuovo stadio di integrazione politica, come probabilmente era nelle intenzioni di chi aveva progettato l’unione monetaria, ma ha saputo soltanto accodarsi alle paure miopi del proprio elettorato e ai dettami dei tecnici della Bundesbank. Meglio non parlare della leadership italiana di centro destra, parte del Partito Popolare Europeo, dunque in teoria (ma non in pratica) erede della lezione degasperiana.

Anche i dirigenti dell’Europa centro-orientale succeduti alla prima generazione del post-comunismo si sono distinti per euro-scetticismo: si è passati, per esempio, dall’ampiezza di visione di Vaclav Havel al ben più scialbo Vaclav Klaus, e a posizioni come quella del primo ministro magiaro Viktor Orbán, che ha dichiarato di non credere nell’UE, ma di credere nell’Ungheria. Orbán ha inoltre promulgato una serie di riforme che vanno nel senso di un controllo dell’esecutivo sui vari poteri dello Stato e una Costituzione dai toni nazionalisti e tradizionalisti. Questo ci porta alla seconda reazione, che potremmo definire populista, e che spazia in movimenti e partiti di tipo diverso. Questi vanno infatti oltre la doverosa critica al deficit democratico dell’UE, per attaccare in sostanza lo stesso progetto europeo, che viene considerato (con visioni di tipo complottistico) controllato e gestito dalle grandi banche e da oscuri gruppi di pressione.

Infine, venti anni dopo le guerre iugoslave, di fronte alla crisi economica ed istituzionale europea, sembrano riemergere inoltre le volontà (o velleità?) separatiste di alcune regioni europee occidentali: la Scozia, la Catalogna, Euzkadi, le Fiandre. L’idea di un referendum per l’autodeterminazione potrebbe anche attecchire in Sardegna.

Questi processi pongono all’Unione Europea problemi del tutto diversi rispetto a quelli posti dai conflitti jugoslavi e dai nazionalismi centro-europei. Infatti, venti anni fa l’UE aveva a che fare con rischi di guerra al suo esterno, e quindi il suo problema era di mettere sotto controllo tali conflitti mediante l’integrazione e la forza di attrazione. Attualmente, invece, il problema sarebbe forse meno pericoloso, ma istituzionalmente problematico in quanto si tratterebbe, qualora i secessionisti vincessero, di scegliere tra ricostruire una cornice istituzionale per territori già presenti sotto altro titolo nell’Unione, non accoglierli oppure accoglierli attraverso una lunga trafila. Tutte queste possibilità sono costellate di trappole che potrebbero fortemente indebolire il già vacillante progetto europeo.