cina2 Il gigante in movimento: realta’ e stereotipi di Andrea Giuntini

Oltre i luoghi comuni
Tutte le volte che capita di leggere o di sentir parlare della Cina, si rischiano due sentimenti contrapposti, ma altrettanto pericolosi. Per un verso è così facile cadere nella rete del suo fascino, stordirsi di fronte al canto delle sirene del possente moto di cambiamento; per l’altro non ci vuole nulla a farsi travolgere dall’ansia di finire stretti in un angolo per l’incedere minaccioso del gigante.
Abbondano i luoghi comuni, in troppi ricamano sugli stereotipi di cui l’immagine cinese prevalente è infarcita, si tende a far leva su dati impressionistici piuttosto che su una conoscenza piena di quanto sta accadendo. Si impone, presso la gran parte degli osservatori, come un dato da non mettere neppure in discussione, una vulgata che non rende affatto la realtà delle cose. Colpiscono aspetti e fatti eclatanti, ma spesso riduttivi, che ora attirano ora spaventano, ma che comunque distorcono. Il valore e la portata della grande trasformazione non si colgono attraverso il racconto macchiettistico di anomalie e peculiarità rispetto al nostro stile di vita.
La strada da percorrere evidentemente è un’altra. La barra del timone va puntata diritta verso la messa a fuoco dei grandi processi. E’ necessario andare al di là dell’elemento di contorno, colorito ma di scarsa prospettiva, a favore della comprensione delle questioni di fondo e di lungo periodo.

Un risveglio
Quanto si dice a proposito di un risveglio della Cina, piuttosto che un debutto, è fondamentalmente vero. L’ammonimento napoleonico a proposito del gigante che dorme trova piena conferma nella storia dei secoli passati.
La Cina a lungo ha occupato una posizione di eccellenza nel panorama mondiale, primeggiando in una pluralità di settori, tanto nella scienza e nella tecnica quanto a organizzazione amministrativa, sociale ed economica. L’apogeo della civiltà cinese sul piano economico e tecnico si colloca fra il XII e il XIII secolo. La forte espansione commerciale e urbana venne sostenuta dall’agricoltura in crescita.
Il lungo isolamento a partire dal XVI secolo – coincidente in pratica con l’apertura ai traffici commerciali del Nuovo mondo – la tenne distante dalla grande ondata di industrializzazione, ma non per questo le sue potenzialità sono andate perdute. La Cina era un grande paese quando ancora buona parte dell’Europa stentava a sopravvivere e oggi non ha fatto altro che uscire da un letargo secolare e recuperare il terreno perduto.
Al di là di ogni enfasi retorica, affermare che stiamo vivendo un momento storico di portata enorme in termini di ribaltamento della prospettiva dominante, probabilmente non si situa lontano dal vero. Il dibattito sul presunto declino europeo ci asfissia, mentre invece solo sparuti interventi hanno la capacità di leggere il cambiamento dalla parte di chi lo induce e non di chi lo subisce.
La verità è che stiamo assistendo alla più travolgente e ampia rivoluzione industriale della storia, che ridicolizza in termini quantitativi quella celebratissima sviluppatasi in Gran Bretagna fra Settecento e Ottocento. La potenza di fuoco dell’attuale processo di industrializzazione è incomparabile con quella di allora. Centinaia di milioni di esseri umani si stanno emancipando da un’atavica arretratezza per conquistare, per la prima volta nella storia dei propri paesi, una condizione di crescente benessere.
Si sta ripetendo un processo, che nella storia più volte ha avuto modo di manifestarsi: la sostituzione di paesi e aree guida con altri, che vincendo la concorrenza scalzano i precedenti. Prima il Mediterraneo, poi l’Atlantico e infine il Pacifico, la storia muta il proprio baricentro dello sviluppo e del predominio secondo grandi assi di riferimento.
Verrebbe da dire, dunque, che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. In definitiva il riassetto del potere su scala mondiale appartiene di diritto e di fatto alla storia dell’umanità. Quello che stiamo osservando giorno per giorno ci riguarda da vicino e ci obbliga al ruolo di probabili perdenti. Non solo, ma non è azzardato sostenere che la condizione di progressiva subalternità, cui siamo destinati, durerà nel tempo.
L’anno prossimo – affermano le stime – la crescita del Pil cinese conoscerà un parziale rallentamento, attestandosi al di sotto del 10%, velocità già toccata nei due anni appena trascorsi. Resta comunque un ritmo di crescita che dovrebbe più che quadruplicare quello ottenuto dall’area Euro, un ritmo che, secondo gran parte degli osservatori, il vecchio continente è destinato a non recuperare mai più. Alla luce dei fatti, non si vede come l’attuale trend possa essere ribaltato.

