multietnico1   Contro la sindrome del riccio di Maurizio Bassetti

Sommarietto: Chiudersi in atteggiamenti intolleranti risulterà pericoloso, mentre la scommessa vincente è quella che mira a creare una società multietnica capace di armonizzare rispetto reciproco,  nuova cultura della sicurezza e diritti per tutti.

Il tema dei “migranti” si intreccia con una serie di problemi di varia natura, dalla tolleranza e convivenza con il diverso all’equilibrio nel mondo, dalla sicurezza alle relazioni interculturali. Non si può parlare di migrazioni senza addentrarci in un complesso di presupposti e conseguenze. E’ forse uno degli eventi più simbolici e connaturati al tempo presente, alla complessità del nostro mondo. Non può essere affrontato senza tener conto di una molteplicità di fattori ed altri eventi, e senza adottare una dimensione planetaria.

In questa sezione monotematica “Testimonianze” vuole suggerire alcune chiavi di lettura, dare alcuni stimoli per una riflessione ponderata sempre più necessaria, che sappia superare le polemiche e i pregiudizi e suggerisca valori e possibili percorsi [1].

Una figura che viene da lontano
La figura del migrante è sempre esistita, migrare fa parte  del codice genetico dell’uomo, è un’esigenza storica tra le più forti, nessuna civiltà ne è esente. La storia dell’Europa è una storia di migrazioni: dai popoli indoeuropei, ai Celti, ai Greci, ai Germani, ai Normanni, agli Arabi, fino ad arrivare ai secoli contemporanei con gli spostamenti recenti da regioni europee più arretrate ad altre più sviluppate e dall’Europa all’America. Esperienza emblematica è poi quella del popolo ebraico disperso nel mondo, capace di fondersi con una pluralità di altri popoli e pure di mantenere radici e tradizioni unitarie come ci ricorda Luca Zevi che ci propone, in uno dei saggi che seguono, nel caso ebraico quasi un modello per la soluzione dei drammatici problemi insediativi che il mondo contemporaneo si trova oggi ad affrontare.

A volte popoli che hanno dovuto emigrare si trovano poi ad accogliere immigrati  e a fare i conti con i problemi di tolleranza che prima rivendicavano per sé e che poi hanno difficoltà ad accettare per gli altri. Si fa fatica a rintracciare un popolo “puro” senza che abbia legami culturali ed etnici con altri popoli che si sono mischiati con lui. Il siciliano è erede dei Sicani ma anche dei Greci e dei Romani e poi degli Arabi, dei Normanni, degli Svevi, degli Angioini, degli Aragonesi… Guardando le vicende storiche si relativizzano i problemi attuali o meglio si dovrebbero affrontare con un’ottica diversa. Gli italiani sono stati per un secolo (da metà ‘800 fino agli anni 70 del  ‘900) emigranti e ancora sono milioni gli abitanti di origine italiana che vivono lontano dall’Italia (e hanno dovuto passare esperienze di abbrutimento a cui venne incontro Francesca Cabrini, la santa dei migranti, come ha ricostruito bene in un recente libro Lucetta Scaraffia recensito qui da Leonardo Ferri). Oggi si trovano ad aver dimenticato questo loro passato e a non capire chi viene in Italia, a pensare: “ma perché non rimangono nei loro paesi?” Questa non è che una memoria corta, ci sono film, anche non troppo lontani nel tempo, che mostrano quella situazione di emarginazione subita dagli italiani emigrati che ora gli italiani residenti fanno subire agli immigrati (basta ricordare il famoso Pane e cioccolata del 1974 con Manfredi sugli italiani in Svizzera o il recente sceneggiato Marcinelle di Rai Uno dove si vede la condizione degli italiani degli anni 50 in Belgio, malvisti e in alcuni locali esplicitamente non ammessi). In questa ottica atteggiamenti di disprezzo verso gli ospiti odierni (come chiamarli “Bingo Bongo”) sono veramente ottusi oltre che poco rispettosi. Sembrano ormai lontani i tempi in cui gli studenti iraniani o di altre nazionalità di paesi oppressi da dittature venivano accolti con grande solidarietà, come ci racconta il nostro amico iraniano Bijan Zarmandili, studente negli anni 60 nella Firenze di La Pira, di Padre Balducci, di Enzo Enriquez Agnoletti.

