putin Il cavaliere di bronzo di Mauro Martini

Sommarietto: Putin sembra oscillare tra pericolosi modelli del passato russo, ma solo se rinuncia a seguire le orme di Stalin o di Pietro il Grande o anche del meno noto Stolypin, potrà affrontare i problemi della Russia moderna.

Molti e fantasiosi sono stati, e continuano ad essere, i tentativi di definire Vladimir Putin, uomo e politico alquanto misterioso e sicuramente contraddittorio, senza per questo essere affascinante. Difficile capire che cosa unisca il villeggiante, che nell’estate del 2003 in una confortevole villa in Sardegna si costringe ad assistere ad una partita di calcio in televisione nella non celata speranza di vendere all’ospite un nuovo modello russo di aerei destinati allo spegnimento di incendi, al crudele combattente, che, ancora presidente ad interim, si spinge a celebrare il capodanno del 2000 in Cecenia per regalare pugnali affilatissimi ai militari dei corpi scelti ivi impegnati.

Tra il modello di Stalin e quello di Pietro il Grande

Un’iniziale attrazione nei confronti delle divise, da quella dell’aviazione e a quella della marina, ha fatto pensare a un ingenuo proposito di imitare il generalissimo Iosif Stalin, vale a dire il dittatore georgiano colto non nel suo periodo di costruzione e di consolidamento del potere, ma nella sua fase di legittimazione e di massimo consenso, quella seconda metà degli anni Quaranta che deriva direttamente dalla vittoria nella Grande guerra patriottica e segna la grande espansione verso occidente dell’impero sovietico. Ma Putin, leningradese di nascita e di formazione, ha governato con pugno di ferro e con coerenza estrema la grande operazione connessa alle celebrazioni del trecentesimo anniversario della fondazione della città di Pietroburgo. Si è trovato una proconsole di indubbie capacità e di enormi ambizioni, Valentina Matveenko, e a lei ha affidato come commissario presidenziale la regia di un anno, il 2003, che dietro ai vertici e alle parate ha visto uno dei più consistenti movimenti di risorse della Russia degli ultimi tempi. E, com’è ovvio, si sono sprecate le suggestioni in merito ad una reincarnazione di Pietro il Grande, lo zar che con ostinata volontà impose la nascita della nuova capitale su un acquitrino fino a quel momento foriero di morte. Dei modelli è meglio tener conto anche perché i risultati delle elezioni per il rinnovo della Duma del 7 dicembre 2003 e i sondaggi sulla corsa alle presidenziali del 14 marzo 2004 concordano nel dimostrare una cosa: al di là della persona, del cui autentico carisma è lecito dubitare, l’attuale inquilino del Cremlino è riuscito a costruirsi un solido blocco di consenso che va ben al di là della semplice costruzione di una rete di interessi. Né vale il richiamo alla facilità con cui si sostiene sia possibile “guidare” i risultati elettorali: una fiducia che per settimane si attesta tra il 78 e il 79 per cento non si spiega con una propensione dei sondaggi alla falsità. Ma è certo che nel caso di Pietro I il riferimento si limita al mito politico e non affonda più di tanto le radici nella realtà storica. Si avvicina la ricorrenza dei tre secoli trascorsi dalla prematura dipartita nel 1725, eppure lo zar riformatore, l’occidentalista per eccellenza è in Russia una presenza più viva che mai. Dal panegirico di Michail Lomonosov del 1755 al recente trionfo elettorale di Edinaja Rossija, il partito esplicitamente filoputiniano, non c’è riflessione sul destino russo che non debba fare in qualche modo i conti con la volontà devastatrice di quel modello così lontano e al tempo stesso così vicino. Poco più di cinquant’anni di esistenza terrena, dal 1672 al 1725 appunto, che progressivamente sono stati congelati in una rappresentazione sacrale, come se l’irruzione dell’impero