Comunismo, comunitarismo, sviluppismo
La Cina appare come un centauro dai tratti inesplicabili agli occhi di noi occidentali. Ci sembra fuori da ogni logica che un paese, avviato sulla strada di un capitalismo tanto dinamico da parere perfino selvaggio, possa ancora issare la bandiera rossa e dichiararsi comunista. Lo storico binomio democrazia-sviluppo economico, in cui l’Occidente non ha mai smesso di credere, si sgretola dinanzi all’avanzata cinese. Viene meno uno dei pilastri, su cui i paesi capitalisti hanno costruito le basi per la propria potenza.
In realtà la cultura cinese privilegia i diritti economici a quelli politici e civili e non si riconosce nella logica del progresso. Alla libertà dell’individuo è concessa una rilevanza meno accentuata di quanto viceversa non si affidi ai concetti di armonia della società, rispetto della comunità, degli antenati, della famiglia. In ultima analisi la prevalenza di un atteggiamento etico e improntato al pragmatismo sulla certezza del diritto fa scaturire come conseguenza logica il favore riservato a un regime politico autoritario. Il comunismo si configura come sistema ideale per congelare ogni velleità diversificante, garantendo al contrario un confortevole bozzolo, che permette e garantisce lo sviluppo economico guidato e controllato dallo Stato.
La gerarchia e il senso di appartenenza al gruppo diventano la bussola dei comportamenti improntati al conformismo. Il comunitarismo si afferma sull’individualismo di stampo occidentale e pone la famiglia al centro del quadro di riferimento. Democrazia ed eguaglianza possono anche mancare, l’essenziale è che non venga meno la coesione sociale.
Non trova spazio nessuna propensione al consumismo, preferito al risparmio e alla parsimonia. Al libero mercato non viene riconosciuto alcun valore, mentre le politiche dirigiste caratteristiche dello Stato sviluppista orientale interpretano al meglio un patrimonio di valori che si oppone frontalmente al contesto capitalista.
La diversità a questo punto risalta in maniera evidente. Che tale sistema si chiami ancora capitalismo, casomai con la connotazione di asiatico, conta poco. Quello che veramente risulta necessario è uno sforzo per calarsi in una realtà che di comune con la nostra ha molto poco e che per questo rischia di restare impenetrabile.

La prevalenza dell’economia
Detto questo, per quanto non tutto possa essere riassunto dall’economia stricto sensu, la questione di maggior impatto resta proprio quella economica. I dati relativi alla crescita – non soltanto in termini di velocità, ma anche rispetto alla struttura che la nuova economia sta assumendo – sono del tutto stupefacenti. La rapidità con la quale corre la Cina corrisponde, tanto per fare un esempio vicino a noi, a quella tenuta dall’Italia all’epoca del boom. Solo che si riferisce ad un paese incomparabilmente più ampio e promette di durare assai più di quanto fu in grado di fare il miracolo economico italiano.
La Cina gode di un vantaggio competitivo formidabile in quanto a costo del lavoro. In più la propria divisa risulta ancora ampiamente sottovalutata, nonostante le pressioni che americani ed europei operano costantemente. Ne consegue una situazione di competitività imbattibile, che permette ai prodotti cinesi di sbaragliare qualsiasi concorrenza sui mercati internazionali.
Il sistema economico cinese sta progressivamente maturando in chiave di modernizzazione. Superata la prima fase, durante la quale il vantaggio si misurava soprattutto nei beni a bassa intensità di capitale e tecnologia, a questo punto, acquisito il know how necessario, la Cina sta spostando il baricentro della propria produzione lungo una traiettoria che conduce dai settori a basso valore aggiunto e ad alta intensità di manodopera a quelli sempre più sofisticati. Questo muta radicalmente la prospettiva, che al contrario credevamo immutabile. In realtà i cinesi non sono più soltanto produttori di beni di scarso valore; oggi sono in grado di competere con successo crescente su una gamma di mercati sempre più ampia.
La ricollocazione strategica del paese passa anche attraverso la domanda internazionale di alcune materie prime, risorse delle quali il paese è in gran parte sprovvisto. La crescente domanda di fonti energetiche, petrolio in particolare, il consumo ineguagliato nel mondo di rame, carbone, cemento e acciaio, travolge i mercati di materie prime.
Le previsioni degli economisti sono convergenti. Nel giro di qualche decina d’anni la Cina avrà raggiunto e superato tutte le maggiori potenze economiche mondiali.