Oggi  l’intolleranza ha largo spazio. E l’intolleranza e la xenofobia non possono che essere inquadrate all’interno di atteggiamenti egoistici, di difesa rozza e superficiale dei propri interessi; sono reazioni tipiche del riccio che si chiude sotto i suoi aculei e non è capace di riconoscere interessi più generali e in ultima analisi più convenienti anche per sé. Siamo all’interno di pulsioni irrazionali e istintive, spesso però nascoste da coperture ideologiche ipocrite che riversano sulle “vittime” ogni responsabilità del rifiuto. Molti dei ragionamenti che vengono avanzati per escludere gli stranieri (sono delinquenti, noi vorremmo aiutarli ma loro sono tutti terroristi o non accettano le nostre regole ostinandosi a tenere il velo o a far festa in giorni diversi dai nostri…) fanno venire in mente il recente drammatico film di L. Von Trier Dogville dove si rispecchiano, in una situazione estrema, tutte le ipocrisie di una comunità incapace di accettare l’ospite che cerca rifugio presso di lei. E come nel film i cittadini di Dogville fanno della giovane rifugiata una loro schiava e prostituta attribuendo a lei ogni responsabilità di quello stato, fino a cacciarla quando risulta troppo scomoda, e vengono alla fine tutti puniti, così speriamo che alla nostra società, che tende a colpevolizzare con troppa facilità i nostri ospiti stranieri (si prendono le impronte appena arrivano quasi fossero già da considerarsi potenziali delinquenti) e a espellerli appena danno fastidio, non succeda qualcosa di simile entrando in un vortice di dinamiche distruttive difficilmente controllabili.

La necessità della regolamentazione
E’ certo che la presenza di numeri sempre più grandi di immigrati e in forti concentrazioni locali sia un problema organizzativo da non sottovalutare e chiudere gli occhi e contrapporre all’intolleranza una visione unicamente ottimistica ed “altruistica” non aiuta alla sua soluzione. Creare nuovi piani regolatori e disciplinare insediamenti e distribuzione dell’aree abitative e di lavoro, mantenere l’ordine e il rispetto delle regole, favorire l’integrazione tra autoctoni e stranieri dovrebbero essere nelle agende di tutte le amministrazioni, e il caso di Colle Valdelsa raccontatoci da Marco Spinelli o quello di Nonantola, descritto nel suo libro da Sergio De La Pierre e qui ricordato da Franco Campoli, sono esempi confortanti. Ma ogni azione politica locale risulta difficile se non è inquadrata in una legislazione adeguata e in una politica di fondo efficiente e lungimirante. Sono necessari accordi bilaterali con i paesi di origine degli immigrati, programmazioni dei permessi in funzione dei bisogni, facilità di regolarizzazione, strutture di accoglienza. Non si può pensare che il problema possa essere affrontato solo come un’emergenza di polizia (a cui affiancare se mai marina ed esercito) senza una pianificazione e un potenziamento delle strutture e delle forme dell’accoglienza. Come dice Luigi Mughini, nel suo saggio in questa sezione, è necessario che l’immigrato non debba essere accolto dalla polizia, come un delinquente, ma dalle pubbliche amministrazioni in accordo con le associazioni di solidarietà[2].

Cercare di impedire gli ingressi, ponendo ostacoli e limitazioni (come si è fatto con la legge Bossi-Fini) è una politica perdente e miope, che riproporrà presto la necessità di nuove sanatorie e creerà un aumento dei clandestini[3].

Le spinte alle migrazioni
Gli sbarchi di centinaia di migranti arrivati con mezzi di fortuna e a volte finiti tragicamente (morti di stenti su imbarcazioni precarie o soffocati in camion sigillati) non sono che il frutto delle difficoltà imposte dalla legge agli ingressi regolari e della mancanza di una programmazione e di accordi sui flussi a livello internazionale.

Il problema non può essere affrontato solo su scala locale o nazionale ma anche in base ad un piano internazionale in accordo con l’Unione Europea, l’ONU e i paesi terzi di provenienza.

Le migrazioni, almeno nelle forme che stanno avendo in questi ultimi decenni, non sono un evento disciplinabile a nostro piacere, sono causate da fattori complessi e globali. Sono forse uno dei fenomeni più legati alla globalizzazione del mondo contemporaneo. Infatti i movimenti di uomini di oggi sfuggono alle ragioni classiche di semplice ricerca di lavoro o di un luogo dove risiedere e sono invece determinati da un insieme di spinte espulsive e attrattive che nascono dagli squilibri sempre più gravi del mondo attuale.