zarista sulla scena europea fosse stata governata da una demiurgica lucidità. Il Pietro dell’immaginario collettivo resta pur sempre quello dei primi versi de Il cavaliere di bronzo di Aleksandr Puškin, l’uomo che solo sul limitare di un mortifero acquitrino già profeticamente intravede la città che riuscirà a imporsi sul mondo contro ogni sua strutturale fragilità. E nessuno si sofferma a riflettere più di tanto sull’altro Pietro che compare nel poema, il vendicativo cavaliere che si anima dal monumento del Falconet per scagliarsi malevolmente contro il povero innamorato affranto dall’annegamento della fidanzata in un’inondazione. Eppure basterebbe ricorrere a Lindsey Hughes, la studiosa britannica che meglio di chiunque altro conosce ormai il XVIII secolo russo e che di recente ha pubblicato un’avvincente biografia di Pietro il Grande, edita in Italia da Einaudi. O meglio, si è lanciata nell’impresa di riassumere in poco più di trecento pagine una complessa vicenda esistenziale perché consapevole dell’inevitabile distorsione cui lo zar viene sottoposto se letto solamente sullo sfondo delle grandi trasformazioni del periodo che nulla risparmiarono: politica, società, religione, cultura. Lo scopo del volume è quello di dare un giusto peso al Pietro generalmente liquidato come “privato”, al crudele uomo di grandi eccessi che giunse al punto di condannare a morte il figlio maggiore. Tutti elementi che la storiografia per così dire canonica, russa, sovietica e occidentale, non trascura certo, ma relega a funzione secondaria, e di scarso peso, della dedizione al dovere e di quella capacità di individuare e di vincere sfide fino a quel momento impensabili. La tesi di fondo della Hughes è invece che poco si capisca di Pietro senza tener debito conto della sua “anormalità”, della sua tendenza a ribaltare il mondo delle convenzioni, a viverlo ridotto a costante parodia. Si prenda uno degli atti più importanti del regno petrino, la promulgazione nel 1722 di quella tabella dei ranghi che avrebbe dato alla Russia quell’aspetto coercitivo raccontato nel secolo successivo da tanta letteratura. Ebbene, la tabella prende forma un paio di giorni dopo una visita al Collegio della sbornia, congrega di amici impegnati in messinscena di cerimonie religiose, presiedute da un principe-papa e da altri falsi uomini di Chiesa. Congrega cui spesso si affiancava una falsa corte, guidata in questo caso da un principe-cesare cui lo stesso Pietro prestava buffonescamente obbedienza. Se poi si considera che la definizione dei ranghi distrae Pietro il Grande da un lavoro di settimane nella messa a punto di fuochi d’artificio di nuova concezione, si capisce che l’imposizione del taglio della barba e l’obbligo di vestire all’occidentale, tanto per citare due tra i provvedimenti più clamorosi del regno, non sono le inevitabili bizzarrie di un riformatore a fronte di una società arretrata e restia da aprirsi al resto del mondo, bensì rappresentano i necessari tasselli di una grande rappresentazione del potere zarista del tutto originale perché pensata come parodia del potere fino ad allora esistito. Con unico protagonista Pietro, capace di governarla sia nei panni a lui cari di cavadenti sia in quelli gloriosi del vincitore del re di Svezia a Poltava. Si capisce ancor meglio la natura duplice della più duratura realizzazione petrina, quella città di San Pietroburgo che vive una lacerazione continua tra la sua forma ordinata e la sua natura ironica e selvaggia, sempre sul filo della dissacrazione di quei simboli e di quei valori che vorrebbe invece incarnare. Di sicuro Putin non ha alcuna intenzione di vedersi accostato a questo Pietro, al Pietro autentico della realtà storica che confligge con l’autorappresentazione ieratica del potere russo-sovietico.