Non tutto è oro
Tutto quello che riluce non può sempre essere oro. Le contraddizioni, anche laceranti, non mancano. La Cina, nonostante il tasso di sviluppo formidabile, è ancora uno fra i quaranta paesi più poveri del mondo. Questo significa che le differenze economiche e sociali fra l’area costiera e le immense regioni interne scavano un solco profonde fino a far parlare di più Cine e non di una sola. La perdurante arretratezza di centinaia di milioni di individui rappresenta un elemento di debolezza indiscutibile. Così come va considerato un nervo scoperto la capacità di sostenere sotto il profilo ambientale un impatto talmente poderoso.
Un altro interrogativo ricorrente riguarda le tensioni sociali, che il salto industriale rischia di provocare. Non siamo in grado di prevedere la capacità di assorbimento da parte del paese di un vero e proprio terremoto. Sta di fatto che segnali di squilibri crescenti non mancano. Si pensi anche alla spinosa questione del dumping sociale, che gli occidentali cercano di contrastare, obbligando la Cina ad adeguarsi agli standard internazionali delle condizioni di lavoro.
Su un altro piano lo sconvolgimento in atto è altrettanto potente. Il fenomeno dell’inurbamento fa crescere il numero delle città e le riempie sempre di più: nel 1990 il 27.4% della popolazione cinese viveva in città, nel 2025 i cittadini saranno il 55%. Riuscirà a reggere il sistema sanitario, verrà impiantato un welfare state allargato, si concederanno protezioni sociali sufficienti per tutti?

Il sapore del trapassato
La globalizzazione sta cambiando gli assetti planetari. Il sistema bloccato della guerra fredda ha il sapore del trapassato. La Cina è al centro di questo ridisegno totale, sempre più imperniato attorno all’emergere del continente asiatico. Non ha senso nascondersi il timore del delinearsi, ancora sfumato ma nel giro di qualche anno sicuramente più nitido, di un confronto a tutto campo con gli Stati Uniti per la leadership mondiale. Forse prenderà la forma di un vero scontro di civiltà, secondo l’abusatissima immagine di Huntington, oppure si limiterà ad un riaggiustamento dei rapporti di forza in chiave di sicurezza. Sta di fatto che la resa dei conti con l’attuale maggiore potenza mondiale si sta profilando, anche se ancora al momento le relazioni fra i due grandi protagonisti oscillano fra collaborazione e conflitto.
Poi va valutato lo scacchiere asiatico in movimento. Con il Giappone prevalgono ancora i sussulti nazionalistici, anche se sottotraccia i due paesi rappresentano partner economici reciproci insostituibili. Sugli altri la Cina esercita una chiara egemonia economica, che copre per ora tentazioni di prepotenza politica. Infine bisogna considerare anche l’eterno problema di Taiwan, da cui nessuno vorrebbe partire per lo scatenamento di una guerra di vaste proporzioni, ma che pur tuttavia costituisce una spina nel fianco del pachiderma, a cui prima o poi potrebbe venire la voglia di scuotersela via di dosso.
L’Europa osserva con la paura di essere spinta sempre più ai margini e, quasi per esorcizzarla, disquisisce all’infinito sul carattere da considerare primario per la Cina, terreno di delocalizzazione o grande mercato sul quale riversare i propri residui prodotti, mentre una buona fetta di mondo ormai corre assai più velocemente. Mentre a Roma si dibatte animatamente, Sagunto viene conquistata con le armi; mentre ci si confronta dottamente sui connotati del declino, le dimensioni dell’economia cinese cominciano a superare una ad una quelle dei maggiori paesi europei, Italia compresa.

Capire la Cina
Il re è definitivamente nudo per tutti, ha poco senso nascondersi dietro a un dito. La Cina è questa, un gigante che si è svegliato e che non si farà arginare tanto facilmente nei suoi movimenti. Le dinamiche attuali sono quelle sommariamente descritte. Allora lo sforzo di comprensione si rende ancor più necessario. Capire la Cina diviene quasi una condizione di sopravvivenza.