Rispetto al rapporto Brandt del 1980 lo squilibrio Nord-Sud, che già allora era stato indicato come preoccupante, è oggi moltiplicato e aggravato da politiche di neoimperialismo senza freni che si esercitano perfino con mezzi militari in assenza di un controllo internazionale efficace e in presenza di una crisi crescente e di una “delegittimazione” degli organismi sovranazionali abilitati ad occuparsi di pace e diritti umani. Si è cioè imboccata una strada opposta a quel Rapporto che invitava il Nord a collaborare con il Sud del mondo nel suo stesso interesse. Secondo l’ultimo rapporto sull’economia mondiale (World Developement Report 2004) il differenziale tra ricchi e poveri è sempre più elevato (7 a 1) e peggiorate sono i servizi e la qualità della vita nel Sud del Mondo[4].

Si assiste sempre di più al ricorso della forza per risolvere le tensioni internazionali e alla politica del più forte nei rapporti economici.

Decine di guerre “dimenticate”, aree geografiche sempre più grandi in difficoltà economiche e sanitarie, tensioni politiche irrisolte non possono che provocare esodi massicci da molte zone del mondo verso le poche regioni “fortunate”.

Senza poi dimenticare i 20 milioni di rifugiati che, come ci ricorda Valentina Piattelli, ogni anno l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’ONU sostiene con la sua attività.

L’identità del migrante
Al di là di quanto ci presentano i media, che, come ci suggerisce Anna Meli nel suo intervento, contribuiscono a creare quell’immagine distorta e semplificata di allarme sociale legato alle migrazioni, diventa difficile distinguere il migrante secondo categorie tradizionali e in modo limpido. Non si emigra più semplicemente per lavoro con un progetto migratorio chiaro e preordinato. Le condizioni di esule, di rifugiato, di profugo si mescolano con quelle degli emigranti in cerca di lavoro e di chi cerca un’esistenza più facile e sicura: molti sono nello stesso momento rifugiati politici, profughi da una guerra, persone in cerca di lavoro, esseri umani che desiderano una parte di quel benessere che vedono profuso in abbondanza solo da noi.

Pensare di risolvere il problema della regolarizzazione dei migranti, che arrivano nel nostro paese, con il permesso di soggiorno legato al contratto di lavoro da stipulare prima dell’arrivo mi sembra in questa situazione una pia illusione se non una sottile perfidia che mira ad impedire qualunque accoglienza. Bisognerebbe invece, come suggerisce Alessio gramolati nel suo intervento, modificare la legge  attraverso l’istituzione di un permesso temporaneo per ricerca di occupazione, così come auspicato da un documento del Parlamento Europeo di Strasburgo.

Le ragioni che hanno spinto a questa impostazione del permesso di soggiorno sfuggono alla logica e quindi non possono che essere ricondotte o a un’esigenza demagogica di ricerca di consenso presso l’opinione pubblica più conservatrice, o ad una volontà, non dichiarata, di mantenere il più possibile i lavoratori stranieri in una condizione di irregolarità per meglio ricattarli e sfuggire agli oneri sociali.

E il caso dell’aumento delle migrazioni femminili sembra legato proprio alle esigenze di flessibilità richiesta dall’economia globale, per la loro accettazione, a causa della mancanza di specializzazione e a causa del peso delle cure domestiche, di lavori precari e sottopagati, per la loro disponibilità a svolgere la loro attività nei diversi settori dei servizi anche in situazione di irregolarità, come ci avverte Matilde Callari Galli nel suo saggio.

I risultati sono un aumento degli irregolari, una difficoltà quasi insormontabile per molti onesti cittadini a usufruire del lavoro degli stranieri, l’aumento di forme illegali di lavoro, la presenza di un numero sempre più elevato di persone disponibili a qualunque attività retribuita anche disonesta.

Solo facilitando la regolarizzazione e l’integrazione che si combatte il diffondersi della delinquenza tra gli immigrati. Non è solo un problema di espulsioni facili o di controlli di polizia: la nostra sicurezza passa dalla strada dell’accoglienza e dell’integrazione.