Lo Stalin condottiero a tutela della sicurezza ha invece un’indubbia forza di suggestione sull’immaginario del cittadino medio post-sovietico. E non certo per nostalgia. A capire la natura di tale sentimento aiuta il Triumph, palazzo moscovita  che, con i suoi 250 e più metri di altezza, è l’edificio destinato ad abitazione più alto d’Europa, ma il cui successo è dovuto in realtà al fatto che esso è stato costruito a immagine e somiglianza di quell’ottavo grattacielo staliniano progettato e mai realizzato.  I sette grattacieli voluti da Stalin nel centro cittadino sono un fenomeno ben noto. Ancor oggi gli storici, e non soltanto quelli dell’architettura, si dannano nel tentativo di capire in che modo essi siano disposti sulla mappa cittadina e perché mai presentino quell’affascinante componente gotica. Ma è un fatto che la loro conformazione con la torre centrale e quattro blocchi ai lati, nel mentre tradisce il desiderio di competere con il Déco newyorkese degli anni ’30, impone alla capitale russa un’idea di confortevole solidità che avrebbe dovuto a suo tempo garantire l’intera Urss della sicurezza conseguita dal paese. Peccato che i sovietici dell’epoca, del tutto indifferenti alla destinazione perlopiù pubblica dei grattacieli (due alberghi, due ministeri, la sede centrale dell’università), abbiano finito per vedervi soltanto l’emblema del lusso e del privilegio riservato a una cupola di eletti. Non a caso Nikita Chruščëv, una volta arrivato alla segreteria del partito comunista, cancellò immediatamente il programma edilizio del suo ingombrante predecessore. Non in odio a Stalin, ma semplicemente perché demagogicamente convinto che l’Urss dovesse identificarsi in un’utopia ugualitaria, il cui simbolo furono gli alveari di appartamenti bicamere che dilagarono in periferia per dare una sia pur modesta abitazione a tutti. La corsa odierna alla conquista di un appartamento nel Triumph Palace, che esteriormente somiglia come una goccia all’hotel Ucraina o alla sede del ministero degli esteri, ha poco a che spartire con la nostalgia dell’epoca staliniana, come propendono ad affermare sociologi alquanto sbrigativi. D’altro canto l’età media degli acquirenti non arriva ai quarant’anni. E, quando vengono intervistati per far loro confessare il sapore d’infanzia che ritrovano nel varcare la soglia dei loro appartamenti in costruzione, si riferiscono non agli anni Quaranta ma agli anni Sessanta. Vogliono cioè restituire il sapore di un decennio in cui gli abitanti dei casermoni oltre la seconda circonvallazione della capitale scendevano con la metropolitana in centro e nei grattacieli staliniani, le “stalinki”, soprattutto i due riservati alle abitazioni dei vertici del partito comunista, vedevano il miraggio di una vita lussuosa che mai sarebbero riusciti a conseguire. Il fatto che oggi questa possibilità sia alla loro portata li estasia oltre ogni dire. E non sono pochi coloro che, pur di coronare il loro sogno, sono disposti a lasciare spaziosi appartamenti in pieno centro, situati però in edifici anonimi, privi delle suggestioni simboliche che l’”ottavo grattacielo” riserva ai suoi privilegiati inquilini. Putin ambisce a infondere nel suo elettorato e nella Federazione tutta il medesimo senso di sicurezza dell’icona staliniana, non di Stalin come protagonista concreto di ben concrete, e sanguinarie, vicende storiche, consentendosi anche una promessa di benessere e di ricchezza che alcune favorevoli congiunture dell’economia internazionale rendono credibile. In fin dei conti sono anni che i salari e le pensioni vengono pagati con una certa regolarità, senza i ritardi del periodo el’ciniano, e la fase elettorale è stata celebrata con qualche ritocco verso l’alto, cui si è sommato un leggero calo dei prezzi di alcuni generi di largo consumo. Tanto basta, soprattutto in provincia, per tornare a vedere in Putin la nuova incarnazione della figura paterna del potere russo-sovietico, dell’uomo che si prende cura dei suoi concittadini (forse più sudditi che cittadini), dello stratega che ha sempre davanti agli occhi l’interesse generale alla cui causa sacrifica se stesso (utile pretesto per chiedere agli altri di scarificare a loro volta gli interessi particolari). In questo senso la battaglia contro gli oligarchi si è rivelata uno strumento efficacissimo. E’ bastato lanciare la parola d’ordine del reintegro della ricchezza nazionale a scapito di chi ne aveva iniquamente approfittato negli anni scorsi per sommuovere sentimenti profondi del russo medio, insofferente dell’altrui arricchimento e soprattutto incapace di contemplare l’eventualità di una democrazia economica, a meno che per “democrazia” non si intenda la riconsacrazione dello Stato patrimoniale che Richard Pipes ha ampiamente descritto come elemento fondante della Russia.