Una società multiculturale
Una società multietnica e multiculturale non può essere semplicemente impedita, è un’evoluzione inevitabile tipica di un mondo globalizzato, ma può anche diventare una ricchezza per tutti se opportunamente favorita e organizzata.

Le religioni e le filosofie più avvertite ci ricordano che la nostra salvezza passa per la salvezza di tutti gli altri; Franco Toscani ci riporta, nel suo intervento, un detto del buddhismo che suona: “badando a se stessi si bada agli altri, badando agli altri si bada a se stessi”.

Certo non si può pensare di convivere con i “diversi” se non si favorisce la conoscenza reciproca e utili sono allora tutti quegli strumenti che ci avvicinano alle culture diverse o favoriscono l’informazione dei servizi e delle regole del paese ospitante, come la Guida ai servizi per l’immigrazione nella città di Firenze, presentata in questa sezione da Roberto Mosi, o i numerosi siti web sull’immigrazione gestiti da amministrazioni o associazioni di cui ci parla Costanza Mosi.

Ma è necessario anche aprirsi al dialogo e evitare di arroccarsi intorno ai nostri simboli e credenze considerate assolute. Il dibattito sorto intorno al crocifisso nelle aule scolastiche oltre ad essere una polemica inutile non ha fatto altro che sottolineare il nostro provincialismo, l’incapacità di guardare lontano e di confrontarsi con gli altri, l’insicurezza di molti di fronte al diverso[5]. Non è con l’abolire i nostri simboli ma neppure con l’arroccamento cieco intorno ad essi che si risolve il dialogo interculturale e interreligioso necessario alla convivenza pacifica. Sono pericolosi tutti quegli atteggiamenti che spingono allo scontro, che vedono negli altri dei nemici. E non giova essere assimilati alle posizioni dell’attuale dirigenza degli USA che sembra avvalorare le tesi di chi interpreta la sua politica come uno “scontro di civiltà”.

Ecco che il ruolo della scuola potrebbe risultare decisivo, sempre più alunni stranieri frequentano le nostre aule e sarà essenziale che gli insegnanti si trovino preparati a creare quel clima di convivenza, di rispetto reciproco e di dialogo che potrà diventare la base per l’integrazione nella società degli adulti. Una didattica interculturale sembra ormai irrinunciabile se vogliamo davvero imboccare una strada di pace e sicurezza[6].

Ai nuovi venuti dovrà essere concessa la possibilità di manifestare le loro forme culturali e religiose: favorire la costruzione di luoghi di culto, permettere il rispetto di obblighi religiosi o culturali (come i divieti alimentari o periodi di digiuno) non possono che aiutare la convivenza. Anche l’uso del velo come forma religiosa non può essere ostacolato e possono risultare pericolose campagne contrarie come quelle nate in Francia in nome della difesa dei diritti della donna e della laicità dello Stato[7].

Agli immigrati, a cui sarà permesso con più giustizia e facilità regolarizzarsi e risiedere stabilmente, dovranno anche essere riconosciuti tutti i diritti dei cittadini italiani, compreso il diritto di voto.

A loro volta gli stranieri che vogliono stabilirsi in Italia dovranno impegnarsi a rispettare le regole, le leggi e le consuetudini dello stato di cui vogliono far parte (i problemi di sicurezza e di ordine pubblico, ovviamente, esistono e non devono essere dimenticati in qualunque politica seria ed efficace[8]).

L’integrazione è sempre stato un processo lento e difficile e non sempre riesce, soprattutto se non si segue questo delicato equilibrio di rispetto reciproco, di ricerca di mantenimento dei principi propri e nel contempo di assimilazione dei valori comuni. Non mi convince per molti aspetti l’esperienza francese che obbliga gli stranieri a spogliarsi della loro cultura e ad assimilare in tutto quella francese: può essere una semplificazione che porta a creare un’identità certa ma a costo della perdita delle ricchezze delle altre. Neppure mi piace un moltiplicarsi di piccole realtà culturali ancorate a tradizioni lontane, separate le une dalle altre, come avviene nei quartieri etnici americani o inglesi (China Town, Little Italy, i quartieri pakistani del film East is east  ecc.)[9].