… e il modello Stolypin

Con ogni probabilità l’autentico Putin va però ricercato in un discorso dell’8 luglio del 2000, una sorta di esame dello stato della nazione dal forte valore programmatico, considerato che si trattava della prima uscita istituzionale di un certo peso dall’elezione a presidente a pieno titolo, dopo i quasi tre mesi di interim, nel marzo precedente. E’ in quel discorso che compare con una esplicita citazione il nome di Pëtr Arkadievič Stolypin, il celebre capo del governo riformatore che nel 1906 raccolse la Russia sconvolta dalla rivoluzione dell’anno precedente e dall’infelice esito della guerra con il Giappone e tentò per un quinquennio di modernizzare il paese per renderlo omogeneo alle potenze europee. Stolypin è figura di riferimento che ha attraversato in maniera carsica il lungo periodo sovietico ed è immediatamente riemersa alla pubblica attenzione allorché negli anni Ottanta si è cominciato a ripensare a una grande riforma. Aleksandr Solenicyn ne ha fatto un personaggio chiave della sua Ruota rossa: non ha esitato a sfidare l’accusa di antisemitismo fissando nell’assassinio nel 1911 del primo ministro e ministro degli interni il punto di non ritorno che ha reso ineluttabile il ciclo rivoluzionario del 1917 (e siccome dell’assassino, Dmitrij Bogrov, un’intera linea storiografica enfatizza le origini ebraiche, non ci vuol molto a rilanciare la tesi mai sopita della rivoluzione bolscevica come esito ultimo di un complotto giudaico). Non vi è dubbio che Putin si ispiri nella sua azione di governo al modello di Stolypin, soprattutto per quel che concerne la ricerca della stabilità. D’altro canto gli estimatori del presidente russo, estimatori che non risiedono soltanto a Mosca, non mancano mai di sottolineare come gli ultimi quattro anni abbiano segnato il ritorno a una Federazione più stabile di quella el’ciniana. Concordare non è facile: la mancata soluzione della questione cecena ha reso la Russia un paese assai poco sicuro e, se si considera la successione degli attentati moscoviti dalla presa del teatro Na Dubrovke dell’ottobre del 2002 all’esplosione nella metropolitana del 6 febbraio 2004, si capisce come la capitale stia dando prova di una fragilità impensabile fino a qualche tempo fa. Non è questa la sede per ragionare sulle cause di tale stato di cose: molto probabilmente se, invece di perseguire la risoluzione militare della minacciata secessione della piccola repubblica caucasica, si fosse preferita una composizione politica del conflitto lungo la via intrapresa a Chasav-Jurt nell’estate del 1996, oggi l’intero Caucaso, e non soltanto quello del nord, sarebbe una regione più tranquilla. Ma è anche vero che, se non vi fosse stata l’esasperazione dell’incursione cecena in Dagestan nell’estate del 1999 e se soprattutto non si fosse data la possibilità della connessione alla guerra contro il terrorismo islamista internazionale a partire dal settembre 2001, Putin forse sarebbe ancora un oscuro anche se potente funzionario dell’amministrazione del Cremlino. Il punto è un altro: per molti motivi la democratizzazione immaginata da Stolypin si riduceva alla creazione delle premesse di una possibile democrazia attraverso l’introduzione del concetto di proprietà privata, in modo particolare della terra, e la costituzione di una società civile in grado di sentirsi pari e tener testa allo Stato imperiale. Quando Putin nel 2000 ha fatto sostanzialmente proprio il programma di Stolypin, non si è reso perfettamente conto del fatto che a un secolo di distanza quell’idea di democratizzazione era una condizione necessaria ma non certo sufficiente. L’ambiguità sta nel passaggio del discorso in cui il presidente russo parla della necessità di tenere insieme la responsabilità patriottica per il futuro del paese con le libertà civili. L’impressione è che la diffusione e il rafforzamento delle libertà civili prefigurino una società in cui a nessuno è delegata la “responsabilità patriottica” o viceversa che, laddove un uomo o un ceto politico continuano a sentirsi investiti della “responsabilità patriottica”, vi sia poco spazio per un autentico sviluppo delle libertà civili. A voler ripercorrere il primo mandato presidenziale di Putin, il quadro di insieme che se ne ricava induce al sospetto che al Cremlino si sia puntualmente preferito accentuare l’assunzione della “responsabilità patriottica” nel bene o nel male rinviando a un secondo momento l’attenzione all’altro polo e che in tal modo si sia privilegiata la suggestione staliniana a scapito di quella stolypiniana. Non che con Stolypin le cose siano andate bene: il generoso tentativo del primo ministro di allontanare la Russia dalle secche cui l’aveva condannata il regno di Alessandro III, su cui continuano a gravare pesanti ombre politiche malgrado i tentativi di nobilitazione che di recente si sono sprecati a partire almeno dal film Il barbiere di Siberia di Nikita Michalkov, quel tentativo è naufragato con l’assassinio del 1911 e l’eredità di Alessandro ha paralizzato l’impero fino a condurlo sull’orlo dell’abisso rivoluzionario. Anna Politkovskaja nel suo Cecenia. Il disonore russo, edito in Italia da Fandango, suggerisce un intrigante parallelo tra la Russia di Putin e quella per l’appunto di Alessandro III. A voler dar credito alla coraggiosa giornalista, si dovrebbe pensare che l’attuale presidente sogna di essere Stolypin ma del suo programma riesce a vedere soltanto singoli aspetti senza coglierne il disegno complessivo che consisteva nel fare dell’impero una monarchia costituzionale costretta a una crescente democratizzazione. Riforme radicali o tracciati di riforme radicali non producono però stabilità e, ogniqualvolta si tende a questo valore, la vocazione alla democratizzazione ineluttabilmente si appanna. A Stolypin riuscì di arrivare fino a una relativa stabilità con debole democratizzazione. Putin non esce dalla trappola di una stabilità senza sicurezza che di conseguenza vede nella democratizzazione piena più un ostacolo e una minaccia che una prospettiva da perseguire. Il rischio vero è la paralisi di ogni iniziativa e, a meno di non voler ripetere stancamente anche nel secondo mandato il copione ceceno per assicurarsi consenso e legittimità, Putin deve scrollarsi di dosso i modelli dietro cui si è riparato in questi anni e provare a essere finalmente se stesso. Altrimenti, anche se la cosa oggi sembra impossibile, sarà facile dimenticarsi di lui.