Sono convinto che le difficoltà siano molteplici, come ci ricorda anche Andrea Bigalli dal suo osservatorio privilegiato della Caritas, ma vale la pena provarci: è ancora una scommessa tutta da vincere quella di una vera comunità multietnica armonica e rispettosa delle culture reciproche, in cui ci si riconosce in alcuni valori comuni, si rispettano le stesse regole, si hanno gli stessi diritti, ma si mantengono anche alcune delle proprie tradizioni e conoscenze pur in un quadro di irrinunciabile e condivisa laicità. E’ un risultato difficile da realizzare, è come il “sogno” di Martin Luther King, ma è l’unica strada valida da percorrere se vogliamo costruire un mondo più giusto e, insieme, più sicuro.

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[1] Sulla complessità del problema “Migrazioni” “Testimonianze” ha dedicato molte pagine in varie occasioni, ricordiamo il volume monografico del 1990 Immigrazione e razzismo in Italia, nn. 323-324 a cura di Maurizio Bassetti, il dossier I “barbari” nostra speranza? Immigrazione e cultura della convivenza, a cura di M. Bassetti 390/1996, il saggio di M. Bassetti, Immigrati, nostra speranza? in “Testimonianze”, 421-422/2002 e la voce Migranti nel Dizionario-Atlante dello Sviluppo Umano, quaderno tematico speciale di “Testimonianze”, settembre 2003.

[2] Un esempio del difficile rapporto con le questure si può ritrovare nel piccolo volumetto di Vincenzo Passerini, Anch’io in fila alle sei, edito in proprio da Passerini (passvinc@libero.it) e stampato da Tipoffset Moschini, Rovereto (TN) 2003, in cui si riporta il diario di una campagna stampa contro le file degli immigrati davanti alla questura dal 26 giugno al 13 agosto 2001.

[3] Un recente esame della legge Bossi-Fini può essere trovato nel libro di Luigi Muggini, Non passa lo straniero, Edizioni la meridiana, Molfetta (BA) 2002, utile anche la Guida ragionata al testo unico sull’immigrazione edita dal Comune di Firenze Immigrazione. La normativa. a cura di Luigi Mughini e Anna Zucconi.

[4] Si vedano le considerazioni di Massimo Livi Bacci, Nel Terzo Mondo sale il reddito ma i poveri restano poveri, in “la Repubblica” 22 ottobre 2003.

[5] Si vedano ad esempio gli interventi su “la Repubblica” di Bernardo Valli, che affermava che la sentenza contro il crocifisso “può apparire come un atto di sottomissione, una concessione alla nuova comunità immigrata che si espande in tutte le contrade europee, accompagnata da tanti pregiudizi” e di Ilvo Diamanti che lamentava che la sentenza “è destinata ad alimentare ulteriori polemiche sul tema dell’immigrazione. Rischia, in particolare, di rilanciare l’idea di relazioni interetniche segnate da diffidenza e chiusura” (“la repubblica” 26/102003).

[6] Si vedano gli esempi di lavoro interculturale e di inserimento degli stranieri nella scuola italiana di Graziella Favaro e Mauro Sbordoni nella sezione monotematica L’identità perduta: scuola e formazione in Italia, “Testimonianze” 430-431.

[7] Anche Adriano Sofri sostiene la sua perplessità su questa battaglia “laicista” in Francia e riconosce più giusto che l’Europa sia “un posto in cui i cittadini manifestino contro l’imposizione del velo alle donne, in qualunque punto del mondo, e, per la stessa ragione, manifestino contro il divieto del velo, in qualunque punto del mondo” (Il velo delle donne che divide l’Europa in “la Repubblica” 20 ottobre 2003).

[8] Si veda in proposito il dossier In tema di sicurezza in “Testimonianze” n. 416

[9] Si veda anche il parere di Miriam Mafai che a proposito della questione del velo auspica un modo diverso di affrontare la questione del rispetto delle culture nei paesi europei: “evitando sia il modello assimilazionista, tipico della Francia, sia quello multiculturalista, tipico della Gran Bretagna. Ambedue i modelli infatti stanno rivelando le loro difficoltà. Da una parte con la guerra del velo, dall’altra con la richiesta avanzata dall’Unione delle organizzazioni musulmane d’applicare ai musulmani cittadini del Regno Unito il diritto di famiglia islamico” (Ma il velo non è la minigonna in “la Repubblica” 23 ottobre 2003.